There is only that much  you can do | From New York

Il risvolto sociale dell’arte, in questa città, è forte come non l’ho mai visto e la risposta degli operatori dell’arte, artisti, galleristi curatori, musei è straordinaria.
16 Marzo 2017
The Armory show - KAUFMANN REPETTO, 2017

The Armory show – KAUFMANN REPETTO, 2017

Testo di Paola Gallio

There is only that much  you can do. Mi piace questa frase in inglese.
Non ha una vera traduzione ma potrebbe essere “..non strafare” o “C’e’ un limite a tutto” ma ha un suono più’ bonario. Questa è la sensazione con cui rimasta dopo la settimana delle fiere di New York. Non solo sono tantissime ma sono sparpagliate per la città nei luoghi più insoliti.
A giocare contro, è stato il tempo. La settimana più fredda di tutto l’inverno, non abbiamo raggiunto i picchi della nevicata del 2014, ma le temperature sono state spietate.
Avendo una vita tipica da immigrate Newyorkese, mi divido tra quel che vorrei essere – un curatore indipendente militante – e quel che devo essere per questioni di sopravvivenza, e mere ragioni economiche – un operatore del settore dell’industria dell’ospitalità – quindi ho condensato tutto nei miei giorni liberi, e ho cercato di fare del mio meglio, ma c’e solo quel tanto che si può fare…
In ordine sono stata a Spring Break, Time Square – The Armory, West Side – Nada, West village – Independent, Tribeca – Art on paper, Lower East Side – Clio, Chelsea
…io vivo a Brooklyn!

Ho cominciato con Spring Break. E’ una Curator-Driven art fair. Ogni anno Spring Break pubblica un open call per curatori con un tema specifico. I progetti migliori vengono selezionati e ospitati a costo zero. La fiera è nomade. Le sedi cambiano ogni anno e la fiera è ospitata in palazzi storici in disuso.
Quest’anno era al 4 Times Square, il grattacielo di 42 piani conosciuto come Condé Nast Building. Costruito nel 1996 è stato uno dei primi palazzi eco-frendliy in città’.
Per i Newyorkesi andare a Time Square è una specie di incubo. E’ una zona dedicata a turisti o uomini d’affari, invaso da mediocri catene della ristorazione, e personaggi in costumi imbarazzanti, che rincorrono turisti per selfies a pagamento.
Google map ha riconosciuto il nome del building come un indirizzo, quindi mi sono persa, e nella piazza più popolata della città, non c’era nessuno al quale potessi chiedere un’informazione. Ho girato a vuoto per decine di minuti finché ho seguito l’unica persona che non sembrava lì per errore: un distinto signore con Art Forum sotto braccio.
La fiera era allocata ai piani 22 e 23. Devo ammettere che nonostante la fatica la vista fosse mozzafiato.
Gli spazi erano un complesso di uffici in disuso. Ogni ufficio conteneva un booth, e ogni booth ospitava un progetto curatoriale, per un totale di 150. Un vero labirinto.
Lo spazio, per me che sono una psicotica, era claustrofobico ed ho avuto tolleranza veramente limitata al caldo insopportabile, altitudine, e densità di popolazione, ma il fatto che la fiera avesse un tema fondamentale BLACK MIRROR, e che fosse curata con un’intenzione non in primo luogo commerciale, ha fatto si che andassi fino in fondo alla mia missione.
Degni di nota i progetti di degli artisti e curatori Caroline Larsen and Adam Mignanelli nella receptions del 23 esimo piano, c+c curato dall’artista curatore e fondatore di Underdonk (Artist run space in Bushwick) Nicholas Cueva con Kat Chamberlin and Amie Cunat, Art Slant con il progetto speciale di Brigitta Varadi curato da Andrea Alessi and Joel Kuennen, il progetto curato da Rachel Philips, Psychic dream girl, e il progetto speciale Grin Gateway.
Ovviamente il risvolto politico nella nuova era Trumpiana non è mancato. Katrine Mulherin ha presentato un progetto dal titolo American/Woman al grido “TRUMP IS OVER”. Nel suo spazio erano in vendita shopping bag con questo slogan, ed è stata una soddisfazione vederle al braccio di numerose persone per tutto il week end delle fiere.

SPRING BREAk - American Woman, Katrine Mulherin

SPRING BREAk – American Woman, Katrine Mulherin

La seconda tappa è stata The Armory show.
Quando mi sono trasferita a New York rimasi spiacevolmente colpita da The Armory show. A scapito della sua importanza storica e in confronto alle grandi fiere europee, Frieze e ArtBasel mi era sembrata troppo commerciale e sottotono.
Questa edizione finalmente mi è sembrata più dinamica.
Non c’e’ molto da dire sull’Armory. Vi partecipano le più potenti gallerie al mondo e il turnover di vendite è impressionante. In questa edizione fortunatamente si sono visti lavori di matrice politica e una selezione di artisti e di lavori inclini ai tempi sociali.
Gli Stati Uniti stanno attraversando un momento critico per la loro storia e la loro indentata’ nazionale. Non c’e’ stato giorno dall’insediamento del nuovo Presidente senza una protesta. Ogni settore e categoria sociale ha schierato contro la politica di Trump. I musei hanno manifestato il loro dissenso esponendo le opere politiche, e le opere dei paesi bannati dal governo, e cosi anche le gallerie selezionate all’Armory, americane o non, hanno aperto a un dialogo sociale e politico degno della storia che la rappresenta.
La parte più interessante per il mio spirito militante è stata la sezione PRESENT. Una parte dello show era dedicato 30 gallerie aperte da meno di 10 anni, con booth dedicato a un solo artista. The Armory ha assegnato quest’anno un premio di 10.000 dollari a una delle giovani gallerie, e la vincitrice è stata la galleria Mariane Ibrahim con il lavoro dell’artista tedesco ghaniana Zohra Opoku. Zora Vive e lavora ad Accra. Il suo lavoro affronta il dualismo dell’identità e la spiritualità ibrida e della tradizione delle sue origini africane alla relazione con influenza nord europea.
Mariane Ibrahim, Somala di origine è una rifugiata. La sua famiglia ha lasciato la Somalia allo scoppio della guerra e Mariane ha vissuto e studiato a Londra, Parigi e Quebec. Recentemente ha aperto la sua galleria a Seattle, Washington. La Somalia è una delle nazioni bannate dell’editto contro l’immigrazione delle principali nazioni Mussulmane e si è parlato molto di questo problema durante la fiera.
Non sono mancati episodi spiacevoli legati alle nuove politiche anti immigrazione del governo americano. Juan Garcia Mosqueda, proprietario della galleria di Chelsea Chamber NYC, è stato fermato alla dogana e stato inspiegabilmente rimandato nel suo paese di origine.
Mi ha incuriosito il ritorno delle gallerie europee dei paesi della crisi. Madrid, Barcellona, Valentia, Atene. L’emergenza crisi è stata ritirata a mia insaputa?
Non sono mancati ovviamente i pettegolezzi e i colpi di teatro. Il direttore del Met, Thomas P. Campbell, si dimette il martedì prima delle grandi aperture e la battuta ricorrente al booth rosa shocking, dal sapore barocco fiorentino del redivivo Jeffrey Daitch è stata “…Jeffrey, sei tornato giusto in tempo per candidati alla direzione del MET”….che dio ce ne scampi!

The Armory Show, New York 2017

The Armory Show, New York 2017

A seguire le mie due fiere preferite. Independent (che però di indipendente ha purtroppo solo il nome) e Nada che invece, da’ sempre soddisfazione.

Independent ha lasciato la sede del Dia Center ormai 2 anni fa. Ora è nella più posh Tribeca, in una location veramente inarrivabile che sia in treno o in taxi. Il traffico è inavvicinabile, l’Hollande tunnel è due passi, e non essendoci comuni mortali residenti nelle vicinanze, i mezzi di trasporto pubblici non sono nemmeno un’opzione.
Le gallerie di Independen sono cresciute con gli anni. Fedeli alla linea restano nella categoria dei pesi leggeri delle fiere, ma di leggero non hanno più niente: Anton Kern, Perroten, Bureau, The Approch, Maurine Paley, a citarne alcuni.
La nuova sede degli Spring Studio sembra piacere a tutti, io invece la trovo piuttosto inospitale. Gli spazi, con violente luci LCD, sono asettici e impersonali. Sembra di essere più in una corsia la reparto di medicina generale invece che a una fiera, e questa pulizia esasperata, ha un risvolto di maniaco-compulsivo.
In quest’ambiente iperbarico fluttua in un’interzona onirica il lavoro di Landon Metz della galleria VI, VII. L’enorme pittura rosa pastello a pannelli ha conquistato tutti. C’e la fila per averlo nei primi minuti alla preview vip. Un successo del tutto meritato.

Independend 2017 - Galleri VI VII - Installation view

Independend 2017 – Galleri VI VII – Installation view

Il mio amore adolescenziale per Independent sembra un lontano ricordo, e quindi salto su un taxi per l’apertura di NADA, senza dubbio la mia fiera preferita.
Anche NADA ha lasciato lo spazio dei campetti di basket nell’estremo Est Broadway per una sede nel West Village, forse più accessibile e senza dubbio più grande ma che perde quel sapore di Prom (ballo di fine anno) che la vecchia palestra gli dava.
Gli studi hanno comunque un carattere industriale e non snatura l’identità indie di NADA. Tutti miei preferiti sono qui. Regina Rex, Canada, 11R, Kristen Lorello Gallery, Shrine, e scopro sempre qualcosa di nuovo.
Quest’anno ero molto curiosa di incontrare Sefan Bencoman di Poyecto Ultravioleta da Guatemala City. E’ ormai qualche anno che le capitali dell’arte contemporanea si stanno spostando a sud delle Amariche. Mexico City, Bogotà’, San Paulo ma Guatemala City è una meta insolita.Il booth di Proyecto Ultravioleta è decisamente atipico e fuori dalle dinamiche di mercato. Degli eroi.
In tema di mete insolite per il mercato internazionale dell’arte, NADA Exhibitionary International Gallery Prize è stato assegnato alla Galeria Agustina Ferreyra, San Juan, Puerto Rico con il lavoro dell’artista Cristina Tufino.
Come di consueto NADA ha una larga sezione di booth di piccole dimensioni, con lo scopo di dare visibilità a progetti giovani e gallerie indipendenti per un prezzo modico, ed entrare nel sistema del mercato dell’arte newyorkese, NADA PROJECT e CULTURAL PARTENERS.
Ho incontrato e parlato con un gruppo di giovani artisti di Bogotà, presenti in questa sezione con un progetto chiamato Carne. Santiago, con sottobraccio una bottiglia di Mescal, mi avvicina e mi saluta raccontandomi la loro storia. Ingenuamente, gli dico che amo gli Artist Run Spaces e lui risponde: “Noi siamo un artists art gallery, rappresentiamo noi stessi e siamo i dealer diretti dei nostri lavori”.
Ci sono altri esempi del genere ovviamente, ben riusciti e ormai istituzionalizzati, ma amo molto scoprire nuove gallerie che giocano nell’arena del mercato, in autonomia e professionalità…il mio sogno nella vita è essere testimone di uno sciopero di artisti.
NADA Artadia Award è stato assegnato a Josh Mannis rappresentato dalla galleria Galleria Erick Hussenot. Artadia Award è un premio al merito del valore di 5.000 dollari che viene assegnato ogni anno ad un giovane astista in collaborazione con NADA. Ovviamente, nella prima sessione di fiere nell’epoca trumpiana non poteva che esserci un aspetto politico anche a NADA. Al Press accreditation desk, insieme al press pass, mi danno una meravigliosa Pins che dice: “Diversity makes America Great!” che fa il paio con la borsa “Trump is over” di Spring Break.
NADA, ogni anno ha un’arena per talk e performance. Il programma è sempre denso e interessante, ma soprattutto fuori dagli schemi. Per quest’anno NADA abbraccia il crowdfunding di Kickstarter per finanziare il programma.
Ogni anno sia a New York sia a Miami visitare NADA è come tornare a casa per le vacanze e vedere i nipotini crescere. Sono sempre più grandi e interessanti e piano piano diventano adulti. Come una vecchia zia, mi stupisco positivamente, vado fiera di esserne testimone e di supportarne la crescita. NADA è il mio nipote preferito.

NADA - 11 booth view

NADA – 11 booth view

NADA, Proyecto Utravioleta - booth view

NADA, Proyecto Utravioleta – booth view

La mia full immersion nel mondo delle fiere sta per finire. Ho un pomeriggio a disposizione e me lo giocherò tra Art on Paper e Clio.
Art on Paper adotta la vecchia sede di Nada ma non hanno molto in comune. E’ una fiera educata e discreta, alla sua terza edizione. E’ il primo anno che ci vado e sono mossa dalla curiosità di una fiera legata a un solo media. Art on paper apre quest’anno con 85 gallerie. Gli spazi sono ampi e passeggiare per i corridoi della fiera è piacevole. Ci sono sculture, pop up books, collage, illustrazioni, fotografie, installazioni e tutto rigorosamente su o in carta.
All’ingresso della fiera 3 enormi torri di carta intagliata “The Fates” di Tahiti Pehrson aprono la visita. Sembrerebbe che l’artista abbia lavorato per 1.500 ore per intagliare queste enormi sculture in carta. Hanno una parvenza cosi fragile che non oso nemmeno avvicinarmi ed è stato così per tutta la fiera.
I disegni in luce soffusa, le sculture effimere, e i libri d’artista aperti in guanti bianchi, danno a questa fiera un carattere sofisticato e solenne, fuori dallo strillio del mercato.
Ho un amore infinito per i flat files e pensare che l’intero materiale di una galleria possa essere custodito in una serie di cassetti mi ha sempre appassionato. Le edizioni, le stampe, il dilemma della riproducibilità, l’accessibilità’ delle serie, mi affascina e mi sembra un modo democratico e sofisticato per aprire il mercato dell’arte a un collezionismo più umano, fatto di persone comuni. E’ una fiera in crescita con un inizio di tutto rispetto. Ne seguirò l’evoluzione.

Art on paper fair, New York 2017

Art on paper fair, New York 2017

Nel gelo del pomeriggio mi dirigo verso Chelsea. Apre Greene Naftali, ma soprattutto voglio andare alla fiera degli artisti indipendenti, Clio. Non ne avevo mai sentito parlare prima, ma per la mia natura antinstituzionale è una tentazione irresistibile, anche se onestamente sono SFINITA! Sono in overdose da esposizione visiva. Ho visto cosi tante cose che non ne ricordo nemmeno una.

Clio è al nono piano in un palazzo sulla 26 strada a Chelsea.
Il vecchio ascensore comandato a mano, contiene un numero limitato di persone e l’attesa per salire è lunghissima…non ci sono scale!
Quasi mi arrendo ma dopo venti minuti è il mio turno. Salgo e velocemente percorro i corridoi delle stanze della fiera. Potrebbe esserci qualcosa di interessante, ma sfortunatamente non c’e struttura, e nonostante il mio amore per l’intenzione, riprendo la via dell’ascensore pensando con rammarico a come il sistema vince ai moti anarchici del desiderio di indipendenza.

Scendo di un piano ed entrando da Greene Naftali, all’uscita dell’ascensore incrocio il tris di assi, Gioni – Alemani – Obrist. Mi chiedo se siano saliti di un piano per vedere che cosa proponevano gli indipendenti e vorrei urlare: “Massimo sali di sopra, Rafael Melendez ti potrebbe interessare!” ma ovviamente non c’e’ stato modo di approfondire, e l’ascensore riparte portandosi via la triade dell’arte contemporanea.
Cammino per le stanze di Greene Naftali guadando le sculture danzanti dell’installazione di Paul Chan e mi compiaccio del velato messaggio politico connesso a queste figure bianche con capelli a cono stile KKK.
C’e’ un sano sentimento di resistenza nell’aria a New York. Non solo si respira ma si vede ogni giorno per strada, nei negozi, nei musei, negli aeroporti, e ora questa settimana l’ho visto nelle fiere d’arte. Il risvolto sociale dell’arte è forte come non l’ho mai visto e la risposta degli operatori dell’arte, artisti, galleristi curatori, musei è straordinaria.

Torno a casa distrutta dopo l’ultima tappa all’apertura notturna della Marselleria dell’amico Mirko Rizzi a New York con una performance di Matteo Nasini.

Sono sopravvissuta e domani sarà un altro giorno.

Resist-er!

Paul Chan, Greene Naflali, New York 2017

Paul Chan, Greene Naflali, New York 2017

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