Intervista di Francesca De Zotti —
Partendo da un’idea di restauro inteso come atto di cura nei confronti dei soggetti con cui ti relazioni, molti dei tuoi lavori testimoniano la volontà di sottrarre fotografie, storie e oggetti all’inevitabile obsolescenza a cui sono sottoposti. Questo avviene in Extraordinary Coincidences of Death dove metti in luce un parallelismo tra la scomparsa fisica dei ghiacciai e l’evanescenza a cui la loro immagine fotografica va incontro, ed anche in Untitled (Tears) dove l’idea di fragilità e perdita è legata a dinamiche più intime e soggettive. Come si configura questo atto di cura all’interno di due lavori che operano attraverso media così diversi?
L’azione di cura che sta alla base della mia ricerca deriva dal concetto di restauro che ho ereditato dalla vecchia professione di mio padre. L’espediente del restauro, inteso più generalmente come gesto che riporta in vita qualcosa di già esistente, mi permette di indagare attraverso varie strategie il ruolo politico – e poetico – dell’intervento dell’artista, della morte e della creazione. In Extraordinary Coincidences of Death ho rifotografato, scansionato e rielaborato digitalmente una serie di fotografie di ghiacciai che hanno iniziato a diventare evanescenti proprio come i ghiacciai nella realtà. Grazie a un lungo lavoro di ibridazione tra digitale e analogico, che verte ad analizzare il processo stesso, ho cercato di ricongelare l’immagine come se potessi agire magicamente sul reale. Anche l’installazione di frammenti di finestrini e parabrezza installata da Giacomo nel 2020 nasce dalle tracce di qualcosa che non esiste più nella sua integrità. I pezzi di vetro, che giacevano sul suolo come il negativo di incidenti e furti anonimi, sono stati raccolti, ripuliti ed infine esposti nello spazio espositivo. Ho sempre considerato l’arte un complesso e affascinante processo di trasformazione; un palliativo alla morte che permette di rielaborare il trauma tramite l’estetica.
Così come la fotografia è scissa tra dimensione analogica e digitale, allo stesso modo la tua ricerca si muove tra l’utilizzo di photo trouvée e immagini realizzate e manipolate digitalmente.Se l’immagine analogica può essere vista come “scrittura di luce”, l’immagine digitale risente di processi di creazione e alterazione molto più stratificati in termini concettuali. Genetically modified photos è un progetto che opera in questa seconda direzione: che cosa ti interessa del digitale e dei suoi meccanismi di appropriazione e manipolazione del reale?
L’aspetto che più mi interessa della fotografia è il suo essere indice, traccia materiale. In questi anni di studi sono arrivato tuttavia alla convinzione che un approccio unicamente analogico sia, per la mia ricerca, troppo limitato e poco sostenibile. L’immagine digitale offre delle grandissime opportunità che si traducono in possibilità d’intervento, che io impiego in senso performativo. La manipolazione digitale mi permette di intervenire sull’immagine restaurandola proprio perché la astrae, le cambia il DNA, la rende codice. Questo passaggio virtuale mi permette di rigenerare gli strappi presenti sull’emulsione, ripristinare il contrasto, ricucire le ferite simboliche che l’evento immortalato porta con sé. Ho sempre visto con sospetto l’euforia e le speculazioni sul digitale, ma non posso che riconoscerne le potenzialità. Se all’inizio della mia ricerca analogico e digitale erano due strade distinte, ora iniziano a convergere. I miei lavori più recenti sperimentano infatti l’ibridazione dei due processi, dove il digitale diventa di supporto all’analogico e viceversa.
Strange things si compone di una serie di fotografie di oggetti, da te nuovamente fotografate, che “mostrano per mostrarsi” in una sorta di autoaffermazione dell’oggetto all’interno di uno scenario capitalistico. Le fotografie di oggetti e mobilia provenienti dallo studio di tuo padre testimoniano, invece, forme di resistenza all’obsolescenza programmata, al gusto e al mercato. In qualche modo, la natura stessa della fotografia riflette questa dicotomia. Come dialogano queste due diverse polarità nel tuo lavoro?
In realtà, sia le fotografie scattate da mio padre che quelle prelevate dai libri di suo possesso rappresentano per me lo stesso processo di resistenza e contestazione al Capitalismo e al consumismo (dell’oggetto, dell’immagine). Le fotografie rubate dai cataloghi sono scatti professionali realizzati o acquistati dai musei che li conservano. Queste istituzioni, che ne detengono i diritti, ne vietano la riproduzione se non previo compenso economico. Rifotografarle e dunque appropriarsene significa riflettere sul valore del diritto d’autore di un artefatto unico che diventa oggetto speculativo attraverso la riproducibilità della propria immagine. Qual è la relazione tra Capitalismo e fotografia? Quanto deve essere visibile l’intervento dell’artista che si appropria di immagini altrui? Fino a che punto il diritto d’autore può limitare la libertà degli artisti?
Durante il tuo periodo di residenza stai portando avanti alcuni progetti nati prima del tuo arrivo a VIR Viafarini-in-residence. Caratterizzandosi per una natura aperta e dilatata nel tempo, in che modo questi lavori – e in generale la tua ricerca – assorbono questa processualità?
Una parte del lavoro che sto sviluppando presso VIR è nata tra un lockdown e l’altro e per questo motivo mai realizzata, né esposta. La serie sulla morte della fotografia e sulla fotografia della morte procede secondo un ritmo lento. Le immagini, che hanno una vita propria, devono infatti depositare per poter rinascere, ma soprattutto hanno bisogno di diventare oggetto per essere mostrate agli altri. Gli scatti originali dei quali mi approprio sono documenti storici che acquisto online: per questo, alla lunghezza del processo di rielaborazione e di stampa si aggiunge la durata del viaggio che le fotografie compiono per arrivare a me. D’altronde, questi due anni di pandemia hanno influito negativamente sulla trasformazione in opera dei miei progetti, poiché la scarsità dei prodotti e le continue chiusure hanno messo in difficoltà tutti quei fornitori, artigiani e artisti che lavorano con il medium fotografico. Ora le mie fotografie continuano ad arrivare e finalmente, all’interno di questo spazio, in questa città e in questo momento, hanno trovato un luogo in cui diventare opera.