La scelta delle coppie segue affinità elettive come dialoghi già esistenti, anche tra artist_che hanno intercettato in anni diversi la traiettoria di Archivio Viafarini, il cui patrimonio di portfolio custodito alla Fabbrica del Vapore è stato recentemente digitalizzato nel portale viafariniarchive.org.
La rubrica Fuoco Incrociato è co-curata dal curatore di Viafarini Giulio Verago e dalla curatrice indipendente Elena Bray. Ogni uscita parte da uno studio visit e dall’invito a ciascun_ artist_ a scegliere un lavoro dell_ altr_, come pretesto in forma di conversation piece – l’occasione per un confronto orizzontale sull’approccio di ciascuno alla costruzione dell’immagine e sulle dinamiche di relazione tra gli artisti nella città, sullo sfondo del grande cambiamento attraversato da Milano negli ultimi anni.


Elena: Faccio una brevissima premessa sui tre contenitori all’interno dei quali si muovono le nostre domande per darvi più o meno una panoramica. Vorrei partire da due opere, una tua e una di Jacopo, che sono come dire un punto di congiunzione sul quale vi siete trovati a dialogare nel vostro lavoro. Io penso che la parola – dei lavori che abbiano a che fare con la parola intendo – è l’elemento forse di contatto nel quale vi trovate. Poi ovviamente sappiamo che la pratica di un’artista è infinita e molto sfaccettata, però qua si tratta non di raccontare tutto se stessi quanto invece i punti di contatto. Quindi vorrei partire da due opere che parlano di voi ma soprattutto della vostra connessione. Poi vorremmo fare delle domande che riguardano un po’ il vostro rapporto con i vostri riferimenti artistici che possano in qualche modo tracciare un percorso. E questo ci interessa farlo perché Milano in qualche modo è sfuggente
Marcello: Ah ma volete dell’acqua?
Elena: Ah no grazie sono a posto
Giulio: Anche io, grazie
Jacopo: Ce l’ho, grazie
Elena: Sì dicevo, che è sempre molto, no, sfuggente. Qual è la pratica artistica che c’è a Milano perché magari è più facile capire Venezia, ci sono delle scuole molto forti anche a Roma, Torino, però rispetto a Milano sembra tutto un po’ più frammentario…e per quanto poi il frammento sia sicuramente l’essenza del mondo [ride], però ci piacerebbe riuscire a trovare un po’ una narrazione della città, della pratica artistica nella città. E la terza questione è il rapporto con la città nel rito, quindi la città vista più da un punto di vista pratico
Giulio: Sì, quali sono le situazioni e i riferimenti che nei momenti diversi hanno alimentato il vostro sguardo. E ciò collocato nella città perché chiaramente poi lo sfondo è un modo di interrogare anche le prospettive
Marcello: Io farei così [si volta verso Jacopo e lo guarda] …Jacopo vuoi partire tu?
Jacopo: Sì, si parte da un lavoro che abbia un punto di contatto, no?
Giulio: Sì esatto. Noi poi un suggerimento l’avevamo – MARTELLATE di Marcello e TEMPIO DELLA FAMA di Jacopo – che però è solo un’idea, un Là


Marcello: [Guardando Jacopo] Ma quello che avevi esposto al Premio Cairo? Il tempio della fama? Ma il titolo veniva da…un poeta?
Jacopo: No, il nome veniva proprio dal famedio, come si chiama anche “Tempio della fama”. Che è dove sono raccolti poeti e scrittori illustri
Giulio: Proprio perché [entrambe le opere] si muovono come un dispositivo partendo da questioni diverse, però poi si incontrano nel distillare nella parola il significato, nel farsi voce attraverso una parola, una frase no? Avremmo potuto spaziare ovviamente tra mille altre cose, sei voi avete in mente…
Jacopo: Non lo so però, per esempio, un lavoro di Marcello su cui mi sono soffermato, scegliendo però un lavoro che mi tocca – perché non dico che mi è estraneo, ma che non è ancora uscito dalla mia pratica – è quello della nonna sotto il tavolo, che è iconico, è molto intimo…si intitola infatti Casa…è un lavoro che mi è sempre piaciuto molto perché riesce ad attivarsi grazie a qualcosa di biografico, come il rapporto con una persona cara. Attraverso un gesto semplicissimo che non è inserire elementi esterni nel lavoro ma uno spostamento, ridurre ad un gesto. Quindi è una cosa che mi tocca non tanto perché è nel mio lavoro, ma perché è qualcosa che non ho ancora fatto…

Elena: Trovo interessante quello che dici perché in realtà penso che ci sia molta biografia di fondo nel tuo lavoro. Non lo tratti mai in modo esplicito, però ad esempio il tuo rapporto con la città – so quanto sei legato a Milano – è un aspetto molto presente, l’attenzione a ciò che ti circonda
Marcello: Però il lavoro di cui parla è legato alla casa, è l’opposto di quello che dici, non è la città, è partire dalla provincia che negli anni Novanta non era considerata per niente interessante. Penso di essere stato tra i primi, se non il primo a parlarne. [Rivolto a Jacopo] Nel senso che lei diceva, ma tu non ce l’hai, perché è partire dalle cose più vicine vicine che hai, le persone con cui mangi, con cui vivi. No, però è divertente perché loro ti chiedono di trovare qualcosa di vicino e tu… [ride]
Giulio: No [ride], il dialogo c’è anche nella distanza, va benissimo. Vogliamo legarlo alla città, e tu anticipi un discorso Marcello che è quello della città vista da un altrove, perché la provincia innesca…
Marcello: Sì, adesso è totalmente diverso, venire da Casalpusterlengo … all’epoca quando dicevo così alle persone ridevano
Giulio: Cioè oggi l’atmosfera è cambiata?
Marcello: Oggi è proprio cambiato. Voi siete molto giovani, negli anni ’90 avevate due anni…adesso ogni cosa è strumentalizzata, legata al sociale; invece, prima non era così…quindi non ce l’hai
Jacopo: [Ride] No, non ce l’ho, però le cose hanno anche un valore differente ora
Marcello: No, non ce l’hai ma nel senso…non devi neanche sforzarti [ride], nel senso che tu fai altre cose che ti vengono più spontanee. Noi più che affinità che abbiamo sul lavoro, che non ce ne sono tante, [pausa] è stato un mio studente, e una delle mie fisse è che non voglio che i miei studenti facciano le cose che piacciono a me. A me piace che ogni studente è un fiore a sé, cerco di coltivare questa diversità. Coltivando questa diversità ci si diverte di più. Quello che io amo molto del suo lavoro, non è solamente l’aspetto visivo ma quello più teorico, lui ha per me una lucidità di pensiero, di visione anche, sul lavoro degli altri, di grande chiarezza. Le sue parole, il
suo modo di guardare. Un lavoro che mi piace molto è il lavoro con la pellicola, la sua traccia, che ha la forma della pellicola fotografica [si volta verso Jacopo]

Jacopo: Sì, Eclisse, che è la traccia in polvere di marmo di un film. Il titolo si ispira ad Antonini, perché il suo è un cinema del vuoto potremmo quasi dire
Marcello: Sì, poi lui ha un aspetto molto più politico del mio, più come diceva lei legato alla città, ma forse l’idea di reperto, di archeologia, lui è molto filosofico. Non è tanto da oggetto estetizzante. Anzi da questo punto di vista lui è radicale fin troppo. E questo lo trovo molto attuale, bello, che si differenzia dalla moda, dal design e forse queste persone che “usano poco le mani” però vivono la vita come arte stessa, cioè pensare un lavoro forse è più pesante che scolpire un pezzo in marmo [pausa] punto di domanda? No intendo, ha un senso di esperienza viva, che va al di là…cioè io non vado a lavorare, vado a vivere. E questo lo vedo molto in Jacopo. Questo lavoro qua lo trovo molto bello perché è legato ad un film, è legata più alla sottrazione, al minimo, alla ripetizione, vita o morte. Come anche il lavoro del frottage, le parole che diventano frammenti di poesia. Anzi questa diversità che è partita da Jacopo mi piace molto, perché forse alla fine ci piace più andare a mangiare con chi non è troppo vicino a noi
Giulio: Sì, diventa come una eco, non vogliamo una camera dell’eco
Elena: Io invece sono un’amante della convergenza, quindi fammici provare [ride]
Marcello: No, ma è un ossimoro, nella diversità la convergenza. No comunque [si volta verso Elena], tu insisti da quella parte [ride]
Giulio: [Sorridendo] Facciamo vedere che c’è un pendolo in realtà tra la prossimità e la distanza
Elena: Per esempio questo lavoro che tu hai citato di Jacopo del frottage, parla indirettamente della scultura. Questa idea del lavorare per negativo, la traccia, il calco e così via, che io trovo molto vicina ad un tuo lavoro come quello di Vir temporis acti che mette in luce come il ritagliare sia uno scolpire, un ridisegnare etc. Quindi in questi due lavori c’è l’idea di lavorare in negativo e un approccio alla costruzione dell’immagine arrivando a quello che è il punto zero [del gesto]

Marcello: Sì, forse quello che dici te che noi abbiamo in comune è …è la cosa di non fare sul serio [Risate di fondo], voglio dire, “quanto sono bravo a disegnare” “quanto sono bravo a scolpire” “quanto sono bravo a pensare” … noi invece siamo di più dei giocherelloni. Quindi il frottage che è un lavoro quasi bambinesco
Giulio: Si, il gesto minimo di cui parlavamo anche nell’altra intervista
Marcello: Sì ha ragione lei, non è che noi facciamo scultura facendo scultura…la questione è che noi vogliamo lavorare il meno possibile [ride]. Ho fatto l’artista perché non volevo lavorare. Adesso devo anche lavorare, qui e là, su e giù. Nello stesso momento ci piace anche farci gli sgambetti, sì un po’ alla Carmelo Bene
Jacopo [guardando divertito Marcello]: Sì ci piace molto farci gli sgambetti tra noi
Giulio: Sì, quindi decostruire quello che vi ha portato a conoscere, la situazione accademica, d’aula. Polverizzare certe impostazioni
Marcello: Se vuoi è quello che ha funzionato molto bene negli anni ‘90 di Arienti
Giulio: Che rapporto invece intrattenete con l’ironia, che è una cosa che è tornata parlando degli anni ‘90, che stanno diventando anche finalmente oggetto di studio. Che è anche un tema di fondo di questa rubrica, la digitalizzazione dell’archivio e una certa narrazione della città
Elena: Una serie di artisti di quegli anni riconoscibili come fautori dell’arte italiana hanno giocato molto su questa componente, ne parlavamo l’altro giorno con Giulio. Possiamo pensare a Maurizio Cattelan, Paola Pivi, Francesco Vezzoli. Ma che forma prende l’ironia oggi, sulla scia anche di questa tradizione… se è una chiave di lettura
Jacopo: Si, tutti però in un modo molto diverso. [Pausa] Forse la domanda è se si è esaurita l’ironia oggi. A me piace molto l’aspetto comico dell’ironia, però emerge solo quando non è compiaciuto, quasi come interruzione della tragedia. Quindi se la leggiamo così ogni pratica artistica ha in sé un aspetto comico, anche lavori apparentemente più seri, drammatici, se hanno una emergenza poetica reale, emerge quell’aspetto anche comico. L’ironia quando è compiaciuta diventa parodia e diventa la cosa più tristemente tragica che c’è. Questo mi sembra essere un po’ il discorso generale
Marcello: Ma perché qual è l’atteggiamento ironico che vedi in Vezzoli per esempio…?
Elena: Beh sto pensando ai lavori dei marmi truccati, in cui questo trucco eccessivo è esasperato e si trova a sovrascrivere l’immagine della statua. Gioca anche sul tema della donna truccata, che da Pirandello in poi rappresenta iconicamente quel discorso su tutte le sfaccettature della commedia
Marcello: Secondo me invece è più da leggere come un confronto con la scultura, con il fatto che un tempo i marmi erano colorati
Giulio: Io pensavo invece alle sue reenactment di storie come quella di Sonia Braga. O a quella teatralizzazione della sitcom, che rasentava il kitsch, ma c’era un gioco ironico, non è una ironia di marca paura, è più una ironia di secondo grado
Marcello: Sì anche le immagini che ha esposto a Roma di Cicciolina
Giulio: Anche lui che fa il cuore sul cuore…Questa è anche una chiave di lettura della scena italiana che ho trovato ricorrente parlando con i curatori internazionali, anche parlandone in residenza. Poi ovviamente ci sono delle stagioni, ma il punto è capire in quale stagione siamo oggi
Elena: Vorrei però capire per te invece Marcello, qual è la tua posizione, perché leggendo diverse interviste mi sembra che ogni volta cambi posizione. Mentre nelle prime, all’inizio della tua carriera, questo aspetto è molto presente, invece nelle ultime interviste, come quella con Rabottini, mi sembra che tu prenda ampiamente una distanza
Marcello: Sì, quella intervista è avvenuta anche in un momento particolare, durante il Covid, in cui non c’era tanto spazio per l’ironia…forse non c’è neanche adesso il momento per fare festa… Poi il lavoro è un po’ cambiato. Forse sono più delle sberle, no? [Ride] Scusa se io sono invece più caldo e freddo…sono sberle ironiche, come la Madonna girata al PAC. Forse prima c’era questa gioia di vivere in modo più spensierato, ora invece sono più cosciente
Jacopo: Secondo me è emerso un aspetto più crudo nel tuo lavoro, un sapore più amaro. Mi sembra per altro che stia emergendo sempre di più
Elena: Mi piace molto questa parola che hai scelto, crudo mi sembri si adatti bene a Marcello
Marcello: Uno cerca sempre di vivere in una dimensione ironica, ma bisogna poi vedere quanto è riuscita. Bisogna capire di quale ironia si sta parlando. Mi viene in mente una frase di Carmelo Bene che dice che l’adulto scherza, il bambino gioca. E l’artista dovrebbe ritornare a giocare. Ritorno al gioco, ritorno allo spavento. [Pausa] Sempre pensando a Jacopo, per esempio, io ho questa cosa del rapporto con lui, nel senso che mi diverto molto [Jacopo e Marcello si scambiano uno sguardo]. Poi può darsi che lui mi odi anche [risata], no odio non è la parola giusta, no, nel senso che poi alla fine comunque non vede l’ora che io me ne vada [risate]. Con il divertimento non è che togli sacralità, però l’approcci in un altro modo. Per esempio, se penso al suo lavoro nei cimiteri, cioè mi immagino lui che va là, è un lavoro sudato. E’ bello da vedere però poi c’è…
Jacopo: Poi dietro c’è tutta la parte esperienziale che si carica, andare nei cimiteri giorni e giorni, sentire anche gli odori, le puzze, e quando…
Marcello: Adesso per esempio sono in un momento in cui il sociale mi piace poco. Siamo vestiti di sociale. Sono stanco di strumentalizzazioni, che ogni cosa debba essere buonista. Io voglio essere cattivo, antipatico, voglio essere divino, un po’ alla Carmelo Bene. [Pausa] Non ho bisogno di sentire le lamentele della cantante, ho bisogno di sentire una voce che canti. Almeno ora sono a questo punto qua. Anche perché alla fine l’arte è la cosa più aristocratica che c’è…
Giulio: Questo però forse succede perché si innescano certe dinamiche
Marcello: Io penso che dobbiamo smettere di essere buonisti. No ho in mente questo libro, “Contro l’impegno” di Walter Siti
Jacopo: Io penso che siano dinamiche presenti non solo nell’arte, ma in qualsiasi altro ambito. Questo meccanismo del giustificare non compete il gesto artistico. La cosa più noiosa è dover giustificare. Questa dinamica che pervade l’arte di cui parla Marcello investe tutta la società, questa cosa del doversi sempre giustificare. Che è la cosa più lontana dal gesto artistico però
Marcello: La cosa è che oggi fa freddo, domani fa caldo, esci di qui ti arriva una bomba, poi arriva la bella stagione. Tutte le storie si smentiscono il giorno dopo, quindi alla fine
Elena: Tu Marcello sei proprio l’ultimo dei nicciani!
Marcello: E’ tutto un frammento continuo, tutte le grandi narrazioni cadono
Jacopo: Questo non significa poi che l’arte non debba occuparsi delle società, della politica
Elena: Ecco infatti volevo riagganciarmi, perché il tuo lavoro Jacopo è molto politico. Poi ti occupi di una politica passata, al centro è lo studio del fascismo e le sue espressioni di potere attraverso il corpo e il monumento, ma perché hai deciso che questo fosse il tuo tema e come si sposa con il discorso che stiamo facendo ora e all’oggi?
Jacopo: A me interessava questo periodo storico perché poi non penso che le forme politiche del passato siano solo del passato. Ci sono dei nuclei che sottoforma spettrale sono più che mai presenti. Questo non significa che se in alcune mie opere, per esempio sul fascismo, sto trattando solo del fascismo come epoca. Mi interessa che ci siano degli aspetti che in modo subdolo, camuffandosi, sono più che mai presenti. [Pausa] Dopodiché per me l’arte è politica nella misura in cui è poetica. Non mi piace l’arte che parla di politica in termini giustificatori o informativi ma che semmai mostra i meccanismi che sottostanno alla politica. Che è una cosa molto difficile, perché il confine è sottile. Bisogna far balbettare la rappresentazione politica piuttosto, ed è lì che emerge la sua poetica. L’arte è politica come lo è l’architettura, sarebbe sciocco dire il contrario, però sono reali nella misura in cui trovano la propria forma poetica. Noi tendiamo spesso a scindere questi due aspetti
Giulio: E nel tarare questo tuo sguardo c’è stato qualche riferimento, qualche artista del passato, che ti ha formato, ha formato il tuo sguardo
Jacopo: Ho trovato ispirazione da artisti come Fabio Mauri, che è stato molto bravo a non aderire a nessun movimento. O Pasolini, che condivido con Marcello, che è stato una figura molto forte in questo senso, è stato un poeta ma anche una persona politicamente impegnata. Ma non è stato mai in modo gratuito, non faceva il gioco della politica
Marcello: Bisogna capire in questo momento storico qual è l’urgenza dell’arte. Come stare sulla lama di un coltello, è difficile fare arte oggi, non bisogna cadere dal lato della moda o del design. Nel senso che vedo tante cose che si professano arte ma in realtà sono adatte alla vetrina della Rinascente, che non riescono a giungere al cuore della cosa ma sono solo un oggetto. Non sono cose che le guardi e ti creano un buco. [Pausa] Arrivare a delle immagini potenti, che inneschi un immaginario che ti sorprende, una dimensione che aspiri a…ad una apertura. Cioè io amo il design, mi piacciono i piatti, alla fine gli oggetti sono molto piacevoli, no?
Elena: Quindi per te l’arte ha sempre a che fare con qualcosa oltre, con il sacro?
Marcello: No, non necessariamente, può avere a che fare con il rumore della strada. Anche nella mia arte ci sono delle cose che no, ci sono cose che sono più facili. Cioè alla fine sono diversi gli orsi di Paola Pivi dall’elicottero di Paola Pivi.
Elena: C’è qualche lavoro che rileggendolo hai pensato che si potesse fare in maniera diversa o …?
Marcello: No li ho già cancellati [ride] sono abbastanza selettivo [ritorna serio] ci sto pensando ma li ho già cancellati. Poi è normale che ci siano dei lavori più dolci, altri più…però forse oggi non ne abbiamo bisogno. Adesso penso che gli artisti siano molto più addormentati, meno sexy. Mi ci metto anche io in discussione…trovo poca vitalità… ma forse stiamo affrontando delle problematiche troppo ampie, tra ruolo dell’artista…
Giulio: Sì abbiamo sconfinato, però è giusto parlare di una certa urgenza che debba avere l’arte
Marcello: Parlando di Jacopo e di me noi subito parliamo anche dell’altro, non è che parlo solo di io io io, ma sono più questioni di soggettività…
Elena: Ecco visto che stiamo parlando di riferimenti, anche rispetto alla città, c’è qualche aura? So che citi spesso Fabro e la sua bellissima frase che per piegare un filo non lo si piega direttamente ma lo si lascia cadere
Marcello: Guarda io sono in quel momento in cui amo solo me stesso, penso di essere un artista bravissimo, penso di essere tra i più bravi [ride]. No, sono trent’anni che resisto, sto facendo dei lavori stupendi, la mostra al PAC ha forse avuto più visitatori della mostra che avevano fatto di Marina Abramovich…quindi [scoppio di risate]
Elena: La tua è una costante performance
Marcello: No dai, di riferimenti ne ho tantissimi. Gli amori vanno e vengono però amo molto l’arte tedesca, l’arte svizzera, l’arte francese, l’arte americana…non mi piace tanto l’arte inglese, sono troppo disco ball
Elena: Bè l’arte svizzera è molto design, se non ti piace il design…
Marcello: Bè sto pensando a Thomas Hirschhorn. E alla fine il più bravo curatore che sia mai esistito… Szeemann…è svizzero. [Pausa] Amo gli artisti e i curatori che hanno una identità condivisibile, che io voglio condividere quasi come degli abiti che voglio indossare. Sono delle identità condivisibili che hanno però delle conformazioni così folli che io voglio indossarle. Ma ne ho tantissimi di riferimenti, Carmelo Bene, Pasolini, ma cambiano anche molto
Jacopo: Bè, ma ci sono anche gli amori che restano per sempre
Marcello: Sai cos’è che quando vedi questi artisti, come Kounellis, Fabro, Paolini, però di ognuno mi piace una parte
Jacopo: Sì per me è così per Fabio Mauri, ci sono delle cose che amo molto e delle cose che…
Marcello: No a me piace molto anche l’arte italiana
Elena: Sì, siamo fighissimi
Giulio: Sì, assolutamente è una delle scene più stratificate, più disparate anche
Marcello: L’ha detto anche Madonna durante il suo concerto [sorride]. No però il problema è che non facciamo gruppo. I francesi – no perché sono stato recentemente a cena con dei francesi – la politica, c’è una grossa differenza mi diceva questa signora, ovvero che i panni sporchi a Parigi non li mettono in piazza, noi siamo i primi che…
Giulio: Ci rotoliamo [ride]
Elena: E’ interessante perché proprio ieri stavo parlando di questa cosa con un’artista italo tedesca che mi diceva proprio che in Germania per legge la cronaca nera, a meno che la figura non sia pubblica, non può essere riportata sui giornali
Marcello: No veramente noi dovremmo fare più gruppo, solo che l’Italia non è una nazione, è un mondo. Tutto deve essere più gruppo, tra gli artisti, i collezionisti…tu lo senti?
Giulio: Sì diciamo che io lo rintraccio un po’ in tutto il sistema dell’arte, tra i collezionisti ma anche nei direttori dei musei
Marcello: Se noi parliamo di urgenze dobbiamo capire se sono calate dall’alto o provengono dal basso. Perché se vengono dall’alto sono mode….basta alla fine l’unica cosa che bisogna fare è la rivoluzione! [Risata]
Elena: Tutti sono in rivoluzione
Marcello: Tutti sono in rivoluzione, ma sono rivoluzioni domestiche, spostare questo mobile…[risata] No dai siamo stati fantastici, vi ringrazio molto, però ora vi devo salutare