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Staging the Residency | ghezziagerskov (Alberte Agerskov e Eleonora Ghezzi)

Intervista di Francesca De Zotti e Tommaso Pagani — Durante il vostro periodo di residenza a VIR Viafarini-in-residence avete condotto una ricerca che coinvolge disegno, scultura, installazione e performance attraverso un’indagine che si nutre del dialogo reciproco in un approccio originale. Come si configura questo processo di co-autorialità? Il nostro lavoro è concepito come dialogo […]

Intervista di Francesca De Zotti e Tommaso Pagani —

Portrait, Fabrizio Vatieri

Durante il vostro periodo di residenza a VIR Viafarini-in-residence avete condotto una ricerca che coinvolge disegno, scultura, installazione e performance attraverso un’indagine che si nutre del dialogo reciproco in un approccio originale. Come si configura questo processo di co-autorialità?

Il nostro lavoro è concepito come dialogo attraverso la materia. La pratica artistica è sempre stata il mezzo che abbiamo adoperato per comunicare tra di noi e con il mondo. Durante la residenza in Viafarini abbiamo lavorato in atelier a periodi alterni, senza mai condividere lo spazio, ma lasciando delle tracce di sé all’altra.
L’opera Parts of an alter-ego (or alter-ego in pieces) è nata, ad esempio, quando Alberte ha disegnato il corpo di una donna collegando diciannove fogli di carta. Settimane dopo Alberte ha avvertito un’altra presenza nello spazio: una figura si è aggrappata al disegno, la linea gialla tracciata da Eleonora. La comunicazione tra noi due, che è al centro della nostra riflessione sul rapporto tra individui, si sviluppa nella reazione – talvolta inaspettata – dell’una all’azione dell’altra.

Parts of an alter-ego (or alter-ego in pieces), 2021. Photo credits: Federico Fenucci

La vostra formazione in architettura vi conduce spesso a ragionare sul rapporto tra l’opera e lo spazio, inteso come luogo di dialogo, scambio e conoscenza. In che modo il contesto e la sua narrazione influiscono sulla formalizzazione dell’opera e sulla sua restituzione finale?

Il nostro lavoro spesso tratta l’identità dell’essere umano come qualcosa di relativo, legato a contesti sia culturali che naturali. 
Carcel d’Oro, è forse il progetto che spiega meglio il dialogo con il contesto. Ci siamo appropriate di un promontorio sperduto sulla costa del Cile, nei pressi della casa dove vivevamo all’epoca. Istintivamente abbiamo iniziato a scavare e scolpire la terra, nel tentativo di comprenderla. Mentre seguivamo ciecamente la necessità di sovrapporre al paesaggio una logica imposta, ci osservavamo da lontano: stavamo modificando un paesaggio naturale nella pretesa di raggiungere una comprensione reciproca con la terra.
Abbiamo deciso che, affinché il nostro atto raggiungesse effettivamente la qualità di un dialogo, doveva essere reciproco. Nei dodici mesi successivi all’ideazione dell’opera ci siamo fermate a osservare e a documentare il processo di cancellazione delle nostre tracce per opera della natura. Comunque, queste tracce si leggono ancora oggi – cicatrici nella roccia su cui un tempo abbiamo vissuto.

Carcel d’Oro, 2018

La pietra è il punto di partenza di molte vostre sculture. Scavando e sottraendo materia, l’opera finale arriva a contenere una traccia in negativo del gesto che l’ha plasmata. Ciò che ne deriva non solo semplici oggetti, ma veri e propri attivatori di processi di condivisione e socializzazione, come nel caso di Fire o di Tray for Ashes. Quanto è importante il ruolo del fruitore nell’ideazione dei vostri lavori?

L’aspetto che ci incuriosisce della pietra è che trattiene una concentrazione di tempo: si comprime, oppure si solidifica, fissando un momento – o il passaggio di molti – in una forma finita. Scalfire la pietra è un gesto controverso, lavorarla è un processo faticoso e carico di riflessioni. Studiare l’estrazione della pietra, visitare cave in Italia, Svizzera e Giappone ci ha fatto rendere conto della violenza con cui questo materiale viene estratto. 
La consapevolezza del contesto, insieme ai valori intrinsechi al materiale, crea una serie di condizioni imposte al dialogo con la pietra. Cerchiamo di mantenere evidente questo dialogo nell’uso (o non uso) finale dell’oggetto.
Opere come Fire o Tray for Ashes sono oggetti semplici, ma giocano sull’ambiguità tra l’utile e l’inutile. Il fruitore è a tutti gli effetti invitato a riflettere sul ruolo degli oggetti che lo circondano, e sul proprio ruolo nei confronti di questi.

Tray for Ashes, 2020 – Courtesy: SWING Design Gallery

Per Viafarini Open Studio avete presentato Fields of ashes (or urns), che è indissolubilmente legata a Utopia Intime (or the only attempt of communication) uno scambio epistolare durato 155 giorni dove ogni settimana vi inviavate l’un l’altra sette autoritratti (disegnati uno al giorno). In che modo questi due lavori dialogano e si completano reciprocamente?

Utopia Intime (or the only attempt of communication) è nata come un esercizio – un tentativo di perpetuare l’intimità al di là della distanza fisica, attraverso la ripetizione e l’esplorazione di sé al punto da dissolversi. 
Durante la residenza, a distanza di anni, abbiamo raccolto queste lettere, una corrispondenza senza parole, rilegandole a mano nell’esemplare unico di un libro. 
Al contempo abbiamo deciso di ripercorrere un metodo estremo di comunicazione tra di noi, ideando esercizi che lasciassero trasparire il dialogo attraverso la materia. Le urne in argilla sono uno di questi esercizi: come gli autoritratti, ogni urna è realizzata nella solitudine dell’atelier da ognuna di noi in dono all’altra. Ogni urna contiene le ceneri di un messaggio lasciato da una, letto e bruciato dall’altra. Fields of ashes (or urns), come gli altri esercizi, è dedicata allo sforzo espresso nel raggiungere l’empatia completa con l’altro.

Installation view, Viafarini, 2021