In una brezza leggera è ilsingolare titolo dell’edizione in corso di Conversation Piece, l’appuntamento annuale ospitato presso la Fondazione Memmo che offre una panoramica su artisti italiani e stranieri che hanno scelto Roma come luogo di residenze o ricerca, attraverso opere site-specific o esposte a Roma per la prima volta.
Lo spunto per la mostra di quest’anno (aperta fino al 30 marzo 2025) è un elemento caratteristico romano, il Ponentino, un venticello estivo che soffia sulla Capitale provenendo dal mare e porta sollievo dalla calura estiva. Da qui il titolo,ma il progetto curatoriale vuole andare oltre, molto più in profondità, come ha spiegato Marcello Smarrelli, la brezza infatti è anche l’alito divino nel racconto biblico, Zèfiro nella mitologia, ma anche pneuma-l’origine delle cose in filosofia.
Un tema complesso e dalle tante sfaccettature sul quale gli artisti sono stati invitati ad esprimersi. Diverse le interpretazioni, una tra le più singolari ci accoglie all’ingresso nel cortile di palazzo Ruspoli. Un’opera a più mani, quasi un gioco, in cui Enzo Cucchi, ispiratore dell’operazione, insieme a Andrea Anastasio, Francesco Arena, Marc Bauer, Elisabetta Benassi, Carlo Benvenuto e Domenico Mangano sonointervenuti sullo stesso blocco di pietra della Majella dando vita a Scirocca (2005), dalnome del vento caldo che soffia nel borgo marchigiano di Castellammare in cui l’opera è stata concepita.
Molto delicata e poetica è l’installazione site-specific di Bianca Bondi (1986), artista che cerca di dare agli oggetti inanimati nuova forza vitale attraverso reazioni chimiche, creando ambienti che invitano alla contemplazione. Mazzi di fiori artificiali appesi a testa in giù sono collegati da spaghi a contenitori in vetro di varie dimensioni. Nei vasi una soluzione salina che nel tempo, cristallizzandosi sullo spago, da forma a quello che l’artista ha definito “il respiro dei fiori” sospesi nello spazio, Pneuma (2024) appunto.
Invita quasi a ballare Give me a hand to say yes (2024),primo esperimento di expanding painting di Vanessa Garvood (1982),artista dalla pittura vivace ed emotiva, quasi come se un “venticello” avvolgesse le figure disegnate a carboncino sul muro e trasportassero lo spettatore coinvolgendolo nelle danze e avvolgendolo di quella ironia di cui i suoi volti sono portatori.
La seconda sala è dedicata a Richard Mosse (1980). Una serie di stampe digitali realizzate tra il 2011 e il 2014 che documentano la guerra civile nella Repubblica Democratica del Congo. Difficile trovare in esse una “brezza leggera”, ma rimaniamo colpiti da un “violento colpo di vento” dato dal rosa, inaspettato colore preponderante nelle immagini che invece di rimandare a paesaggi fiabeschi sottolinea per contrasto la cruda realtà raffigurata. Il fotografo irlandese ha ottenuto effetti quasi surreali, spiazzanti per chi guarda, utilizzando la pellicola Kodak Aereochrome, ora fuori produzione, messa a punto nella Seconda Guerra Mondiale per le ricognizioni aeree e utilizzata anche per mappare i giacimenti minerari attraverso gli infrarossi. I verdi degli alberi e dei cespugli si trasformano così in varianti dense di rossi, rosa intenso, lavanda, colori poetici che contrastano con i soggetti fotografati e rendono ancora più drammatiche le immagini di guerra e povertà.
Una ricerca più spirituale è invece quella seguita da Sidival Fila (1962), frate minore francescano, brasiliano ma romano di adozione, che attraverso l’uso di tessuti antichi vuole restituire voce alla materia. Il lavoro dell’artista dona un nuovo soffio vitale dando alla materia la possibilità di raccontarsi. Il suo non è semplice riutilizzo, è un lavoro più profondo, recupera travi del 1600, sete e broccati preziosi, lini e canape che possono così raccontare una nuova storia. Ci si sofferma quasi in contemplazione di fronte ai telai realizzati con legno antico, intorno ai quali con cuciture tese unisce parti di tessuto, punti precisi, ritmici, frutto di un lungo e paziente lavoro, quasi una pratica meditativa.
Giunti al termine del percorso espositivo, breve ma intenso, in uno spazio silenzioso e accogliente che favorisce quasi un contatto con le opere, ci si ripropone la domanda iniziale del curatore: le opere d’arte hanno un’anima?