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Teatrum Botanicum – Quarta Edizione

Non vogliono né etichette, né definizioni, né una ‘mono-direzione’… i millenials – presunti o meno, tali – presenti in questa quarta edizione di Teatrum Botanicum sembrano avere, grazie al cielo, le idee poco chiare, anzi decisamente confusi: e meno male,...

Donato Epiro, Canti magnetici

Non vogliono né etichette, né definizioni, né una ‘mono-direzione’… i millenials – presunti o meno, tali – presenti in questa quarta edizione di Teatrum Botanicum sembrano avere, grazie al cielo, le idee poco chiare, anzi decisamente confusi: e meno male, verrebbe da pensare. Meglio la confusione, nel senso etimologico del termine – dunque, mescolato, senz’ordine, indistinto – piuttosto che l’ordine precostituito, pre-cotto, formalizzato.

L’intento e le intenzioni sembrano molto solide, leggendo questa sorta di “manifesto” che è stato diffuso per presentare la prossima edizione – Venerdì 13 Settembre alle ore 19.00 al PAV di Torino – di Teatrum Botanicum: il festival dedicato ad artisti e curatori emergenti la cui indagine si colloca nello spazio interstiziale tra pratiche e riflessioni artistiche ed ecologiche proprie del centro d’arte contemporanea.

I partecipanti di questa edizione: Altalena, Dario Bassani e Nelle Gevers, Derek MF Di Fabio, Alessandro Di Pietro, Donato Epiro, Marco Giordano, Isabella Mongelli, Gianmarco Porru, Giovanna Repetto, Jacopo Rinaldi, Caterina Erica Shanta, Luca Staccioli, Natalia Trejbalova e Bellagio Bellagio, Francesco Venturi

© Altalena
Gianmarco Porru, Senza Titolo (Molto vicino al cielo) (2019), Performance, 30′ circa

TEATRUM BOTANICUM 4° ED.

Quel che dicono di noi – e quel che spesso diciamo di noi – è che siamo pigri e procrastori. Noi chi? Noi tutti! Certamente possiamo sentirci tirati in causa noi millennials, etichetta utilizzata per indicare il segmento di popolazione nato nel mondo occidentale tra gli anni ottanta e novanta del XX secolo, una generazione caratterizzata da un certo grado di familiarità con le tecnologie digitali. Segnata da un approccio educativo tecnologico e neoliberale, questa generazione, cresciuta sentendosi ripetere “se vuoi, puoi!” come una sorta di mantra motivazionale, riferito a fantomatiche parabole professionali ed esistenziali, oggi viene spesso rappresentata incagliata di fronte allo specchio – o alla camera frontale dello smartphone – a cercare di ricordarsi cosa credesse di volere e, soprattutto, se lo avesse voluto davvero. Protect me from what I want: pensi di volerti realizzare e invece ti ritrovi tra i piedi una costellazione di governi d’ispirazione populista e reazionaria e un’ingombrante crisi climatica. Di fronte a questa prospettiva, sembrerebbe quantomai auspicabile una brusca frenata nella produttività individuale e collettiva, coadiuvata da uno spostamento d’asse delle crisi generazionali dal piano del self-design alla sperimentazione di nuove forme di rapporti sociali. Chiedersi meno cosa vorremmo fare e più come vorremmo farlo.
E invece no: i millennials vengono accusati e si accusano di scarsa attenzione, scarsa produttività, scarsa capacità di monitorarsi e ottenere risultati: di lì all’impennata nelle views di TED talk come Inside the mind of a master procrastinator e la relativa santificazione dell’autore Tim Urban, eletto ad interlocutore preferenziale da un personaggio come Elon Musk, il passo è molto, molto breve. Lo stesso Elon Musk che, nel frattempo, con la sua Neuralink Corporation sta sviluppando interfacce neurali impiantabili che probabilmente ci permetteranno di smettere di procrastinare per sempre, in un gioioso happy ending da soap opera transumana. E mentre la Neuralink Corporation lavora, noi e i nostri cervelli normodotati facciamo quel che possiamo per essere produttivi, driblando il burnout con il supporto di un corso di mindfullness pagato dall’azienda per la quale lavoriamo – o un’app freemium, se siamo, come sovente accade, diversamente occupati.
Nel libro New Dark Age (Verso Books, 2018) James Bridle descrive ed analizza lo scenario della contemporaneità raccontando una storia ben diversa da quella che ci viene quotidianamente propinata dagli hooligans della tecnologia: secondo Bridle, il presente è “sganciato dalla temporaneità lineare”1 e l’irrimediabile modificarsi dei fattori di prevedibilità del futuro determinato dal collasso degli ecosistemi e dal cambiamento climatico ci costringe a fare i conti con i nostri limiti. Di più, il cambiamento climatico abbassa quotidianamente l’asticella di quei limiti: “non saremo in grado di pensare ancora a lungo” scrive Bridle “nel 2015, per la prima volta in almeno 800.000 anni, l’anidride carbonica nell’atmosfera ha superato le 400 ppm. A un simile ritmo […] la CO2 atmosferica supererà 1000 ppm entro la fine del secolo. A 1000 ppm, le capacità cognitive umane crollano del 21 percento. A concentrazioni più alte, la CO2 ci impedisce di pensare lucidamente. […] L’anidride carbonica annebbia la mente: va a deteriorare direttamente la nostra capacità di pensare in maniera lucida […]. La crisi del riscaldamento globale è una crisi della mente, una crisi del pensiero, una crisi della nostra capacità di pensare un altro modo di stare al mondo. […] Il degrado delle nostre abilità cognitive è rispecchiato dal collasso delle rotte transatlantiche, dalle insidie alla rete delle comunicazioni, dalla scomparsa della diversità, dallo scioglimento delle riserve di conoscenza storica: sono tutti segni e presagi di una più ampia incapacità di pensare a livello di reti, di sostenere pensieri e azioni a livello di civiltà mondiale”2.

© Isabella Mongelli
Luca Staccioli, Please stand behind the yellow line (DHG) – Still frame

Sostanzialmente, mentre consumiamo le risorse del pianeta cercando, tra le altre cose, di espandere le nostre capacità cognitive, non ci accorgiamo che lo stesso consumo di energie ci rende ogni giorno più confusi, ci deconcentra o quantomeno affossa, da un punto di vista simbolico quanto fisiologico, la nostra capacità di immaginare il futuro e comprendere i sistemi di rete complessi che noi stessi abbiamo creato. “L’archiviazione dei dati scientifici” sostiene Bridle, facendo ricorso alla celebre nozione di hyperobject, presa in prestito dal filosofo Timothy Morton “diventa così una sorta di percezione extrasensoriale: una costruzione della conoscenza in quanto rete, comunitaria e al di là del tempo”3

Stando a Wikipedia, rientrano nella categoria dei millennials i nati tra il 1981 e il 1996 – o, almeno, questa è la finestra di tempo comunemente accettata. Questo esclude dai giochi James Bridle, classe 1980. Nondimeno, Bridle è ascrivibile ad un’altra categoria in grado di suscitare un certo grado di perplessità: James Bridle è un artista. Speriamo che in molti ricordino The New Aesthetic, la pagina tumblr nella quale Bridle raccoglie un’infinità di immagini di oggetti digitali che in qualche modo si manifestano nel mondo fisico – irl. New Aesthetic, definizione utilizzata da Bridle nel corso di un panel della SXSW conference del 2012, diventa presto l’espressione riconosciuta per intendere l’allora dilangante fenomeno che vede il linguaggio visivo della tecnologia digitale ed Internet penetrare il mondo fisico, creando quella commistione fenomenologica tra tangibile e virtuale nella quale siamo oggi immersi. Per anni, sostanzialmente, Bridle si è dedicato all’osservazione dei sistemi di rete e alle loro potenzialità lesive e generative e, in un apparente paradosso, nonostante New Dark Age non voglia proporre soluzioni, mette al centro della crisi contemporanea Internet – l’iperoggetto della rete: “è la migliore rappresentazione della realtà che abbiamo creato, proprio perché è anch’essa tremendamente difficile da concepire. […] Vivere in una nuova era oscura richiede di accettare simili contraddizioni e simili incertezze, veri e propri stati di non conoscenza funzionale. È così che la rete, se compresa in modo appropriato, può guidarci nel pensiero di incertezze ulteriori […]. Nonostante l’atomizzazione e l’alienazione, la rete ribadisce l’impossibilità della separazione”4

Jacopo Rinaldi, Real Chernobyl (2019), Video, colore, suono, 15′ circa

Gli spiragli delineati da Bridle ricordano, in qualche modo, gli stimoli lanciati in più occasioni da un altro autore – scultore di formazione – molto caro a chi pratica i linguaggi dell’arte contemporanea: dall’ormai mitico archivio online UbuWeb a Wasting Time on the Internet sino al più recente Uncreative Writing, Kenneth Goldsmith esalta le possibilità offerte da Internet, dalla capacità di distrazione, del multitasking, della deriva senza meta ed altre nemesi della produttività come viene comunemente pensata.

Tra apocalittici e integrati e critici fiduciosi, l’arte contemporanea ha generato una pluralità di letture relative al tentativo di superare la dicotomia tra cultura e natura, cercando di comprendere una contemporaneità i cui tempi sono cadenzati tanto dalla velocità di Internet e delle tech companies quanto delle scadenze imposte dal cambiamento climatico. Quasi certamente, le narrazioni più utili e vitali si trovano ben lontano dalle aule delle art schools europee e statunitensi, bensì in prossimità di eco-sistemi remoti, habitat di animali umani e non umani che non rispondono a quella concezione di umanità, che si vuole universale, determinata nella storia da uomini bianchi, occidentali, cis, eterosessuali e borghesi. Affermare fino a che punto l’arte contemporanea possa arrogarsi il diritto di immaginare mondi è forse un compito al di là della nostra portata, ma nondimeno c’incoraggia richiamare le parole di Rosi Braidotti che, di fronte alla platea del museo Fridericianum di Kassel, parla degli artisti come bridge builders, non-accademici per eccellenza che si sono storicamente arrogati il diritto di costruire ponti tra sistemi di pensiero e discipline convenzionalmente condannate a non comunicare, non intersecarsi.

Provando a focalizzarci sul piano locale, pur seguendo Bridle nel pensare una cultura costitutivamente “non-locale e intrinsecamente contraddittoria”5, ci piace pensare che le richerche degli artisti italiani che animano questa edizione di Teatrum Botanicum, riflettano proprio sulle logiche della narrazione della contemporaneità e dell’ambiente contemporaneo, sulla possibilità di continuare a leggere ed immaginare mondi.

Marco Giordano, Self Fulfilling Ego – Credit Ruth Clark

Storytelling è un termine già troppo carico di significati a noi piuttosto distanti, una parola che oggi preferiremmo non utilizzare. Preferiremmo, piuttosto, parlare di forme di narrazione non lineare che manifestano, seguendo nuovamente le parole di Bridle (che è un artista e non un marketer), un alto grado di attenzione che non viene messa narcisisticamente al servizio di cosiddetti processi self-improvement né finalizzata ad un escapismo distratto, ma che invece si sforza di comprendere -ed agire – esattamente qui, dove ci troviamo6.

Arrivato alla sua quarta edizione, Teatrum Botanicum persiste nell’assumere una postura ben diversa da quella di una mostra curata – non per avversare a prescindere il più classico tra i formati espositivi, ma perchè siamo persuasi del fatto che lanciarci annualmente in tentativi d’interpretazione, specie in chiave generazionale, dello scenario italiano dell’arte emergente, sarebbe un esercizio quantomeno non necessario. Un esercizio sicuramente non adatto ad una contemporaneità che, più che a tassonomizzare il presente, ci sfida a pensare per reti estremamente complesse e costruire ponti. È quindi a posteriori della selezione degli artisti che emergono i fili conduttori tra diverse modalità di narrazione, con le quali un piccolo spaccato dello scenario dell’arte contemporanea, può azzardare racconti della contemporaneità. Un piccolo spaccato che, come ogni anno, è inevitabilmente parziale, contingente, accidentale ma nondimeno cerca di rispondere ad urgenze tanto estemporanee quanto vivide, oneste e, speriamo, condivise.

Note:
1 – J. Bridle, Nuova Era Oscura (New Dark Age, Verso Books, 2018), trad. it. Fabio Viola,  NERO Editions, Collana Not, Roma, 2019.
2 – Ibidem.
3 – Ibidem.
4 – Ibidem.
5 – Ibidem.
6 – 2 – J. Bridle, Phenomenological Mismatch, pubblicato su Becoming Digital, collaborazione editoriale tra e-flux Architecture e Ellie Abrons, McLain Clutter, e Adam Fure del Taubman College of Architecture and Urban Planning.

© Dario Bassani