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TATAY. Intervista con Marina Ballo Charmet | Triennale di Milano

Tatay è una videoinstallazione che Marina Ballo Charmet ha concepito per la Triennale di Milano. In essa le sue riflessioni sulla paternità – influenzate sia dal suo fare artistico sia dal suo operare come psicoterapeuta – diventano immagine e suono...

Conversazione,1998, installazione video
Primo campo 4 – 2001
Primo campo 13 – 2001

Tatay è una videoinstallazione che Marina Ballo Charmet ha concepito per la Triennale di Milano. In essa le sue riflessioni sulla paternità – influenzate sia dal suo fare artistico sia dal suo operare come psicoterapeuta – diventano immagine e suono (una voce, 12 voci), intrecciandosi e rafforzandosi per riportare gesti privati a una dimensione “ancestrale”. Realizzato in collaborazione con Ludovico Einaudi, questo lavoro raccoglie le “voci di padri di Paesi e lingue diversi che cantano la ninnananna al loro bambino (quella che cantano sempre)”. Abbiamo posto a Marina alcune domande in occasione dell’inaugurazione di questo suo nuovo lavoro.

Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Tatay è un ambiente sonoro buio. Quando vi si entra si fatica a distinguere una immagine fioca sullo schermo. Dopo alcuni minuti l’immagine inizia a emergere dall’oscurità, ma rimane comunque flebile, soffusa e distante. Ci interessa molto approfondire il rapporto semantico e le analogie concettuali che legano le tue opere precedenti a Tatay, soprattutto l’idea della sfocatura nelle fotografie al “fuori sincrono” delle diverse voci che si intersecano quasi a ricreare una lieve matassa sonora, liricamente cacofonica.

Marina Ballo Charmet: Sono d’accordo che la sfocatura sia in parallelo alla non melodia (o cacofonia) delle ninnenanne. È importante nei miei lavori la non centralità, il non tutto a fuoco, la visione periferica, qualcosa che mette in contatto in un’esperienza tra preconsci. E il preconscio è ricco di “fuori sincrono”.

Sara Benaglia e Mauro Zanchi: In questo lavoro cosa si innesca tra l’immagine indistinta che è proiettata sulla parete e l’ambiente sonoro che hai ricreato con le voci dei padri?

Marina Ballo Charmet: Rimanda al latente, al preconscio, a qualcosa che non è legato al vedere razionale, distinto e definito, ma a un’esperienza latente e più profonda, e quindi rimanda all’incerto e all’ambiguo.

Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Come mai hai scelto di riflettere sul tema della paternità invece che sul rapporto vocale tra madre e figlio/a?

Marina Ballo Charmet: Le lotte femministe hanno contribuito a cambiare la famiglia patriarcale e autoritaria. Mi interessa il nuovo padre e la relazione precoce tra il padre e il figlio molto piccolo. Quindi il loro rapporto con il corpo. Anche solo trent’anni fa questo non esisteva. Quello che manca al padre è proprio la relazione attraverso il battito cardiaco… eccetera… dei nove mesi di gravidanza. La nenia ripetitiva dei padri avrebbe la funzione di accompagnare e contenere nel momento del distacco il piccolo dalla realtà e quindi dalla relazione e sembra l’inizio del dialogo del nuovo padre con il suo cucciolo. Il mio lavoro contiene un’utopia della metamorfosi del padre da guerriero a costruttore di pace notturna. Il coro dei padri che cantano l’inno del sonno ai loro bambini mi sembra che esprima bene la capacità dei padri di intrecciare le loro voci in un coro pacifico, mentre tengono in braccio il bambino e non il fucile.

Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Che importanza hanno avuto Lotta Continua e femminismo nel tuo percorso di ricerca?

Marina Ballo Charmet: Ero soltanto una simpatizzante, così si diceva, di Lotta Continua. Per quanto riguarda il femminismo credo che in tutto il mio percorso ci sia una forte ribellione all‘antropocentrismo e una forte ricerca di libertà anche nelle scelte di linguaggio.

Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Nel buio della videoinstallazione Tatay, le dodici voci di padri di Paesi e lingue diversi entrano una alla volta in successione fino a intrecciarsi per dare corpo sonoro a un’unica cantilena misteriosa. Cosa rappresenta per te, nella tua prefigurazione, una presenza vocale profonda collegata a qualcosa che appartiene alla dimensione ancestrale e primordiale? 

Marina Ballo Charmet: È una ricerca anche sulla voce, sul corpo, sul contatto, sulla relazione precoce che avviene prima del linguaggio tra il padre e il suo piccolo e che rimanda a qualcosa di ancestrale e primordiale, anche per l’intreccio di voci e di lingue differenti. È qualcosa di profondo e misterioso che appartiene al rapporto dei corpi e quindi anche della voce, una comunicazione che viene prima della parola, che non è solo contatto corporeo ma è suono. E qui diventa un ambiente sonoro.

Centotrentuno minuti di cielo – ore 06.22 – 2018-2019
Centotrentuno minuti di cielo – ore 07.32 – 2018-2019

Sara Benaglia e Mauro Zanchi: La tua fotografia lavora spesso nel rendere l’intuizione di una presenza. In Tatay c’è una estensione sensoriale di questo approccio. È la prima volta che lavori in questa maniera anche con il suono?

Marina Ballo Charmet: Avevo già lavorato con il suono: il suono dei miei passi  nello studio-casa, in Passi leggeri (1999). Lì il suono era  assolutamente in primo piano. Penso soprattutto alla videoinstallazione Conversazione presentata con 10 monitor per la prima volta allo studio Gio’ Marconi nel 1998 . C’erano  10 monitor da cui uscivano 10 respiri di ogni persona (inquadrata solo per una parte – frammento di collo , volto ecc.). Era ciò che viene scartato e lasciato cadere dalla mente quando conversiamo. C’era anche lì qualcosa di simile, ora che ci penso, e aveva forse qualcosa di orientale e meditativo…

Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Nel tuo lavoro c’è quasi un rifiuto dell’antropocentrismo, di una visione esatta e oggettiva. “Lo sguardo […] è il luogo di un’intimità sperimentale, indefinita” avevi scritto tempo fa. Questa lateralità è qui di nuovo presente, ma c’è un ribaltamento rispetto a un apprendimento della vita prima ancora della visione. Tutto questo è visto da fuori, anche se tenuto a distanza. L’installazione Tatay è stata preceduta da altre fasi di lavoro, diverse formalizzazioni che ci possono aiutare a capire come hai raggiunto questa sintesi?

Marina Ballo Charmet: Il canto del padre (i 12 canti intrecciati) sono un contenimento, proprio attraverso la voce, un contatto e una prossimità che aiuta le prime fasi della relazione padre bambino… È un lavoro artistico e questi elementi passano attraverso scelte linguistiche. Tutto avviene nell’“oscurità”. È legato alle nostre prime sensazioni, al “conosciuto non pensato” di cui parlava Cristopher Bollas.

Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Scardini l’idea del fotografo come osservatore privilegiato, anche concentrandoti sui punti vuoti, sulle zone non fotografiche. La voce è un’immagine?

Marina Ballo Charmet: Credo che le immagini (almeno una certa parte) si colleghino a qualcosa di profondo: a esperienze e affetti che stanno nel preconscio. La voce è simile ed è più direttamente legata al corpo.

Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Pensando al deep focus di Gabriele Basilico, la sfocatura nelle tue immagini  è una presa di distanza da un mondo tutto da documentare, da oggettivare. In questa voluta mancanza di controllo su una descrizione superficiale abbiamo sempre letto un’attitudine linguistica che incorpora la differenza, che vediamo quasi come un tentativo di dissoluzione della distinzione tra soggetto e mondo, quasi la sospensione nell’atto di un’immersione.  Che ne pensi?

Marina Ballo Charmet: Merleau Ponty diceva che siamo all’interno del luogo e non di fronte. È questo rapporto soggetto oggetto (in cui non penso venga negato l’oggetto ma anzi possa emergere in modo neutro come ho cercato di dire nel libro di scritti sulla fotografia) che è presente nel mio lavoro.

Marina Ballo Charmet | Tatay
Triennale di Milano
29 ottobre – 28 novembre 2021

Tatay – still – Triennale di Milano 2021
Giudecca, Le ore blu, ore 20.38, 2017
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Con la coda dell’occhio, #28, 1993-1994
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