Intervista di Francesca De Zotti —
Nel 2003 hai presentato in Viafarini Le città che ci aspettano, un progetto che ruotava attorno ad alcuni temi che tuttora contraddistinguono la tua ricerca. Partendo dalla riflessione sullo spazio urbano e sulle sue possibili declinazioni personali e utopiche, la serie delle Città invitava a ripensare l’idea stessa di città e di abitare. In che modo queste riflessioni sono state traslate nella mostra personale dys – functional cities?
Quello che differisce è sia il modo in cui i lavori sono stati realizzati che le fonti di ispirazione degli stessi. Le città che ci aspettano nasceva sotto l’influenza degli universi letterari di Italo Calvino, con le sue città invisibili, e Jorge Luis Borges con le sue enciclopedie e la serie di racconti scritti con Adolfo Bioy Casares. Le installazioni presenti in mostra erano state create grazie alla collaborazione di diverse persone coinvolte nella realizzazione dei lavori stessi. Le dieci Città erano una serie di ritratti di persone a me care e della loro possibile città ideale, realizzata attraverso un programma CAD. Una volta stampate su carta, prendendo atto della limitazione del mio sguardo, avevo poi chiesto a queste persone di modificarle in accordo al loro gusto e necessità, disegnandovi sopra con un pennarello.
In contrapposizione, i lavori di dys-functional cities erano più legati al dato reale, a come lo spazio pubblico e sociale viene costruito e usato. Si trattava di ricami e disegni realizzati unicamente da me. Le opere volevano essere esteticamente molto belle, come una metafora della bellezza presente nelle nostre città che in realtà può celare problemi e restrizioni, quali esclusione e ingiustizia. I lavori si basavano su una ricerca attorno al pensiero utopico in architettura, che partiva dalla città ideale rinascimentale fino ad arrivare alle esperienze del modernismo, evidenziando come anche le buone intenzioni del creare un luogo perfetto per vivere e abitare possano in verità essere fallaci e riferirsi a un modello di cittadinə inattuale e mainstream, che non prende in considerazione la diversità dei viventi e la fluidità dell’esistere.
Lo spazio urbano è al centro di un altro lavoro, Luoghi che non esistono più di Milano, realizzato durante la tua recente residenza presso la Casa degli Artisti. Partendo dal vissuto individuale, hai invitato le persone che hanno preso parte al workshop a scegliere e disegnare un luogo scomparso della città che avesse per loro un valore particolare, mettendo in atto un processo di immaginazione collettiva. Quale idea di luogo è emersa da queste memorie?
Lavoro sul tema dei luoghi scomparsi, con diverse modalità e approcci, fin dal 2010. In questa occasione ho chiesto alle persone coinvolte di scegliere e poi disegnare un luogo della città che ritenevano importante, ma che per varie ragioni non esisteva più. La mappa frammentaria di Milano che ne è emersa mostra una situazione molto variegata. Generalizzando si potrebbe dire che le persone più giovani hanno scelto prevalentemente quei luoghi della socialità che a causa del Covid19 sono divenuti inaccessibili o che hanno proprio chiuso. Le generazioni più grandi si sono, invece, concentrate su quei posti scomparsi a causa della gentrificazione e della conseguente omologazione del tessuto cittadino, frequentemente associati a specifici ricordi della giovinezza. Se da un lato i luoghi mantengono un significato solo nel momento in cui sono condivisi o condivisibili – e l’isolamento forzato dell’ultimo periodo ce lo ha ricordato vividamente -, dall’altro le memorie personali, più che le narrazioni collettive, sono una discriminante soggettiva nella scelta di attribuzione di un valore di un determinato luogo.
All’interno dei tuoi lavori il linguaggio riveste spesso un ruolo fondamentale, sia in forma di dialogo e narrazione orale, sia in forma di parola scritta o disegnata, come avviene in Table of Contents, presentato in occasione dell’ultima edizione di BienNolo. Come si configura il tuo ruolo all’interno di questo progetto?
Table of Contents è un dispositivo relazionale, letteralmente un tavolo con dei contenuti disegnati/scritti sulla sua superficie. Il lavoro consiste nell’invitare diverse persone a sedercisi attorno per iniziare una conversazione che, nel caso di BienNolo, verteva su pianificazione urbana e architettura utopica. Né io, né il pubblico presente alla mostra partecipiamo a queste chiacchierate, sono di fatto momenti conviviali privati. Al termine della discussione, alle persone che vi hanno preso parte viene chiesto di lasciare come traccia una breve frase scritta sul tavolo stesso. Quello che mi interessa nella serie dei tavoli è, grazie agli input dati, intavolare una conversazione su temi che reputo urgenti. Oltre al tavolo dedicato all’architettura, ce n’è un altro che vuole invitare a discutere di identità di genere e orientamento sessuale, termini che vengono confusi fra loro e interpretati erroneamente e molte volte definiti in maniera – volutamente – fuorviante.
Durante la tua residenza presso VIR Viafarini-in-residence stai sviluppando il progetto La città di chi? che parte da uno studio sulla città di Milano, con l’intenzione di evidenziare a chi sono dedicate vie, piazze e giardini della città. Con quali presupposti hai iniziato questo lavoro e quali nuovi interrogativi hanno suscitato le ricerche fino ad ora condotte?
Questa serie di lavori si inserisce nella specifica necessità di discutere come l’identità di una città e di una nazione si costruisce e si rappresenta, e quanto possa essere attuale o inattuale, esclusiva ed escludente, riferendosi prevalentemente a una porzione recepita come maggioritaria e omologa della società stessa che ignora tutto ciò che è difforme o differisce. Prendendo spunto da iniziative come Toponomastica femminile e da alcune azioni della rete di Non Una Di Meno, la prima cosa che ho fatto è censire chi sono le donne a cui le strade, le piazze e i giardini di Milano sono dedicate: su 2.593 vie e piazze intitolate a persone, solo 127 sono dedicate a donne.
In una camminata di circa sei ore ho visitato queste vie, chiedendomi sempre chi fossero queste donne e se fossero reali o immaginarie, registrando attraverso il disegno non solo i loro dati biografici, ma anche quali altri monumenti incontravo nel mio cammino, che tipo di architetture erano presenti, oppure quali altri interventi effimeri trovavo sulle varie superfici della città, come ad esempio un graffito di Laurina Paperina o dei manifesti scoloriti di una manifestazione. Disegnando il parco delle basiliche ho riportato tra gli alberi tutti i nomi delle persone a noi note che vi sono state bruciate perché accusate di stregoneria; fra queste Caterina de’ Medici. Non c’è una via a lei dedicata, ma ce n’è una per il medico Lodovico Settala, uno dei suoi accusatori. Invece, dietro alla Scala, ho ridisegnato il primo monumento dedicato a una donna di Milano, Cristina Trivulzio di Belgiojoso, inaugurato il 16 settembre del 2021. La domanda rimane aperta: quale senso può avere il dedicare oggi una statua ad una eroina del Risorgimento? A chi si rivolge? Chi vi si può riconoscere oggi?
Più cammino per le strade di Milano, più mi sembra che la soluzione non possa essere il creare l’equivalente femminile degli eroi maschili – in questa logica le persone non binarie rimangono sempre fuori. La nostra epoca dovrebbe necessitare di un approccio diverso dalla statuaria celebrativa, più complesso.
La cosa più attuale da fare potrebbe essere, invece, il rimuovere tutte le statue della città per raccoglierle in un grande museo, o in un giardino, dove la storia non solo può essere conservata, ma, cosa ancora più importante, può essere contestualizzata.