Un piacere per gli occhi che si origina ben al di ‘sotto’ della superficie pittorica. Questa è la sensazione che il curatore Davide Ferri prova davanti ad una natura morta, un piccolo paesaggio, un quadro che racconta l’ordinario. Da questo incanto sembra nasce l’idea della mostra “Le realtà ordinarie”: tra i Main project di ART CITY Bologna 2020 in occasione di Arte Fiera. La mostra, aperta dal̀ 21 gennaio al 23 febbraio 2020 è ospitata a Palazzo De’ Toschi ed è promossa dalla Banca di Bologna.
Grazie alle opere di una selezione oculata di artisti italiani e stranieri – Helene Appel, Riccardo Baruzzi, Luca Bertolo, Maureen Gallace, Andrew Grassie, Clive Hodgson, Rezi van Lankveld, Maria Morganti, Carol Rhodes, Salvo, Michele Tocca, Patricia Treib e Phoebe Unwin – Davide Ferri cerca di introdurci un diverso modo di osservare un dipinto, magari partendo dal suo ‘interno’, dalla sua dimensione materiale. Nell’intervista che segue il curatore ci racconta, dunque, differenti modi di considerare l’ “ordinario” che non necessariamente è ascrivibile a quelli che sono i generi in pittura: semplici paesaggi, nature morte e quadri d’interno.
Le opere esposte spaziano – letteralmente e a livello concettuale – tra il figurativo e l’astratto, rappresentando realtà e teorie tutte intrinseche al mezzo pittorico.
Come chiosa, queste chiare intenzioni: “Mi interessa evidenziare l’idea di una spinta inevitabile verso l’ordinario, verso la figura, all’interno di processi che non prevedono un progetto dell’immagine, e dove l’immagine può generarsi come percorso di emersione, da un magma astratto, di figure riconoscibili.”
Elena Bordignon: La mostra che curi muove da alcune considerazioni molto semplici: guardando un quadro ‘di genere’ cosa ci affascina? Natura morte, paesaggi, interni: che godimento estetico si perpetua di fronte ad un dipinto? Date queste premesse, hai ipotizzato una possibile risposta? Cosa ci ammalia – e perché – guardando un quadro?
Davide Ferri: All’origine della mostra Le realtà ordinarie (Salone Banca di Bologna di Palazzo De’ Toschi, 21 gennnaio-23 febbraio 2020) c’è, come dici, il tentativo di raccontare una cosa apparentemente molto semplice, l’inesauribile impulso degli artisti a dipingere i soggetti ordinari, e il piacere – innanzitutto il mio, direi, simile a una piccola gioia liberatoria – che si rinnova ogni volta che incontro da qualche parte (in una mostra, ma soprattutto in uno studio) una natura morta, un piccolo paesaggio, un quadro insomma che descrive una situazione ordinaria. È un piacere simile a quello che provo quando leggo certi racconti – in questi giorni quelli, bellissimi, di Bernard Malamud, appena ripubblicati da Minimum Fax – di chi sa descrivere l’ordinario senza fronzoli e preoccupazioni di stile. Ovviamente questo piacere genera altre domande – che cosa significa esattamente ordinario? Esiste davvero questo racconto dell’ordinario in arte e in letteratura? – ma è raddoppiato se un quadro con un soggetto ordinario lo trovo nello studio di un artista della mia generazione, perché quasi sempre quel quadro è stato dipinto per via di un desiderio (di quell’impulso di cui parlavo prima), spensieratamente, ma al contempo, di frequente, può rappresentare una specie di deriva, di deviazione da una poetica più definita e concettualmente strutturata. Ecco un altro aspetto fondamentale: l’ordinario nasce all’insegna della spensieratezza ma genera anche sconcerto (sarebbe possibile, per un pittore del nostro tempo, dipingere solo nature morte?) così l’artista si trova costretto ad arginare questo impulso verso l’ordinario, a resistergli e a combatterlo. Ci sono artisti che hanno lavorato su questo conflitto, come Luca Bertolo, che naturalmente è in mostra, ed è per me una presenza molto importante.
EB: In molti pittori, vige il primato della materialità dell’opera. Dalla celebre affermazione di Cézanne «Per un pittore, il colore è l’unica verità», ad artisti contemporanei, che sconfessano le interpretazioni estetiche e filosofiche per riportare l’attenzione sulla ‘materialità’ del dipinto, sugli elementi che le danno corpo e fisicità. In merito al taglio contenutistico della mostra ‘Le realtà ordinarie’ qual è il tuo punto di vista sul primato che ‘sia tutto sul dipinto’?
DF: Non credo di riuscire a reagire in modo degno alla frase di Cezanne che hai appena citrato, mi concentro allora, deviando un po’, forse, dalla tua domanda, su questa faccenda della materialità. Io sono sempre stato affascinato da quei dipinti, soprattutto figurativi, in cui le figure sembrano germogliare, più che all’interno di uno spazio di rappresentazione coerente e organico, o anche solo vagamente illusionistico, dalla dimensione fisica del quadro, dalla la sua – diciamo così – natura oggettuale, come se il quadro fosse qualcosa che genera un’immagine introflettendosi, ripiegandosi nella sua materialità. La mostra parla anche, a latere, di questo. Ci sono ad esempio, in mostra, Le nature morte del dritto e del rovescio di Riccardo Baruzzi, dipinte da una parte e dall’altra, davanti e dietro la tela, che sembrano far convivere l’immagine con la dimensione materiale del dipinto, e sono composte di segni e tratti – alcuni più assertivi, altri più esangui – che descrivono frutti e ortaggi e che sembrano fluttuare in uno spazio indeterminato e profondo per esalare l’ultimo residuo di vitalità. O i dipinti di Helene Appel, “ritratti” in scala 1:1 di piccoli oggetti trovati nello studio, veri e propri trompe-l’oeil che non si collocano in uno spazio illusionistico, ma su una tela grezza che funge da sfondo
EB: Hai scelto 13 artisti molto diversi tra loro. Alcuni sono legati alla figurazione, altri invece, hanno sviluppato una ricerca più prossima all’astrazione. Mi racconti come hai messo in dialogo i diversi orientamenti pittorici? C’è un dialogo, delle relazioni, o delle incomunicabilità tra varie forme espressive?
DF: Non volevo una mostra che si limitasse alla rappresentazione dell’ordinario come una successione di semplici paesaggi, nature morte e quadri d’interno ma che offrisse una visione articolata sui possibili significati e interpretazioni della parola “ordinario” in pittura, prendendo in considerazione anche quei conflitti e quelle ambiguità di cui parlavo rispondendo alla tua prima domanda.
In mostra, ad esempio, ci sono quadri con soggetti molto ordinari, che, dispetto della loro apparente decifrabilità, possono interrogarci su alcuni problemi legati alla pittura di genere, e contenere il richiamo a generi differenti, con suggestioni eterogenee che si sovrappongono nella stessa immagine.
Che cosa sono, ad esempio, i piccoli quadri di Salvo in mostra – immagini ravvicinate di rami con agrumi dipinte sullo sfondo di una luce diurna, meridiana – nature morte o paesaggi? E come catalogare nel percorso dell’artista questi lavori apparentemente eccentrici, di disarmante semplicità?
Come hai detto ci sono poi alcuni dipinti astratti, perché l’ordinario, in mostra, si traduce anche in una dimensione del tempo, di un tempo che scorre regolare e in forma apparentemente indifferenziata nello spazio dello studio, un luogo mai descritto, ma spesso evocato dai lavori che sono in mostra. Come nelle Sedimentazioni di Maria Morganti, o nei lavori di Clive Hodgson, che sono quadri in cui il senso di ordinarietà sembra consistere in un flusso inarrestabile, quotidiano, di macchie, scarabocchi e motivi astratti che si dispongono sulle superfici in base a distratte logiche compositive. Su ogni dipinto la firma, sempre in evidenza e sempre in una posizione diversa, è un elemento di fondamentale importanza: l’affermazione, talvolta ironica e disincantata, della propria presenza autoriale in immagini apparentemente irrilevanti, in “immagini secondarie”. Mi interessa inoltre evidenziare l’idea di una spinta inevitabile verso l’ordinario, verso la figura, all’interno di processi che non prevedono un progetto dell’immagine, e dove l’immagine può generarsi come percorso di emersione, da un magma astratto, di figure riconoscibili. Oppure, viceversa, di forme quasi astratte che sembrano l’approdo di un processo di trasformazione delle figure. I lavori in mostra di Rezi van Lankveld, Phoebe Unwin, e Patricia Treib, tre artiste che stimo molto, hanno a che fare con questi aspetti.
EB: Hai voluto creare un nesso con la tradizione novecentesca legata al “ritorno all’ordine”. Su quali presupposti e quali correlazioni si posso trovare tra le ricerche pittoriche dei 13 artisti invitati e le opere prodotte prima e dopo la prima Guerra Mondiale? Il Ritorno all’ordine professava la centralità della tradizione e della storia, del classicismo e della fedeltà figurativa. Quale ‘ordinario’ hai individuato nelle ricerche contemporanee?
Come dicevo: l’ordinario come spinta inevitabile, come desiderio, come impulso; l’ordinario come zona franca, libera dal gioco culturale dei rimandi e delle citazioni, ma anche la relazione con l’ordinario come combattimento e conflitto. E poi l’ordinario come racconto di un tempo indifferenziato e regolare, un aspetto che ha a che fare anche con l’idea di un’enorme quantità di tempo dilapidata/investita attorno a immagini apparentemente insignificanti, come avviene nel lavoro di Andrew Grassie. Infine l’ordinario come movimento dello sguardo verso il basso, o verso la porzione di terra più prossima ai piedi, come in un certo senso accade nel lavoro di Michele Tocca, o, in forme diverse, in quello di Carol Rhodes.
Poi sai cosa mi interessa molto? Questa ambiguità semantica tra la parola ordine e la parola ordinario. Il ritorno all’ordine – proprio in base a come tu l’hai descritto – rappresenta una specie di ritorno/rientro nei ranghi dopo le turbolenze dell’avanguardia. Il punto è che è che ogni volta che siamo di fronte a un periodo dio straripante riaffermazione della pittura, come quello stiamo vivendo in questi anni, sono spinto a chiedermi quanto questi cicli di morte e rinascita del medium siano impastati con l’idea di ritorno all’ordine come reazione a un periodo di turbolenza e complessità. La mostra, naturalmente, non risponde direttamente a questa domanda, la tiene solo sullo sfondo, come contraltare.