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Intervista ad Agnese Spolverini | Per riconoscersi nel buio

Di Francesca De Zotti — È in corso fino al 26 settembre Per riconoscerti nel buio, intervento site-specific di Agnese Spolverini, a cura di Andrea Croce, nel borgo di Abbateggio, in Abruzzo. Il progetto è stato realizzato nell’ambito della seconda edizione di Una boccata d’arte, in collaborazione con Galleria Continua e Fondazione Elpis.In occasione della […]

Di Francesca De Zotti —

È in corso fino al 26 settembre Per riconoscerti nel buio, intervento site-specific di Agnese Spolverini, a cura di Andrea Croce, nel borgo di Abbateggio, in Abruzzo.
Il progetto è stato realizzato nell’ambito della seconda edizione di Una boccata d’arte, in collaborazione con Galleria Continua e Fondazione Elpis.
In occasione della mostra ho posto alcune domande all’artista in merito a questo progetto, alla sua ricerca e ad alcune tematiche con cui si è confrontata nei suoi lavori più recenti.

Agnese Spolverini, Untitled (crumpled), 2019. Veneziana, tappeti, led, audio (10’22’’), dimensioni variabili. Courtesy l’artista. Ph. Alessandra Draghi.

Untitled (crumpled) è il lavoro attraverso cui ti ho conosciuta. Entrando nello spazio in cui era allestito, mi sono ritrovata in un piccolo ambiente quasi domestico per via della presenza di una veneziana e di un tappeto. Oltre a questi oggetti, l’opera presentava anche una controparte sonora che, a mio avviso, racchiude l’enigmaticità del lavoro. Inizialmente simile a un lento gocciolare d’acqua, a un ascolto più accurato il suono tradisce l’azione intima del bacio. Quando hai iniziato a lavorare con il suono e che ruolo ha all’interno della tua ricerca?

Ho iniziato a lavorare con il suono nel 2018, con Quando non ci sono, nella mia stanza accadono i tramonti, e pensando al ruolo che ha nel mio lavoro riesco a inquadrarlo meglio solo a posteriori. Sicuramente mi interessa la sua capacità di provocare una sensazione fisica. Penso a La luce della sera mette il mondo in disordine in cui questo fattore è veramente esplicito. In quel lavoro sono stata aiutata da una youtuber, che si occupa di ASMR, che ha registrato la traccia. Di quel suono mi interessava proprio la capacità di innescare una reazione nel cervello che poi ovviamente veniva trasmessa a tutto il corpo, rendendo il suono tattile. 

Ecco, questo farsi toccare dal suono, esserci dentro, avvicinarsi, invischiarsi con esso e permettergli di innescare qualcosa – una reazione, un’emozione, che poi sono la stessa cosa – sono alcuni degli aspetti che mi interessano di più.
Poi ci sono le mie motivazioni. Quello che personalmente mi porta a usarlo credo sia il fatto che mi consente di usare il mio corpo, di farlo attraversare da una serie di stimoli e suggestioni che mastico, interiorizzo e poi ributto fuori in forma sonora. Inoltre, mi dà la possibilità di lasciare una traccia fantasmatica, evocativa e rarefatta di me. Mi lascia scomparire e apparire allo stesso tempo e questo credo faccia parte della parte processuale più intima del mio modo di lavorare.

Agnese Spolverini, Quando non ci sono, nella mia stanza accadono i tramonti, 2018. Video (4’11’’), piante, sdraio, scrivania, sedia, quaderno, lampada, proiettore, computer, casse, cavi, dimensioni variabili. Courtesy l’artista.
Agnese Spolverini, La luce della sera mette il mondo in disordine, 2019. Legno, led, edera, audio (3’ 51’’), 180x150x20 cm. Courtesy l’artista. Ph. Luigi Varacalli.

Il suono è l’elemento chiave anche di un tuo lavoro più recente, La Boum, presentato in occasione della mostra Pillows like Pillars, curata da Stefano Volpato presso Barriera a Torino. La traccia audio è una tua personale reinterpretazione della canzone Reality, tratta da Il tempo delle mele, film cult degli anni Ottanta. Attraverso la tua cover, passato e presente arrivano a sovrapporsi e, mescolandosi, creano una sorta di disorientante temporalità. Cosa ti ha colpito di questo brano, e dell’immaginario che veicola, al punto da volertene “appropriare”?

In realtà, per me il brano è una classica ballata anni Ottanta, senza alcunché di speciale. Penso che, più che la canzone in sé, abbia agito su di me l’immagine cult del film. So di non parlare a nome di tutte le generazioni, ma per noi – generazione millennial – quel film fa parte di un immaginario ben preciso, il tempo mitico dell’adolescenza umana che corrisponde in un certo senso a quello dell’adolescenza della fine del mondo.

Inoltre, mi interessava soprattutto ricreare la scena in cui Vic (Sophie Marceau) viene trasportata in un altro luogo: dalla festa divertente e piena di persone a un altrove dolce e romantico. Con la differenza che mentre ne Il tempo delle mele lei in quell’altrove arriva grazie a un altro, Mathieu (Alexandre Sterling) – che le mette le cuffie e la porta in un posto magico -, nella mia ipotesi questo posto lo si raggiunge da solə e non è poi così magico; a tratti è sì seducente, ma inciampa su se stesso e rompe l’incanto. E quindi quella scena del film, che è ripresa non solo dal suono ma anche dal resto dell’installazione, è un pretesto per evocare una nostalgia che è in qualche modo un disperato tentativo consolatorio rispetto all’impossibilità di immaginare un futuro.

Installation view di Pillows like pillars. Courtesy Barriera. Ph. Studio Abbruzzese
Agnese Spolverini, La boum, 2021. Cuscino, faretto, cuffie, mp3, audio, dimensioni variabili. Courtesy Barriera. Ph. Studio Abbruzzese

Come già accennato, molte delle tue opere si compongono di oggetti o immagini che evocano un ambiente domestico, spesso però accompagnati da un filtro nostalgico e malinconico. In che modo la tua idea di casa e di abitare, che emerge in opere come Quando non ci sono nella mia stanza accadono i tramonti o in Untitled (crumpled), si relaziona con l’idea che comunemente ne abbiamo?

Esasperano l’idea di casa come luogo intimo, nido e rifugio. Ma allo stesso tempo la malinconia, che molto spesso emerge, può essere dovuta al fatto che la casa come nido e rifugio corrisponde a un’idealizzazione. Quel concetto di casa e di abitare sono riferiti a un altrove che moltə di noi non esperiscono per davvero e quindi evocare l’ambiente abitativo in questi termini parla di desiderio e di necessità. Congiuntamente a questa tensione verso un luogo in qualche modo irraggiungibile, dell’ambiente domestico mi interessa il poter lavorare con oggetti banali e quotidiani per permettergli di fare un piccolo, discreto, salto nell’improbabile, compiendo spostamenti nel loro utilizzo che siano in grado di fargli assumere significati altri rispetto al loro uso comune; significati che possono essere misteriosi, intimi, emotivi e che li rendono in qualche modo vivi e sensibili.

Agnese Spolverini, Tendostruttura per la separazione dei corpi ma non degli spiriti, 2020. Legno, cuscini, coperte, lenzuola, tende, 3,5 x 2,5 x 2,8 m. Courtesy l’artista. Ph. Martina Isernia.

I tuoi lavori, anche quando sono inseriti all’interno di uno spazio espositivo, instaurano una relazione profonda e intima con il pubblico, stimolandolo sia da un punto di vista percettivo che emotivo, tant’è che hai affermato che ti piace immaginare quello che fai “come una conversazione tra due amanti, l’opera e lo spettatore”. Che ruolo ha il pubblico nel definire il tuo lavoro?

Il pubblico è l’attivatore del mio lavoro, il passaggio ultimo per cui e tramite cui prende forma e senso. Anche quando non è esplicito, mi sembra di cercare sempre un contatto con chi si trova di fronte a quello che faccio.
Gli oggetti e le situazioni su cui lavoro non hanno senso di esistere se non vengono date in pasto, se non sono toccate e attraversate dal pubblico, in quanto ritengo che inevitabilmente l’arte debba essere un’esperienza estetica e quindi relazionale. 

Agnese Spolverini, Buio (microazione in due atti), 2021. 50 luci LED, martelli, testo su carta e acrilico fluorescente, dimensioni variabili. Courtesy Cantieri d’Arte. Ph. Chiara Ernandes.

Buio (microazione in due atti) è un lavoro che infatti non può prescindere dal suo coinvolgimento. Qui le persone sono state chiamate prima a esprimere un desiderio, distruggendo e quindi spegnendo le luci disposte nella piazza, poi a partecipare a una lettura pubblica come atto distensivo. L’opera si confronta con l’idea di rifugio, tema già evocato dal “fortino” fatto di lenzuola, coperte e cuscini di Tendostruttura per la separazione dei corpi ma non degli spiriti, che rievocava i luoghi dell’infanzia proponendo nuovi spazi di relazione. In che modo il buio, comunemente associato a qualcosa di negativo e spaventoso, diviene un luogo sicuro, uno spazio in cui rifugiarsi e riconoscersi?

Diviene luogo sicuro perché il buio può essere un involucro protettivo, in cui non essere esposti e sorvegliati. Può essere lo spazio in cui lasciarsi andare, farsi sedurre e cercare di liberarsi e anche esplorare, godere, soffrire, piangere. Non ho nulla contro la luce – più che altro me la prendo con i dualismi oppositivi – però mi sembra che l’universo luminoso porti con sé l’inevitabile rimozione di alcune emozioni come la tristezza e il dolore, che abbiamo deciso in qualche modo di demonizzare, non considerando che sono solo alcuni dei tanti stati che attraversano le nostre esistenze, necessari anch’essi.
E quindi il buio diventa uno spazio sicuro dove è possibile prendersi cura anche di questi aspetti, nel quale si può lasciare andare lo strapotere della vista per affidarsi a tutti gli altri sensi e farsi attraversare da quello che ci circonda, comprendendolo o toccandolo in maniera diversa rispetto al nostro agire in piena luce.

Agnese Spolverini, 9. Per riconoscerti nel buio, 2021. Alluminio, forex, led, 210 x 170 x 40 cm. Courtesy Fondazione Elpis e Galleria Continua. Ph. Andrea Fiordigiglio.

Per riconoscerti nel buio è un lavoro che per certi versi mette in atto quell’andare verso di cui parla Alberto Garutti. Scavando nella storia di Abbateggio ed entrando in relazione con i suoi abitanti, sei entrata a contatto con le singole storie di alcune persone che l’hanno abitata. In che modo la vicenda privata e personale di Vincenzo Di Paolo diventa simbolo di una visione corale e collettiva?

Vincenzo di Paolo è stato un tecnico delle miniere, una persona che ha lavorato ininterrottamente e faticosamente; non ha avuto una vita semplice eppure era profondamente innamorato di quel luogo. Dopo la pensione ha iniziato a disegnare e a scrivere compulsivamente, non solo riguardo alla miniera ma anche narrando la vita quotidiana di un’intera comunità; questo è uno dei motivi per cui la sua figura è diventata un simbolo importante all’interno del mio lavoro. Per quello che ho avuto modo di vedere, il suo sguardo sembra quasi quello di un narratore esterno che ha tagliato e cucito le storie della collettività che abitava i paesi della zona, tra cui anche Abbateggio.

Allo stesso tempo, nelle mie ricerche, ho sviluppato un rapporto speciale e immaginario con lui, con la sua memoria sarebbe meglio dire. Per me è stato una guida e, dai racconti che ho ascoltato, mi ha colpito la sua vibrante sensibilità e soprattutto il suo viscerale amore per la minera, su cui si è basato il mio lavoro. È stato un passaggio naturale quello di farmi accompagnare da lui e dal suo sguardo, di farlo mio per poi riconsegnarlo ad Abbateggio, cercando di far emergere il senso della comunità cooperante che si era sviluppata naturalmente in quell’ambiente tanto affascinante quanto terribile.

Progetti futuri?

Sto per abbracciare un altro progetto territoriale a Calderara di Reno, vicino Bologna. Lavorerò nella Casa della Cultura Italo Calvino per Prospettive, un programma di residenza organizzato in collaborazione con Adiacenze. A Calderara cercherò, attraversando alcune tematiche ecologiche, di entrare in contatto con quella realtà. Sto anche lavorando a una traccia sonora che presenterò sempre ad Abbateggio il 26 settembre in occasione del finissage della mostra. 
Ci sono altri progetti in cantiere di cui non posso ancora svelare nulla. 

Agnese Spolverini, Visssh, 2021. Installazione diffusa, 11 elementi, lattice, acrilico, garze, dimensioni variabili. Abbateggio (PE). Courtesy Fondazione Elpis e Galleria Continua. Ph. Andrea Fiordigiglio.

Agnese Spolverini (Viterbo, 1994) vive e lavora a Viterbo. Ha studiato Pittura e Arti Visive Contemporanee presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino. Nel 2019 è stata in residenza presso Viafarini, Milano, e ha esposto nella collettiva Surprize presso il Centro Arti Visive Pescheria, Pesaro, a cura di Umberto Palestini. Nel 2020 ha partecipato a Supercall, a cura di Supergiovane presso Studio 4×4, Pietrasanta, e all’XI edizione del Combat Prize, Livorno, dove ha vinto il premio Art Tracker; inoltre ha presentato un intervento pubblico a Volterra a cura di Daniel Borselli, Martina Isernia e Federica Terone. Nel 2021 partecipa a Un discorso luminoso, Luminaria III edizione, presso Oriolo Romano, a cura di Marco Trulli; espone nella collettiva Pillows like Pillars presso Barriera, Torino, a cura di Stefano Volpato e prende parte a Una boccata d’arte in Abruzzo, progetto di Fondazione Elpis e Galleria Continua.