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Testo di Marta Silvi
The Gallery Apart, Macro: Pirri / Fortuna, Fondazione Giuliani, Frutta, Gavin Brown, T293, Tevere: Kentridge, Monitor, Sara Zanin Z2O, Fondazione Memmo, Istituto Svizzero: Armleder, Villa Medici :CY Twombly, Albumarte, Ermes Ermes, Nomas, Indipendenza
Roma Roma Roma esclamava diversi anni fa il nome di uno spazio espositivo entrato poi nella leggenda.
Arretrata su tanti fronti, nel campo dell’arte contemporanea la Capitale compie i suoi piccoli miracoli trainata prevalentemente da privati e da qualche istituzione illuminata. In aprile, come in tutte le primavere che si rispettino, la città si risveglia dal torpore e si apre alle sperimentazioni, lasciando come dessert di fine stagione alcune delle mostre più interessanti dell’anno.
A piedi, o ancora meglio su due ruote, è possibile tracciare un percorso, una passeggiata che intersechi spazi espositivi di ricerca e mostre originali, molte delle quali aperte all’ombra della kermesse lagunare, come giusto aperitivo dell’abbuffata in arrivo. Complice il bel tempo e le meraviglie che solo Roma custodisce (sebbene spesso in modo inappropriato), un excursus nel contemporaneo lascerà stupiti e, oserei dire, ampiamente soddisfatti.
Immaginando una “mezza maratona” (un quarto, a essere precisi) che da sud a nord, risalendo per il Tevere, ci porti a visitare alcune esposizioni scelte, se si volesse addirittura abbandonare ogni mezzo a motore e avventurarsi a piedi, con una giornata, 11 km stimati di spostamenti, e circa 3 ore di esercizio fisico, senza contare le numerose pause, sarebbe possibile giovare a mentem et corpus, riportando in valigia proposte di qualità alla stregua delle altre capitali europee!
Partiamo da Testaccio, dunque. The Gallery Apart offre una mostra rigorosa e altrettanto singolare: Florian Neufeldt, per la terza volta in galleria, in Stray Currents (fino al 27 maggio) si riappropria di luoghi e oggetti destrutturandoli, modificandoli, ripensandone forma e significato. Non semplici objets trouvées dunque, ma materiale in trasformazione. L’artista si insinua nel tessuto connettivo della galleria come un organismo “parassita” che si nutre delle sostanze del corpo ospitante. Le sculture “viventi” si attivano con lo scorrere dell’energia elettrica deviata dai fili di rame, in una plasmoferesi indotta che invita a ripensare il concetto di spazio, di struttura, di oggetto artistico. Una riflessione che ricorda, alla rovescia, quegli “Spazi atti/Fitting Spaces” su cui Jean-Hubert Martin e Roberto Pinto si interrogavano nel 2004 nella mostra omonima al PAC di Milano, dove i mobili silenti di Alberto Garutti emettevano fluorescenze notturne, in evidente assenza di pubblico.
The Gallery Apart – Macro Testaccio: 1,3 km – 18 min a piedi
Macro Testaccio ospita due mostre molto diverse, entrambe assolutamente ben congeniate (fino al 4 giugno).
Alfredo Pirri, insieme ai curatori Benedetta Carpi De Resmini e Ludovico Pratesi, allestisce lo spazio (non facile) della manica sinistra con un percorso che offre visibilità a tutte le tecniche e a tutti i linguaggi impiegati nel suo lavoro. Tappa conclusiva del progetto I pesci non portano fucili, iniziato nel novembre 2016 con la mostra RWD / FWD, allestita presso lo Studio/Archivio dell’artista. Le opere sembrano trasformarsi in un crescendo che evolve idee e materiali da uno stato liquido (Squadre plastiche, 1987-88, La stanza di Penna, 1999, Verso N, 2003) a uno gassoso (Gas, 1990), intervallate da un corridoio che ha il sapore rituale di una soglia, inevitabile quanto urgente: in Passi un tappeto di specchi si frantuma al passaggio dell’artista prima e degli spettatori poi. Un horror vacui potenziato che, come Pistoletto in Twenty-two Less Two, Biennale di Venezia 2009, sfida in modo catartico e irriverente ogni parvenza di scaramanzia.
Nell’ala di destra invece la mostra di Pietro Fortuna, a cura di Pietro Gaglianò, predilige i vuoti ai pieni, liberando l’energia delle sculture in ascolto dell’ambiente. Con più di trenta opere concepite ex novo, l’artista costruisce un’antologica che raccoglie temi e suggestioni rivolte al processo più che al prodotto finito, conferma di una cifra stilistica ormai consolidata.
“S.I.L.O.S.” afferma Fortuna, “In verità è un acronimo che sviluppato recita: ‘senza illusione le occasioni svaniscono’”. Le grandi sculture cilindriche, come veri recipienti di stoccaggio, accennano a una staticità ingannevole, dove gli oggetti prelevati dal quotidiano si paralizzano per un tempo dilatato, ammiccando invece a un’instabilità insita nella natura delle cose.
Macro Testaccio – Fondazione Giuliani: 700 m – 9 min
Fondazione Giuliani, attiva dal 2010 sotto la direzione artistica di Adrienne Drake, apre la mostra di N. Dash, alla sua prima personale istituzionale in Europa (fino al 14 luglio). L’artista impiega forme e linee rigorose che rompono però la frontalità del quadro in assemblage di piani e tessuti differenti, riportando alla memoria le tele sagomate di Frank Stella, ad esempio, nel suo anelito al superamento delle regole estetiche stabilite. Dash usa materiali vari in dialogo con le preesistenze del luogo, come l’acqua, elemento tipico della romanità, che sotterranea e salvifica, torna nell’unico video presente in mostra dove, scorrendo da sinistra a destra anziché dall’alto in basso come la gravità prescriverebbe, enfatizza un capovolgimento minimo ma disturbante. Monocromi, pitture a gesso, serigrafie, tele foderate di stoffe funzionano da indici delle abitudini e delle pratiche che l’artista conduce nella sua vita di tutti i giorni.
Fondazione Giuliani – Galleria T293: 1,1 km 15 min
Verso Trastevere, la galleria T293 ospita “Barriers (Stanchions)” di Puppies Puppies (fino al 27 maggio) che, spiazzante e tagliente come spesso nei suoi lavori, modifica la percezione dello spazio attraverso un’unica istallazione. Un lungo e intricato labirinto, una soglia di attesa verso un’uscita cieca, dove il cartello appeso sul muro di fondo conclude il percorso: “For LGBTQ immigrants, deportation can be a death sentence. It’s time for a new approach”. Il tempo e lo spostamento diventano matrice scultorea di un pensiero che si fa presenza nell’azione dello spettatore.
Galleria T293 – Gavin Brown S. Andrea De Scaphis: 150 m 2 min
Dietro l’angolo, la ex Chiesa di S. Andrea De Scaphis, headquarters romano di Gavin Brown’s Enterprise, ci chiama a raccoglimento con un lavoro site specific di grande impatto scenografico e iconografico: tra le mura scalcinate di questa antichissimo edificio (le cui fondamenta risalgono al IX secolo) una Panda anni Ottanta (Panda Disponibile, 2017), come se ne trovano abbandonate nelle strade meno battute della Capitale, priva di pneumatici (rubati? venduti?) e appoggiata a mattoncini di fortuna, si trasforma in un altare profano che trasuda cera colorata di candele accese e già ampiamente consumate. I fari, ancora funzionanti, illuminano il luogo accentuandone l’atmosfera religiosamente dissacratoria. Mark Handforth si appropria del simbolo di una italianità vivace ormai al tramonto, costruendo un campo di energie antitetiche quanto incredibilmente complementari. (fino al 17 giugno)
Gavin Brown S. Andrea De Scaphis – Frutta: 100 m 1 min
Sempre nel Trastevere District, da Frutta ha ospitato fino a pochi giorni fa (13 maggio) un’artista raffinata. Alek O., di cui si era già recentemente esposto il grande lavoro in Quadriennale, fodera le pareti della galleria con una serie di opere che slittano in un continuo rimando tra ciò che sembra e ciò che realmente è. I pigmenti delle foglie (vere) “imitano” la pittura e diventano colore invertendo il processo di mimesis classico. La natura si fa pittorica mentre l’elemento industriale (il polistirolo usato per proteggere i prodotti elettronici nelle scatole) crea il contrappunto, richiamando i concetti dell’arte minimale, la riduzione alle strutture geometriche elementari, impersonali e antiespressive.
Frutta – Fondazione Volume!: 1,4 km 17 min
La passeggiata sulle rive del Tevere vale la pena lo sforzo: Triumph and Laments, il fregio a “pittura idroarea” ottenuto attraverso la pulizia selettiva della patina biologica depositatasi negli anni sul travertino dei muraglioni, con cui William Kentridge aveva omaggiato Roma poco più di un anno fa, ancora si concede imponente sulle sponde del fiume, tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini.
Da Fondazione Volume! (fino giugno inoltrato) la mostra, a cura di Claudia Gioia, squarcia come di consueto lo spazio. Walid Raad, dedito per molti anni al progetto The Atlas Group, in Another Letter to the Reader, “mette in scena” un racconto credibile che potrebbe rivelarsi reale quanto immaginario: pitture di provenienza araba, depositate su casse per imballaggio divenute superfici di creazione, scovate e raccolte momentaneamente come tesoro prezioso in Fondazione, ma pronte a conquistare nuove derive.
Fondazione Volume! – Monitor 650 m 9 min
Attraversato il Tevere, Monitor apre le porte a un artista anglosassone mid-career. Le sculture di Eric Brainbridge sembrano uscite dalla lezione della Minimal Art americana delle origini. A uno sguardo più attento rivelano, invece, la loro natura assolutamente irriverente, l’anima kitsch, l’ironia tagliente e rivoluzionaria: l’assemblaggio di oggetti di uso comune e l’improbabilità delle loro combinazioni offrono punti di vista multipli. L’accostamento di metallo industriale e pelliccia sintetica, polistirolo e cemento (Jesus, 2011), pittura e stracci antipolvere (Untitled, 2014) creano cortocircuiti raffinati squisitamente pop, privi di perifrasi inutili (fino al 17 giugno).
Monitor – Sara Zanin: 400 m 5 min
Oltre Corso Vittorio, la galleria Sara Zanin ospita (fino al 10 giugno) la personale di Evgeny Antufiev. Intrigato dalla passione di Vladimir Nabokov per le farfalle, Antufiev, durante la preparazione del progetto, soggiorna nella stanza d’albergo che divenne la casa effettiva di Nabokov per molti anni.
In mostra sono presenti diverse immagini di questa stanza catturate dall’obiettivo dell’artista, punto di partenza per la creazione di alcune sculture. “Nel suo valore simbolico, la farfalla è da sempre, in molte culture, associata alla compenetrazione tra visibile ed invisibile, punto d’incontro tra il finito e l’eternità, tra l’umano ed il divino, segno di mutamento, di metamorfosi e di rinascita.” racconta Marina Dacci nel testo di presentazione.
Sara Zanin – Fondazione Memmo: 1 km 13 min
Con il bel tempo dalla nostra, la passeggiata romana prosegue per le vie intricate del centro.
Fondazione Memmo presenta la prima personale a Roma di Giuseppe Gabellone, a cura di Francesco Stocchi. Le sale espositive sono lasciate ariose, le opere si collocano come punti di una costellazione, richiamandosi a vicenda ma senza sovrapporsi. Interno – esterno, artificiale – naturale sono i binomi e i binari si cui si muove la mostra, nell’urgenza di ridurre i concetti a forme e materiali semplici, ripulendoli degli eccessi della cultura moderna (fino al 15 ottobre).
Fondazione Memmo – Istituto Svizzero 1 km -14 min
All’Istituto Svizzero, l’Head Curator Samuel Gross, insediatosi da nemmeno un anno, imprime un cambiamento sostanziale alla programmazione e alla scenografia espositiva, rimettendo a disposizione degli occhi del pubblico una location incredibile come la Villa Maraini. La mostra di John Armleder “Stockage” parte proprio dal concetto di riscoperta dei materiali custoditi in magazzino. FS ciniglia, 1996 richiama ironicamente i Feltri di Robert Morris in chiave smaccatamente pop (i fili di ciniglia sono quelli delle tende antimosche degli anni Ottanta), Untitled, FS, 1998, una fascina di neon che nel sodalizio freddo-caldo, industriale-artificiale trova una location incredibilmente perfetta nella sala verandata che si affaccia sul giardino, come anche Untitled, 2002 che con le sue bolle luminose ancorate alla parete di fondo nella sala della musica, crea un dialogo prolifico con gli strumenti preesistenti e il lampadario di cristallo veneziano, quasi a scimmiottarne l’eleganza raffinata senza nessuna pretesa di emularla (fino al 1 luglio).
Istituto Svizzero – Accademia di Francia, Villa Medici 900 m – 12 min
Poco distante, salendo Trinità dei Monti, vista privilegiata sulla città eterna, Villa Medici rappresenta un luogo in transito imprescindibile per le arti: non solo per le mostre a lungo termine, come quella appena conclusa di Annette Messager e quella appena inaugurata di Yoko Ono e Claire Tabouret, a cura di Chiara Parisi, ma anche per l’originalissima rassegna “Art Club”, appuntamenti a cadenza bisettimanale circa che Pier Paolo Pancotto crea su misura negli spazi della Villa, di volta in volta scelti per l’occasione. Il più recente dei quali, un dialogo muto ma estremamente efficace tra l’arredo della stanza del Cardinale (o stanza degli Amori) sita al piano superiore dell’edificio centrale, e il lavoro, appositamente richiamato d’Oltreoceano, Untitled di Cy Twombly, legno, foglia di plastica, gesso, pigmento rosso e pittura industriale, realizzato nel 1959 prima che l’artista interrompesse l’attività di scultore, ripresa solo nel 1976.
Accademia di Francia, Villa Medici – Albumarte 1,5 km – 20 min
Albumarte si colloca in maniera singolare nel panorama romano. Ormai rari gli spazi no profit, questo progetto è riuscito a ritagliarsi una grossa fetta di pubblico che né i musei né le gallerie private erano stati in grado di attrarre. Aperto a sperimentazioni e incontri, talk e screening, ha da poco ospitato la mostra di un giovane duo italo – francese Marroni – Ouanely (fino al 14 maggio) che si interroga con un linguaggio asciutto e già incredibilmente maturo su temi quali la dialettica realtà e finzione, artigianale e industriale, passato e futuro. Definendola la propria un’estetica “primitivo contemporanea”.
FUORI ROTTA
Fuori rotta, dietro il Colosseo, da non perdere Ermes Ermes con un progetto site specific di Nick Bastis, artista americano che vive a Vilnius, con il supporto teorico di Luca Lo Pinto (fino all’8 luglio). Lo spazio noto di Via Crescimbeni viene ripensato: lasciato alla debole luce naturale che filtra dalle lunette riportate visibili – l’artista ne ha sottratto le pareti di cartongesso e lo scheletro che le sosteneva adagiandole come pelli in concia nella sala attigua – dislocati e catalogati nello spazio una serie di assi di divisori dei negozi alimentari, dettano il punctum. Un grande armadio d’epoca ci offre le spalle per custodire/nascondere una scultura in ottone e una in acciaio, simili a livelle personalizzate. Orologi stilizzati accennano al tempo come concetto metafisico. Il film found footage in loop nella sala di fondo educa lo sguardo come nuova unità di misura.
Fondazione Nomas apre la mostra di Domenico Mangano & Marieke van Rooy. Homestead of Dilution (fino al 28 luglio) che si presenta come un prolifico omaggio/studio alla figura di Nieuw Dennendal, capostipite del contro movimento degli anni Settanta nel mondo dell’assistenza psichiatrica e ideatore del concetto utopistico di “diluizione”: ovvero l’idea di avvicinare persone sane e malati di mente, nel tentativo di superare il crescente senso di polarizzazione e gerarchizzazione manifestato nella società del tempo. La mostra si snoda tra video (girati negli ultimi centri psichiatrici in via di smantellamento), sculture, manifesti, fotografie creando un ambiente meditativo e immersivo particolarmente coinvolgente.
Last but not least, Indipendenza, per il suo appuntamento semestrale, invita Karl Holmqvist e Klara Liden (fino al 9 settembre) in un dialogo decisamente fecondo che sfiora temi universali quale individuale – collettivo, pubblico – privato, con particolare aderenza ai luoghi che custodiscono la mostra, lasciati imperfetti della loro vita passata, un appartamento non rinnovato risalente agli inizi del Novecento.