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Unità di misura per edifici religiosi, templi, moschee e monumenti, ma anche altari, dipinti o sculture. La geometria sacra sembra un concetto a noi contemporanei astratto o avulso dalla realtà. Non sappiamo quanto dei palazzi o dei capolavori artistici sono, in realtà, costellati di misteriose geometrie, calcoli perfetti, avvolti da giochi maniacali di numerologia. Significati simbolici e aritmetiche allegorie, formule matematiche e arcani calcoli numerici sono alla base di una delle più affascinanti mostre presentate a Venezia durante i giorni caotici della Biennale di Okwui Enwezor: Proportio, ospitata a Palazzo Fortuny fino al 22 novembre 2015 e a cura di Axel and May Vervoodt Foundation. Negli scorsi anni, in questa cornice veneziana sontuosa, abbiamo visto alternarsi la trilogia di mostre Artetempo (2007), In-finitum (2009) e TRA (2011). Tutti progetti caratterizzati da tagli curatoriali molto complessi perché estremamente interpretabili. Concetti come quelli di infinito, tempo o lo spazio intermezzo tra i luoghi, la storia, il patrimonio creativo e l’esperienza universale, sono tutti temi che per vastità e profondità hanno sempre rischiato di far scomparire l’esile collegamento tra le opere e il concetto di fondo delle stesse mostre. Con “Proportio”, invece, le esplorazioni intellettuali attorno all’onnipotenza delle proporzioni universali nell’arte, nelle scienze, nella musica e nell’architettura, hanno accompagnato i visitatori in un percorso analitico, ma anche e soprattutto emozionale, direi singolare.
Già dal titolo, “Proportio”, l’intera mostra svela le sue ambizioni: condurci alla scoperta di una teorizzata e scientifica armonia delle parti, una “convenienza con il tutto”, assorbire – attraverso i sensi, prima che con l’intelletto – le mutue relazioni che nasconde la geometria non solo delle opere d’arte, ma anche della natura e dell’essere umano. Basti pensare all’etimo di parole come matematica (misurare, pensare, imparare), geometria (scienza delle proporzioni, misurare) e prospettiva (guardare avanti, osservare).
La mostra si apre con concetti primari come la “geometria sacra” – viatico per congiungere l’uomo a forme infinite di trascendenza – e la “sezione aurea” (o costante di Fidia, scultore tra i primi a utilizzarla per le sculture del Partenone): “il rapporto fra due lunghezze, delle quali la maggiore è il medio proporzionale tra la minore e la somma delle due”. Definito il suo valore da un numero irrazionale, andando a braccetto con la successione di Fibonacci, a cui è strettamente collegata, la “sezione aurea” sia per le sue proprietà geometriche e matematiche, che per la disparata frequenta in contesti sia naturali che culturali, ha affascinato per millenni matematici, studiosi, filosofi e artisti. Ed è proprio per queste sue caratteristiche che la “sezione aurea” è diventata col tempo un ideale di bellezza e armonia, un “canone di perfezione”. Da Babilonia all’Antico Egitto, da Fibonacci al Rinascimento, dal volto della Gioconda agli esperimenti divisionisti, fino a Gino Severini negli anni ’20 e più tardi Mario Merz: sono infiniti gli esempi che nascondono o rivelano l’utilizza di questa misura divina. Senza dimenticare l’ambito architettonico, che, senza andare a contare i centinaia esempi antichi, basti citare l’illustre Modulor di Le Corbusier e, per restare in Italia, Giuseppe Terragni.
Volo pindarico dalle forti tinte romantiche – inevitabile vista la location fiabesca – “Porportio” si apre con cinque grandi padiglioni architettonici, progettati da Axel Vervoodt e dall’architetto Tatsuro Miki, costruiti con elementi naturali come la canapa, unita alla calce viva e all’acqua e installati nella Sala Gondola. Ogni padiglione è stato progettato seguendo la “sezione aurea”. Da contraltare a queste imponenti costruzioni dalle profonde aperture scure, le foto di altrettanti monumentali edifici di Markus Brunetti: una serie di cattedrali medioevali fotografate in tutta Europa.
La vera magnificenza della mostra si rivela nel piano nobile o “Piano Fortuny” dove un lungo tavole raccoglie modelli di Le Corbusier – Poissy, Villa Savoye – (per il noto architetto l’essenza cosmica delle proporzioni non rifletteva l’ordine platonico dell’universo o l’armonia delle sfere celesti, ma piuttosto la gerarchia economica internazionale del Secondo Dopoguerra), Erwin Heerich, Ilya e Emilia Kabakov – Monument To Unknow People, 2008-09 – e Richard Meier, tra gli altri. Una costruzione volante di Tomàs Saraceno, piccoli oggetti di pietra del neolitico per meditare, un enorme quadro di Michae?l Borremans (ma potrebbe benissimo essere un perfetto esempio di pittura spagnola di fine ‘600), una grande biblioteca “ideale” con edizioni antiche di trattati di Vitruvio, Du?rer, Alberti, Serlio, Palladio e altri; piccole sculture egiziane accanto a frammenti di pietra che raffigurano Buddha; un commovente volto di Fausto Melotti in gesso del 1928-29; grandi acrilici astratti di Victor Vasarely del 1957 fiancheggiano due arazzi di oltre due metri e mezzo di Alighiero Boetti – “Alternando da uno a cento e viceversa”, 1993-94 -, un tavolo presenta un’anamorfosi conica di William Kentridge…
Le quattro stanze laterali del salone principale hanno un’atmosfera raccolta e silenziosa e sono dedicate a Hans Op de Beek con il suo video “Night Time”; Anish Kapoor vicino alla strepitosa opera di Alberto Giacometti… e ancora Fred Sandback insieme a Raoul De Keyser e Brice Marden. In una stanza in quasi penombra le “sgraziate” proporzioni nel corpo liquido e deforme di un’opera di Berlinde de Bruyckere. Il laboratorio di Mariano Fortuny con i suoi dipinti originali alle pareti presenta la sua ricerca sui modelli teatrali con un’opera di Anne-Karin Furunes appositamente pensata per l’esposizione e una scultura di Marisa Merz. Quasi introvabile la piccola stanza dedicata al confronto ‘mistico’ tra Dries Van Noten e Hans Op de Beeck.
Il secondo piano espone principalmente opere bianche come quelle di Ad Ryman, Agnes Martin, Kees Goudzwaard, Ann Veronica Janssens e Norio Imai, grandi installazioni come una serie di disegni di Massimo Bartolini, una scultura di Lucia Bru e un disegno murale di Sol Lewitt. Domina – anche grazie alla luce naturale – l’imponente e perfetta scultura in gesso del Canova, “Paride” del 1807. Nelle sale adiacenti: un’opera di German Otto Boll, un’installazione di Robert Indiana in dialogo con un’opera al neon di Francesco Candeloro.
L’ultimo piano, con il padiglione wabi, si concentra sulle proporzioni nel cosmo e nello spazio intergalattico oltre che sulla meditazione e sul silenzio, presentando alcuni artisti coreani Tansaekwa come per esempio Chang-Sup Chung e Chong Hyun Ha. Nella costruzione labirintica nel centro della stanza, i toni grigi e marroni della “Natura Silente” di Giorgio Morandi del 1941, si confondono con i neri dell’ombra (e forse di una più profonda oscurità).
Per questo piano, Marina Abramovic ha creato un’installazione sonora per questo specifico sito, “Ten thousand stars”, attraverso la quale il pubblico, con delle cuffiette, puo? intraprendere un viaggio asonico nell’universo.