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Una mattina d’Aprile nella memoria delle cose | Chiara Bettazzi alla Galleria Nazionale

Testo di Mirco Marino — Quali radici si afferrano, quali rami cresconosu queste rovine di pietra? (T.S. Eliot, La terra desolata, 1922) Ho assistito da spettatore a parte dell’ideazione della mostra Surplace di Chiara Bettazzi a cura di Saretto Cincinelli, in silenzio ho osservato i movimenti e gli spostamenti che gli oggetti, le piante, i […]

Veduta dell’esterno del giardino su cemento di Chiara Bettazzi
Veduta della Corte di Via Genova, Prato

Testo di Mirco Marino —

Quali radici si afferrano, quali rami crescono
su queste rovine di pietra?

(T.S. Eliot, La terra desolata, 1922)

Ho assistito da spettatore a parte dell’ideazione della mostra Surplace di Chiara Bettazzi a cura di Saretto Cincinelli, in silenzio ho osservato i movimenti e gli spostamenti che gli oggetti, le piante, i gatti dell’artista subivano di volta in volta in quello che è il suo studio, la sua casa e infine la sua opera.
Una tiepida mattina di Aprile ho parcheggiato la mia macchina all’ingresso della corte di Via Genova 17 a Prato e ho attraversato la sbarra metallica che rappresenta quella soglia minima tra l’interno con i suoi capannoni industriali, studi d’artista, spazi dell’artigianato; e l’esterno, la città coi suoi autobus, le sue ciminiere e i suoi ritmi provinciali di agglomerato urbano.
La sbarra è di per sé un oggetto particolarmente inesistente, blocca il passaggio a ciò che è troppo ingombrante ma consente a chiunque di entrare e uscire dallo spazio aperto della corte. La soglia dell’intero luogo si contraddistingue quindi come porosa, che consente un flusso filtrato tra dentro e fuori. Questo è già un carattere importante di quello spazio nello spazio che è la corte di Via Genova, un piccolo mondo complesso in cui convivono realtà separate ma vive nello scambio e nell’incontro.
All’esterno dell’edificio che ospita lo studio di Chiara Bettazzi, l’artista ha progettato un giardino su cemento che s’impone come soglia che ridefinisce la percezione spaziale di chi la attraversa. Attorno a un cipresso centrale si sviluppa un piccolo labirinto naturale, degli stretti sentieri portano attraverso piante, canne da fiume, cactus, aloe, agave, sansevieria, un gazebo coperto da edera, fino a intuire una porta in ferro, anche questa incorniciata tra canne e piante rampicanti. Un tavolino all’esterno con un posacenere d’artista di Emanuele Becheri e delle sedie spaiate di altri tempi esprime quell’aria conviviale e creativa che caratterizza lo spazio dello studio, un luogo in cui di anno in anno crescono e germogliano nuovi progetti e nuove opere. Il giardino esterno si presenta come una ricostruzione di un habitat che si oppone allo spazio industriale in cui ha sede, ma è a ben guardare un’opposizione che si dà solo sul piano del tempo presente, poiché il naturale è sia anima passata che futura del luogo. Il connubio vitale di naturale e artificiale che si instaura dà spazio a un sentire senza tempo, ed è proprio così che l’iniziazione è completa, e si è pronti ad attraversare la soglia dell’edificio e fare l’ingresso al bianco mondo degli oggetti scordati di Chiara Bettazzi.
L’edificio industriale è dei primi del Novecento, la ristrutturazione portata avanti dall’artista dal finire degli anni Duemila sembra basarsi sul pensiero dell’intervento minimo. Il processo somiglia molto di più a un’operazione di restauro che mira a valorizzare lo spazio industriale come forma autonoma da preservare piuttosto che da coprire o rinnovare. Questo sottolinea un carattere fondamentale della ricerca dell’artista che si avvicina al sentire archeologico, in cui le cose esistono nella loro storia, che deve essere esaltata piuttosto che nascosta, in un presente stratificato dal tempo in cui ogni strato è parte di un processo che lo ha portato ad esistere nella propria condizione odierna.

Interno dello studio di Chiara Bettazzi

Entrando, la visione è quella di uno spazio ampio e aperto sezionato dalla presenza di oggetti, istallazioni, opere in divenire o opere che ancora non sono opere, e che forse non lo saranno mai, sono frammenti di un continuo cambiamento di stato, di modifiche successive dell’oggetto nello spazio. L’openspace si divide tra l’arioso spazio centrale, una cucina colma di utensili e un deposito che è sia catalogo che archivio in cui ogni oggetto è classificato e posto ordinatamente nella sua posizione: i legni, rami e foglie su un lato con gli oggetti più ingombranti, dal lato opposto colonne, gessi e vasi, e sulla parete di fondo i vetri, bicchieri, vasetti ordinati e coordinati per forma e colore. Tutto sembra possedere il senso della propria sistemazione. Una vetrina contiene barattoli al cui interno crescono delle piante il cui stato esistenziale è posto come domanda, la vita di questi piccoli straordinari germogli si lascia guardare da dietro al vetro, che li pone sia come oggetti in un teca museale, e quindi precisamente scelti dall’uomo, che come gemme casuali di esistenza, e quindi accidenti della natura.
Per tutto il mese di Aprile sulla parete che fa da sfondo alle nature morte di Chiara Bettazzi erano appese delle prove di stampa in varie dimensioni in preparazione alla mostra Surplace esposta oggi nel corridoio Bazzani della Galleria Nazionale fino a Settembre 2022. Là nello studio quelle nature morte interrogavano con interesse lo spazio, muovendosi tra presentazione e rappresentazione. Gli oggetti stipati nel deposito erano stati una volta davanti a quel muro, posti immobili con pazienza, forse per giorni, fino alla corretta illuminazione naturale e allo scatto fotografico. O forse per un secondo, un prova istantanea di disposizione. In quel momento erano rappresentati in una foto appesa al muro stesso, uno specchio del tempo trascorso, stratificazioni dimenticate ma che una volta, nel tempo avevano occupato quello spazio. 
Il curatore Saretto Cincinelli e l’artista Chiara Bettazzi erano intenti a dialogare sull’allestimento previsto per lo spazio progettato da Bazzani all’inizio del secolo scorso. Cesare Bazzani ha ideato La Galleria Nazionale in funzione dell’illuminazione naturale, così il museo è esposto a sud-est secondo precisi cardo e decumano che strutturano visuali prospettiche. Il corridoio del museo presenta ritmicamente delle ampie finestre che consentono un’illuminazione omogenea dello spazio e della parete opposta. Le nature morte di Chiara Bettazzi, Still LifeA tutti gli effettiAste ed Equilibri precariElevazioni (2022) prodotte tra il 2020 e il 2022 vivono dell’illuminazione naturale che le inonda. Il luogo scelto per la mostra risulta così perfettamente coerente con la ricerca artistica: esiste una modalità espressiva dell’artista di interrogare lo spazio rappresentato dell’inquadratura fotografica in relazione allo spazio presentato dell’istallazione che fa eco a una ricerca che impone una naturalità d’intervento e che sembra essere mantenuta nel montaggio complessivo dell’esposizione nello spazio museale.

Opere dalle serie Still Life, A tutti gli effetti, Aste (2020-22) – Foto di Daniele Molajoli

A livello contenutistico la ricerca di Chiara Bettazzi esplora dei cambiamenti successivi. Le nature morte iniziali sfruttano la dimensione oggettuale per investigare lo spazio della rappresentazione. Le cose che appaiono davanti all’osservatore sono oggetti quotidiani che hanno perso il loro uso, che sono stati dimenticati dal tempo, che hanno vissuto in passato in funzione dell’uomo una parentesi della loro esistenza in quanto oggetti, e poi scordati, fino a che la natura non gli ha ricoperti, non ne ha fatto altro al di là dell’umano, e infine riscoperti come reperti ed elevati a oggetto artistico, in una dinamica infinitamente umana e infinitamente naturale. Il modo in cui l’artista si prende cura degli oggetti dimenticati è identico al modo in cui si è presa cura dello spazio del proprio studio, preservando quell’autonomia archeologica. Di volta in volta, col passare del tempo, la dimensione oggettuale estende il proprio dominio, e nell’inquadratura entrano prima il movimento e poi il mondo animale: un gatto gioca con un ramoscello. Per arrivare infine alle Elevazioni in cui l’artista entra nella composizione innalzando gli oggetti come “trofei surrealisti” come indica Saretto Cincinelli. Il baricentro si sposta quindi verso una componente performativa/corporea che risulta ad ogni modo estremamente legata alle istanze oggettuali che mantengono il ruolo di protagonista all’interno dell’opera.
In Surplace lo spazio espositivo è occupato delicatamente. Trentasei opere si dispongono ordinatamente a gruppi lungo un’unica parete rispettandone il ritmo. Ogni gruppo di opere è quindi posto di fronte a una finestra che dà su un giardino interno. Non esiste una vera e propria prescrizione di visita, non è necessario percorrere “nel senso giusto” la mostra. L’effetto globale che l’esposizione sviluppa è di una sorta di gentile monumentalità: ogni opera è in scala 1:1, ciò significa che lo spazio interno di ogni opera è quello reale. La disposizione a griglia in una sorta di quadreria scompone la disposizione del reale in un quadro che complessivamente moltiplica la dimensione effettiva nel numero di volte in cui si ripete. Così se nell’opera unica la dimensione rappresentata è pari a quella della realtà, nel montaggio proposto nel corridoio del museo romano la dimensione effettiva è quella di uno spazio trentasei volte maggiore proprio come risultato di un montaggio che ha a tutti gli effetti un ritmo cinematografico.
L’impressione che si ha nel passaggio dallo studio di Chiara Bettazzi al museo è quello di una colonizzazione che va a ritroso nelle pieghe del tempo. Gli oggetti rinascono in una dinamica spazio-temporale: dal tempo dell’abbandono allo spazio dell’archivio, dallo spazio dell’istallazione al tempo fermo della fotografia, infine dallo spazio archeologico-industriale dello studio a quel tempo fuori dai cardini dell’allestimento della collezione de La Galleria Nazionale.
Il lavoro curatoriale che riecheggia una poetica del montaggio è ben assestato su una pratica che si trova sempre in quella distanza tra istallazione e fotografia in cui quest’ultima è forse il mezzo più simbolico per rappresentare la prima, il mezzo che riduce maggiormente quella distanza, che è, in fondo, la distanza tra l’oggetto in sé e il suo racconto.
La mostra Surplace è quindi l’esposizione di opere profondamente legate allo spazio della propria creazione come allo spazio interno rappresentato. In questo caso millennial di natura morta, questa si distacca dai sentimentalismi neoclassici per aprire invece a una riflessione del tutto contemporanea sull’oggetto, sulle relazioni antropocentriche che legano l’umano alle cose, e sulla memoria che è infine evocata in quelle delicate faglie di tempo che Chiara Bettazzi rende evidenti e che pertiene tanto al soggetto quanto all’oggetto in sé.

Veduta della mostra Surplace a La Galleria Nazionale – Foto di Daniele Molajoli
Opere dalla serie Equilibri precari. Elevazioni (2022) – Foto di Daniele Molajoli