Testo di Margherita Falqui —
Il lavoro e la ricerca dell’artista rumena Adina Pintilie si muove da tempo nell’ambito delle poetiche e delle politiche dei corpi, dell’intimità, dell’empatia, della sessualità e anche del tema, attualmente particolarmente caldo, della cura. Il primo lavoro che la maggior parte del pubblico internazionale può aver incontrato è il suo primo lungometraggio Touch Me Not, vincitore dell’Orso d’Oro alla Berlinale del 2018. Il film è il risultato di una lunga pratica di costruzione di comunità che porta avanti l’artista, comunità composta da persone con cui lavora a stretto contatto da anni, una comunità di parentele promiscue, al di là dei legami di parentela “naturale”: alleanze lontane dalla logica della somiglianza e della consanguineità, basate piuttosto su forme e pratiche di cura. Genera così una sorta di grande famiglia allargata reminiscente dell’oddkin harawayano, fatta di persone, performers, persone queer, sex workers, persone con disabilità, con malattie autoimmuni: persone e corpi non conformi, extra-ordinari. Questa è la costellazione di figure attorno alle quali Pintilie focalizza il proprio sguardo, personale e registico, lavorando in maniera poco convenzionale, immersiva, partecipata, ribaltando costantemente i ruoli e le gerarchie, con metodologie che contribuiscono a sfocare costantemente i confini tra realtà e finzione, vita vissuta e performance. Le persone che sceglie sono seguite nel loro intimo, in potenti esplorazioni di sessualità, affettività, intimità, traumi ed empatia che passano attraverso svariate configurazioni e modalità relazionali, dalla conversazione al tocco, la cura, la danza o il sesso.
Ultimamente ha fatto piuttosto parlare di sé l’ultimo suo lavoro, celebrazione dei corpi e dello stare insieme intimamente e oltre i confini e il binarismo, scelto per rappresentare la Romania alla Biennale di Venezia del 2022, Il latte dei sogni. Questo lavoro, curato da Cosmin Costinaş e Viktor Neumann e intitolato You are another me – A Cathedral of the Body, prende la forma di complessa installazione video multicanale e di sua estensione come esperienza di realtà virtuale. Il lavoro è un invito all’autoriflessione e consente di approfondire i processi di visione e i legami di intimità, permeando lo schermo-confine tra pubblico e protagonisti e costringendo al contempo ad avvicinarsi agli schermi e a calarsi nelle persone e nei corpi rappresentati. Sono megaimmagini che seguono le storie, le vite, le relazioni, l’intimità di varie persone e coppie. Immagini di una persona con disabilità, di una coppia omosessuale, di una donna intenta a ricucire il rapporto con la propria corporeità e sessualità… immagini di corpi ammalati, ricostruiti, queer, nudi e messi a nudo, traumatizzati, vulnerabili. Immagini potenti, che scioccano o commuovono il pubblico, difficilmente lasciano nell’indifferenza.
L’oggetto della visione si sposta di continuo su persone e corpi diversi, seguendone le storie e le trame relazionali, andando a coinvolgere anche la stessa artista. Adina Pintilie è infatti sia regista che paziente, coinvolta nel processo di cura al centro della sua opera. È infatti questo un lavoro che comprende anche una riflessione sulle dinamiche dello sguardo tra chi filma e chi è filmato, chi guarda e chi è guardato, e dunque tra chi viene rappresentato e chi ha facoltà di rappresentare. Pintilie crea un dispositivo che chiama direttamente in causa, costringe all’immedesimazione e al coinvolgimento personale, a farsi protagoniste e protagonisti: si ispira così a uno sguardo introspettivo e autoriflessivo, all’urgenza di un lavoro sul sé, di cura del sé.
Sono del resto molteplici gli aspetti relativi alla cura, quella personale e quella collettiva e politica, presenti nell’opera, tra cui rientra la declinazione e interpretazione del titolo-tema proposto per questa edizione della Biennale dalla curatrice Cecilia Alemani, Il latte dei sogni, ispirato alle creature fantastiche dell’omonimo libro dell’artista surrealista Leonora Carrington, che tende qui ad un approccio di cura di stampo quasi harawayano. Come per le creature che immagina e disegna Carrington, che possono apparire ibride, inquietanti, perturbanti, “mostruose”, ma sono senz’altro fantastiche e affascinanti, magiche, l’artista ci invita a rivisitare l’idea stessa di mostruoso e decostruirla per empatizzare, accettare, imparare a conviverci, riconoscerla in sé. Ci propone di guardare ai corpi che rappresenta – il corpo patologizzato, il corpo omosessuale, il corpo disabile, il corpo traumatizzato – e di approcciarli con cura ed empatia. Gli costruisce una cattedrale in cui celebrarli.
La spinta ad attuare questa riflessione è coadiuvata dalla dinamica che caratterizza il lavoro, una dinamica doppia, di ricerca che guarda verso l’esterno, l’estraneo, il corpo altrui, ma riporta costantemente a uno sguardo introspettivo e autoriflessivo, a una cura di sé foucaultiana. Vi è una costante tensione tra dimensione personale e collettiva, che si manifesta nello sguardo: nell’osservare altre persone guardare, essere a propria volta guardati osservare (dal pubblico con cui si condivide lo spazio dell’installazione ma anche dagli stessi personaggi del video, che bucano lo schermo con i propri sguardi intensi, ingaggianti e direttamente coinvolgenti). Si è visti e si vede sempre al contempo. Si è al tempo stesso soggetto e oggetto dello sguardo: la regista stessa è spesso ripresa nell’atto di filmare, registrare, osservare, e poi ribalta la sua posizione divenendo per un attimo oggetto dello sguardo filmico, confessando quanto faccia paura sentirsi osservata, potenzialmente giudicata. Questo chiama in causa ad interrogarsi sullo sguardo, sul potere dello sguardo – del fissare – di escludere, giudicare e rendere mostruoso. L’opera suggerisce che forse è arrivato il momento in cui non si deve avere paura dell’altrə, ma piuttosto del nostro sguardo.