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🔥 Fuoco incrociato: Gabriele Di Matteo e Pau Masclans

La rubrica Fuoco Incrociato è un'occasione di confronto e scambio in forma di conversazione tra coppie di artist_ di diverse generazioni che vivono e/o lavorano a Milano.

La scelta delle coppie segue affinità elettive come dialoghi già esistenti, anche tra artist_che hanno intercettato in anni diversi la traiettoria di Archivio Viafarini, il cui patrimonio di portfolio custodito alla Fabbrica del Vapore è stato recentemente digitalizzato nel portale viafariniarchive.org.
La rubrica Fuoco Incrociato è co-curata dal curatore di Viafarini Giulio Verago e dalla curatrice indipendente Elena Bray. Ogni uscita parte da uno studio visit e dall’invito a ciascun_ artist_ a scegliere un lavoro dell_ altr_, come pretesto in forma di conversation piece – l’occasione per un confronto orizzontale sull’approccio di ciascuno alla costruzione dell’immagine e sulle dinamiche di relazione tra gli artisti nella città, sullo sfondo del grande cambiamento attraversato da Milano negli ultimi anni.

Fuoco incrociato con Gabriele Di Matteo e Pau Masclans

Fotografie di archivio di Pau Masclans realizzate con Gabriele di Matteo negli anni e pubblicate in modo inedito per questo articolo

Giulio: Gabriele, cosa puoi raccontarci sul lavoro di Pau?

Gabriele: Pau è un artista topista. Fa dei lavori che partono da inciampi lungo il suo cammino. Trova un oggetto su cui è inciampato e inizia ad aprirlo, lo fotografa e lo associa ad altre immagini, anch’esse trovate, forse per caso o forse erano li ad aspettarlo. Non ci è dato saperlo, le associazioni sono molteplici, aperte a tutti gli sguardi. Trovo questo molto affascinante perché idealmente è anche il mio modo di lavorare, ma poi vedi io faccio queste cose pesanti…pittura. Lui invece riesce ad essere leggero, a inciampare e poff l’oggetto è pronto per offrirsi alla vista dello spettatore, senza apparenti pretese.

Elena: Che cosa invece Pau ha avvicinato te al lavoro di Gabriele?

Pau: Tra dire e non dire appare la parola tradire. Gabriele attiva le immagini tramite un tradimento, ed è in questo punto che s’incontrano i nostri modi di agire. Le immagini ci ingannano e questo ci affascina. Il modo con cui Gabriele elabora un’idea ha a che fare con la produzione d’idee cinematografiche e letterarie. Partendo dal minimo mette tutte le risorse che lui ha a disposizione per guidare la nave a terra. La letteratura è per lui, ed anche per me, una metodologia astratta e divertente, dove le coincidenze hanno uno spazio importante.

Gabriele: Molto spesso è dalle coincidenze che nasce la possibilità di costruire un racconto associandolo a dei riferimenti che già conosci, a un libro che in quel momento stai leggendo o a un’immagine che ti ritorna. Un inciampo è anche questo e allora incominci a costruire un nuovo racconto senza sapere dove questo ti porterà. Costruire l’impianto per una messa in scena dell’opera che non può avere un unico punto di vista.

Elena: La questione dell’impianto, della messa in scena dell’opera mi sembra una chiave di lettura fondamentale del tuo lavoro. E’ vero che poi fai dei quadri, però è una operazione concettuale, quello che mostri è il processo di costruzione dell’immagine

Gabriele: Lavoro con la pittura ma non sono un pittore. Guardo le mie tele girandomi di spalle perché so che di fronte al quadro che è sul cavalletto ce né un altro che chiede di essere visto. C’è ancora tanto lavoro da fare con le immagini. Della pittura mi interessa la memoria.

Elena: Anticipi una domanda che adoro sulla costruzione dell’immagine, tu pensi che sia mutato nel tempo? Questo lo intendo in generale e sul personale 

Gabriele: Sì, ho visto un cambiamento. Per quanto mi riguarda, io agli inizi degli anni ’90 costruivo l’idea di quello che volevo fare attraverso una mia manualità. Poi ho capito che per quello che volevo dire questa manualità mi occupava troppo tempo e ho iniziato ad utilizzare la manualità di altri. Nel senso che ho deciso di giocarla in un altro modo. Ho lavorato per molto tempo con pittori copisti e commerciali e la cosa più interessante è stato costringerli ad adottare uno stile diverso da quello che loro abitualmente usano. Non ho mai amato troppo gli stili, la riconoscibilità. Mi interessa l’instabilità. la possibilità di trasformarsi. L’identità si costruisce nella variazione. Ultimamente sto ritornando a una forma di manualità, mi sto trasformando in un falegname. Anche Giuseppe era un falegname.

Giulio: Che si fanno mano, che non hanno velleità autoriali…

Gabriele: L’autorialità è per i pittori copisti qualcosa da nascondere, per i pittori commerciali un problema che non conoscono, e per buona parte degli artisti qualcosa da difendere. 

Elena: Pau tu invece come costruisci l’immagine? Se non sbaglio tu non hai delle immagini fisse, o delle figure che ti sono care. Quando trovi qualcosa, un frammento, lo prendi e lo esplori.

Pau: Mi seduce come la tecnologia del corpo ci rivela prospettive e aspetti dell’immagine che in un altro modo magari non percepiamo. Intendendo il corpo come mezzo tecnologico, cerco di trasformare le immagini secondo le capacità del medium che le cattura e materializza, e ne accolgo le possibilità. Dall’immagine che ho in mano, ne appaiono poi altre. Allora ho la possibilità di capovolgere i significati comuni della realtà. C’è una costruzione nella scelta che riconfigura continuamente lo sguardo.

Elena: Tu però disegni anche, che rapporto hai? Perché non è qualcosa che trovi ma qualcosa che devi immaginare da zero.

Pau: Nel disegno avviene una formalità più espressiva e comunicativa, ma i taccuini non sentono. Questo rapporto è ancora per me una cosa da capire. È pieno di sentimenti, emozioni e di cose che mi sfuggono. Col disegno apro una dimensione mentale difficile da ordinare. E ci tengo perché è il caos. Penso che sui taccuini, con i disegni e le parole disegnate, accada fantasiosamente quasi tutto. Invece questa tela che abbiamo qui, non ha nulla di disegno e nemmeno di caos direi… È una stampa della fotografia di un mio riflesso sul finestrino di un treno. Molto banale e rivelata dai corpi tecnologici di cui parlavo prima. È un selfie, ma anche una testimonianza di un viaggio dal sud al nord molto significante per me. Il racconto si nasconde nella superficialità di una immagine a bassa risoluzione.

Gabriele: Questo lavoro ha tanto a che fare con la pittura. Negli anni Novanta questo processo di stampa a getto di inchiostro su tela era molto affrontato, considerato come una nuova frontiera della pittura. Questa distorsione della bassa risoluzione in cui ha scelto di stampare, ne accentua l’aspetto pittorico.

Elena: Infatti questo lavoro lo vedo molto vicino a te Gabriele, è vicino alla contraffazione, è qualcosa che finge di essere altro, forse “il più falso” tra i tuoi lavori Pau.

Giulio: Bè prima Gabriele parlava dell’essere registi, del pilotare lo sguardo…

Pau: C’è l’idea di simulacro. In spagnolo si usa essere artista e in italiano fare l’artista. Questa tela stampata è un incrocio tra realtà e finzione, una scrittura dietro ad un’immagine che è stata concepita come un trompe a l’oeil. E questa scrittura ci racconta l’instabilità e precarietà di un viaggio, in un tentativo di scappare all’epicità senza quasi riuscirne. Elettricità romantica su acque piatte e trasparenti.

Surf casting. Calabria 2025

Elena: L’ultima cosa che esplorerei è il rapporto con la città, che cosa vi ha portato qui e quali sono stati degli eventi significativi? Tu Pau vieni dalla Spagna e hai tanto viaggiato nella tua vita ma in qualche modo scegli sempre di tornare qua, qual è il tuo rapporto?

Pau: Ci tengo molto ai rapporti che ho in questa città e in Italia in generale. Ho vissuto dei momenti molto rilevanti per me, soprattutto emozionali. Arrivato per caso da Barcellona nel 2018, la mia pratica si è sconvolta frequentando l’accademia, residenze, studi e altri artisti italiani. Prima ero già vissuto in altre città europee. Milano l’ho sentita in un altro modo. I rapporti umani nel quotidiano e gli incontri nell’accademia di Brera sono stati fondamentali. Ogni volta che vengo, creo una piccola realtà con i amici artisti che ci ossigena un po’, un modo per riattivarsi e continuare a guardare nuove derive. Negli ultimi anni vengo in maniera intermittente. Ho un legame a distanza. Magari è meglio così, non saprei. Tra altro la mia pratica, che si svolge in questa instabilità della mobilità, è un laboratorio migrante d’idee che al momento ha bisogno di spostarsi continuamente. 

Giulio: Sì poi tu questo lo elabori molto nel tuo lavoro, tra le varie esperienze di mobilità perché hai fatto tante residenze. Ci sono artisti a cui l’idea di mobilità porta molto stress, hanno bisogno di un luogo fisso in cui lavorare, invece tu e tanti altri traete proprio forza da questo, dai diversi rapporti, dai diversi contesti…

Pau: Sì, penso che questa cosa sia vincolata alla questione processuale e a una dimensione temporale del proprio lavoro. Quello che faccio lo capisco come un’opera aperta in continua trasformazione. Se a questo modo di ragionare gli offri l’opzione di mobilità, di scambi, di diversità, d’incontri, etc., la trasformazione avviene in un contesto più favorevole. Poi c’è anche questa idea d’instabilità e di riflessione sulle circostanze, di vagare in continuazione e lasciarsi attraversare dalle immagini, suoni e idee.

Elena: E tu Gabriele?

Gabriele: A Napoli lavoravo in una società di navigazione e contemporaneamente frequentavo l’accademia. Dopo essere stato selezionato per una mostra curata da Achille Bonito Oliva dal titolo Evacuare Napoli, decisi di mettere in pratica quel titolo quasi profetico e lasciare Napoli. Sono stato per qualche mese in Francia dove ho ripreso le mie letture su cui mi ero formato prima di essermi iscritto e frequentato l’accademia. Non avevo fatto studi artistici, mi ero diplomato all’istituto Nautico di Torre del Greco. Erano gli anni 70 e quelle letture (Lea Vergine, Filiberto Menna, Gillo Dorfles), messe da parte per il clima della transavanguardia che regnava a Napoli mi sono servite per fare la mostra 1+1=0 alla galleria ESCA di Nîmes. Un richiamo alla poetica di Malevich. Dopo questa mostra sono arrivato a Milano e ci sono rimasto.

Giulio: Che poi è quello che ti ha fatto virare probabilmente e atterrare ad E il Topo…

Gabriele: L’inizio di quella che tu chiami virare avviene già in Francia nel 1986. A Milano arrivo nel 1987 e il clima mi si adatta. Nel 1989 vinco il premio Saatchi&Saatchi e nel 1992 esce il primo numero della rivista E il Topo insieme a Franco Silvestro, Piero Gatto, Vedova Mazzei e Armando della Vittoria che ne diventa il direttore.

E il Topo.

Elena: Nel vostro caso la scelta dell’opera da cui partire è obbligata, Pau infatti si è unito a te Di Matteo nell’ultima fase de E IL TOPO. Vogliamo partire dalla sua storia, ti va di raccontarci come nasce e si sviluppa?

Gabriele: Eravamo un gruppo di Napoli, l’idea nasce proprio quando stavamo lasciando Napoli per poi realizzarsi a Milano qualche anno dopo. All’inizio [nella prima fase di vita della rivista dal 1992 al 1996] eravamo noi cinque, poi nella seconda fase [dal 2012 al 2024] siamo diventati un collettivo. I numeri si producevano grazie ai rapporti personali.

Giulio: Quindi la rivista funzionava come un dispositivo relazionale.

Gabriele: Esatto, noi siamo stati addirittura in anticipo su quello che è stato teorizzato da Bourriaud sull’arte relazionale. E quello della relazione è stato un metodo che ci siamo dati fino all’ultimo. Il primo numero l’abbiamo presentato in Via Farini [nel 1992], con una performance dal titolo Il Cieco E il Topo e da qui il riferimento alla rivista di Duchamp The Blind Man. E il Topo è un’idea, uno spazio di sperimentazione. Tutti i numeri sono stati presentati insieme ad una performance, che è servita a distribuire l’idea del collettivo. Le performance che abbiamo realizzato nella seconda fase sono state documentate dall’interno, da uno che partecipava alla performance con la telecamera in mano senza mai guardare l’obiettivo, The blind man.

Giulio: Così il materiale stesso diventa frutto di una performance… E’ l’idea del dispositivo che dovrebbe vedere tutto ma riesce in una restituzione parziale, svelando il suo meccanismo.

Gabriele: Sì, esattamente. Una delle ultime performance legata alla presentazione del numero realizzato da Jimmie Durham l’abbiamo fatta alla galleria Thomas Dane di Napoli con un vero cieco, Claudio Salerno, mentre di solito era uno di noi con degli occhiali scuri. Quella è stata una performance molto forte. Finisce con Claudio proprio di fronte a Jimmie Durham che dice: “fantasticooo!”, in italiano. Credo che questo numero per E il Topo sia stato l’ultimo lavoro che Jimmie ha realizzato.

Elena: Queste coincidenze sono incredibili, soprattutto per voi che avete fatto della coincidenza il motore della rivista. E come ti sei inserito tu Pau in questo discorso?

Pau: Attratto dall’atmosfera della rivista ed grazie all’invito di Gabriele ho iniziato ad partecipare a E il Topo, con dei piccoli contributi ma soprattutto come uno spettatore. Sono stato affascinato dalle pratiche da molti artisti che avevano un ruolo molto attivo nella rivista, come Steve Piccolo, Giancarlo Norese, Gak Sato, Frédèric Liver e David Liver, per dire alcuni. La prima performance che abbiamo fatto insieme è stata a Torino [nel 2019] ed era in occasione della presentazione del numero di Durham, nel quale aveva inserito una poesia in spagnolo di Federico García Lorca, Oficina y Denuncia. Io la recitai in quella prima occasione in dialogo con il theremin di Gak Sato e il pallone Spalding palleggiato da Frédèric Liver, mentre Gabriele con i occhiali da cieco filmava con la telecamera in mano. Mi ero appena introdotto in un laberinto molto borgesiano dove si opera nello scomparire.

Elena: Ma come mai ti sei trovato coinvolto in questo progetto? 

Pau: Un po’ cercando un labirinto dove perdermi ed un pò per caso. Mi sono lasciato portare sempre attratto da queste dinamiche nebulose e vedere cosa mi aspettava al di là. È andata così. “Dios los crea, y ellos se juntan” dice spesso mia madre. Da lì abbiamo fatto altre performance, siamo stati al Museo MADRE di Napoli, in occasione della mostra del 2023, e alla Casa degli Artisti qui a Milano, in occasione della sepoltura della rivista. In un clima sempre tra la morte e la follia.

Gabriele: E il Topo è ritornato in letargo alla Casa degli Artisti!  Una lapide con una epigrafe che dice: D’altronde sono sempre gli altri che moriremo, ne identifica il luogo esatto.

Elena: E Pau, cosa hai portato nei diversi appuntamenti che si sono susseguiti? 

Pau: Soprattutto la recitazione della poesia di García Lorca. In queste performance insieme agli altri artisti ho agito tra l’invisibilità e la presenza, tema anche presente nei miei lavori. L’ultima volta che ho recitato Lorca l’ho fatto di schiena allo spettatore, e ancora prima l’ho recitata direttamente alle parete del Madre. Quest’atto per me era un modo di esplorare un senso di rinuncia e anche di dissidenza. Sono delle idee viscerali del momento, che si confrontano con delle situazioni pubbliche che cambiano secondo l’ambiente. E questa variazione l’ho voluta esprimere anche nell’ultima pubblicazione della rivista, per la quale ho fatto il logo (un lavoro in collaborazione con l’AI) in cui i due cagnolini di Duchamp che identificano la rivista, si trasformavano divenendo un altro tipo di animale.

Giulio: Gabriele, questa indole l’ha poi fatta sfociare nella dinamica collettiva che ha caratterizzato la seconda stagione, anche ad una spontaneità nell’adesione. Possiamo forse dire che è un tipo di performance che va verso l’happening, di co-creazione e spontaneismo. Come la stessa documentazione degli eventi suggerisce. Una cosa che mi ha sempre sorpreso de E il Topo è questa capacità di essere coerente nell’incoerenza. Che è stata la sua forza e ha permesso tutte queste adesioni, anche a livello internazionale. Perché E il Topo ha viaggiato parecchio…

Gabriele: Sì, per esempio a New York siamo stati tre volte, da “Printed Matter”, alla White Box e alla libreria Unnameable Books di Brooklin con il poeta Sparrow. Altre performance sono state realizzate a Parigi durante la manifestazione della Nuit Blance del 2013 e con IAN BAXTER& alla galleria Nivet-Carzon, a Berlino da Supportico Lopez, in Belgio con una mostra al Franz Masareel Centrum di Kasterlee. Parigi ci ha anche dedicato una retrospettiva, con tutti i materiali della prima parte della rivista conservati alla Biblioteca Municipale di Lyon, al CNEAI: E IL TOPO à Paris par Armando della Vittoria & Co. Abbiamo sempre accettato la casualità o gli imprevisti come elemento importante della nostra pratica. Affidati a quello che sarebbe capitato e orientati verso una dimensione di realtà diminuita. Quando Pau legge García Lorca, cambia sempre, tira fuori una voce che però di volta in volta è differente, anche se decide di parlare al microfono o al muro; è sempre mutante. Questo è stato anche dichiarato nel punto 3 del Manifesto Topista: I Topisti con E il Topo hanno anticipato le dinamiche della realtà aumentata, per questo hanno deciso di unire i loro sforzi in direzione di una realtà diminuita.   

Elena: Bè Pau, per te è anche una bella sfida, perché alla fine la performance non è uno dei terreni più battuti nella tua pratica, come ti sei relazionato con, chessò, la paura del pubblico…?

Pau: Con E il Topo sento che sto performando semplicemente la mia relazione con il pubblico. Di solito lo sguardo esterno blocca le mie capacità comunicative, e in queste performance, dove il mio tentativo è di condividermi con lo spettatore, cerco di sbloccarle tramite l’ascolto del corpo e dello spazio. Con questa pressione e questo modo di reagire che ho, divento ancora più introspettivo. Allora penso che la performance diventa una manifestazione della mia timidezza, dove si sfoga la potenza della mia forza e della mia debolezza. Fragilità ed esplosività.

Giulio: Nel tempo come cambiano le dinamiche di E il Topo? Soprattutto rispetto a questo rapporto collaborativo.

Gabriele: Rispetto agli anni 90 il modo di proporsi di E il Topo subisce dei forti cambiamenti. La prima redazione formata solo da quattro persone che poi si riducono a due negli ultimi numeri, più il direttore Armando della Vittoria sempre presente in tutte le fasi, si relazionava con gli artisti che poi realizzavano il numero, discutendo del progetto che ognuno proponeva e delle diverse modalità di impaginazione, lasciando sempre la massima libertà avendo rinunciato deliberatamente a non avere nessuna linea editoriale. Avevamo un sano desiderio di conoscerci. Erano gli anni 90, ognuno sulla sua strada con decisione ma con voglia di relazionarsi e mettere in campo, o meglio su carta grigia riciclata, le proprie esperienze. Nella seconda fase, quella della rinascita che avviene 16 anni dopo l’ultimo numero pubblicato nel 1996, della prima redazione rimaniamo solo io, Franco Silvestro e Armando della Vittoria. Si aggiunge una nuova generazione di giovani artisti ma non solo. La redazione diventa intergenerazionale e si dichiara da subito collettivo. Pubblichiamo un manifesto programmatico in 10 punti a Seul (Corea del sud) comprando una pagina su un giornale di annunci pubblicitari, in Italiano. Dal numero 12 Rebith E il Topo realizza un proprio progetto per ogni numero pubblicato e a cui si associa una performance per la presentazione. Solo in pochi casi si chiede ad un artista di realizzare un numero della rivista. È il caso di IAIN BAXTER&, Luca Vitone e Jimmie Durham ma questi diventano a loro volta Topisti ed entrano a far parte della redazione.

Elena: Jimmie Durham, lui si è proposto…?

Gabriele: A Jimmie come agli altri siamo stati noi a proporlo. In particolare con Jimmie, la sua adesione è avvenuta solo dopo aver assistito alla performance che gli abbiamo dedicato alla galleria Thomas Dane. Il giorno dopo ho ricevuto una sua mail dove mi diceva che era un Topista e che voleva partecipare.

Giulio: E il Topo era proprio un organismo vivo, che si alimenta di volta in volta delle diverse energie accogliendole, in modo non programmatico, ma rizomatico.

Gabriele: Esatto. Le connessioni tra di noi sono state molteplici e sono servite, pur nella loro diversità, a rafforzare il pensiero topista. Ma il tutto si può anche ribaltare come quando si legge il punto 7 del manifesto: Mi servo di E il Topo a mio vantaggio. Dal canto suo E il Topo è infingardo, supponente, insidioso e provocatorio.

Elena: Ci lasciamo con un ultimo racconto su E il Topo? C’è per esempio qualche progetto mancato con la rivista?

Gabriele: Sì, ci sono stati dei progetti mancati, in particolare con Emilio Prini. Mi era capitato di conoscerlo a Milano perché l’avevo accompagnato in giro a cercare un colore giallo per la mostra personale che doveva fare alla Galleria Casoli. Abbiamo girato tutta la città, siamo andati anche dalle Belle Arti Crespi a Brera che ci ha tirato fuori tutti i tipi possibili immaginabili di giallo ma nessuno andava bene. Il giorno dell’inaugurazione, mentre fuori c’era già tantissima gente, Prini si rifiutò di aprire le porte della galleria perché non aveva trovato il giallo che voleva. Le insistenze di Sergio Casoli non servirono. La mostra non si aprì. Lui era famoso per queste azioni di sabotaggio. Io fui uno dei pochi presenti all’interno che videro la mostra. In quella circostanza gli proposi di fare un numero per E il Topo. Lui mi disse “va bene. Ho in mente di rifare il titolo, potrei usare la sagoma di tre ragazze per fare un numero con solo donne e con la scritta E IL TOPO in rosa. Vienimi a trovare a Roma”. Dopo qualche giorno vado a trovarlo. Entro nel suo appartamento e ci sono queste tre ragazze sedute ad un tavolo. Mentre eravamo lì a chiacchierare lui decide di mettere su un po’ di musica per movimentare la situazione. La sua scelta è su Madonna. Vi ricordate che a quei tempi c’erano le fazioni, chi era contro e chi a favore di Madonna. Una delle ragazze commenta “Oh Madonna” [faccia un po’ contrariata]. Lui la guarda e inizia ad urlare “fuori, fuori, dovete uscire fuori…” Il numero non fu più fatto. Un altro suo progetto sabotato da se stesso. Era questo il suo lavoro. Voglio ringraziarti per questa domanda perché alla fine raccontando questo aneddoto e come se quel numero con Prini l’avessimo realizzato. Una traccia che rimanda a questo progetto la realizzammo nella lunetta esterna della galleria Nowhere di Orio Vergani, che diceva: Derattizzazione in corso, scritta in rosa.

Per concludere voglio nominare gli artisti che hanno fatto parte di E IL TOPO: Armando della Vittoria, Sergio Armaroli, Mattia Barbieri, lain Baxter&, Marco Bazzini, Lorenzo Bruni, Rugiada Cadoni, Piero Cavellini Guillaume Clermont, Gabriele Di Matteo, Marinette Dozeville, Francesco Fossati, Stefania, Piero Gatto, Debora Hirsch, Jimmie Durham, Andrea Kirill Bertolin, David Liver Frédéric Liver, Martin Larralde, Francesco Locatelli, Dejmitri Nikolov, Françoise Lonardoni, Pau Masclans, Monica Mazzone, Pietro Montone, Rossella Moratto, Giancarlo Norese, Steve Piccolo, Paola Pietronave, Fabien Pinaroli, Luca Pozzi, Concetto Ragatzu, Mirko Rizzi, Lyu Rosario Yuanzhung, Claudio Salerno, Gak Sato, Franco Silvestro, Aldo Spoldi, Dagmara Stephan, Sophie Usunier, vedovamazzei Luca Vitone, Filippo Zoli.

E gli artisti che hanno realizzato un progetto per la rivista: Eva Marisaldi, Luca Quartana, Manlio Caropreso, Maurizio Cattelan, Grazia Toderi, Cesare Viel, Emilio Fantin, Emanuela De Cecco, Dominique Gonzalez-Foerster, Tommaso Corvi Mora, Art Club 2000, Mark Dion, Stefano Arienti, Amedeo Martegani, Luisa Lambri, Maurizio Donzelli, Bert Theis, Massimo Bartolini, Vanessa Beecroft, Saverio Lucariello, Premiata Ditta, Alessandro Pessoli, Liliana Moro, Ivo Bonacorsi, Sergio Risaliti, Miltos Manetas, John Lurie, lAIN BAXTER&, Aldo Spoldi, Lorenzo Scotto di Luzio, Sparrow, Kenneth Goldsmith, David Liver, Cesare Pietroiusti, Emilio Fantin, Ben Vautier, Enzo Umbaca, Marco Mazzuconi, Concetta Modica, Giuseppe Caccavale, Rivista Grasso (Giuseppe Gabellone e Diego Perrone), Paola e Bruno di Bello, Ernesto Raimondi, Ermanno Cristini.