Testo di Carla Tozzi —
Un primo piano strettissimo sul muso di un panda è la fotografia scelta come sfondo della locandina della mostra curata da Paolo Zani alla Galleria ZERO… dal titolo PANDEMIC (vol. 21), un gioco tra parola e immagine che anticipa il brillante dialogo tra le opere di dieci artisti: Neïl Beloufa, Guillaume Bijl, Enzo Cucchi, Irene Fenara, John Gerrard, Eva & Franco Mattes, Emilio Prini, Michael Rey, Hans Schabus e Ylva Snöfrid.
Pandemic (vol. 21) propone uno sguardo aperto, caleidoscopico e plurale sul presente, su quella nuova imprevista quotidianità che da circa un anno e mezzo ha cambiato la vita di tutti e lo fa suggerendo spunti e input per nuovi possibili mondi su cui la pandemia ci ha dato il tempo di fantasticare. Il mondo digitale nelle sue innumerevoli forme interseca sempre più quello reale rendendo il limite che li separa sempre più sottile e sfocato e l’uomo si trova ad abitare all’interno di quella intercapedine in cui le regole del reale e la fantasia parlano dando luce a immagini a tratti ironiche, più o meno verosimili, indipendenti.
Nell’opera Struggle for life (2016), Irene Fenara porta lo spettatore in una dimensione quasi surreale in cui il movimento di una videocamera è costantemente protratto verso l’alto e costantemente combattuto e riportato verso il basso da una forza sconosciuta, quella del sistema di sicurezza di cui la telecamera fa parte in un allevamento in Danimarca. Come una finestra su un mondo di immagini digitali abitato solo da immagini digitali, quello creato della rete globale della video sorveglianza da una parte suggerisce lo sviluppo di una società sempre più improntata al controllo e dall’altra è definibile come un universo di archivi di fotografie disabitati dalla presenza umana, i cui contenuti infiniti non verranno mai guardati dall’occhio umano. Fenara pone al centro della sua opera quelle “immagini prodotte dalle macchine per le macchine” – come le definisce Valentina Natti in Memestetica (2020).
John Gerrard con Flag (Amazon) (2017) porta l’immagine digitale iperrealista in un ambiente naturale e poetico: un software crea continue ricostruzioni di una macchia di benzina sospesa a galla su uno specchio d’acqua che viene colpita da raggi luminosi. Qui la benzina è intesa come bandiera che crea un legame concettuale stretto con il tema del Capitalocene e della globalizzazione.
Il dipinto L’Ombra Alta (2021) di Enzo Cucchi si accosta con curiosità a una creatura che da internet entra letteralmente in scena nella galleria, l’Half Cat, un gatto bianco dotato di testa, coda e zampe anteriori immortalato mentre cammina per strada, diventato negli ultimi anni uno dei più conosciuti protagonisti dell’universo memetico. Eva e Franco Mattes in Half Cat (2020) hanno estrapolato questa star dei surreal memes dal contesto digitale per portarla in carne e ossa davanti agli occhi del visitatore, che si trova perciò di fronte a un’immagine a tratti disorientante, quella di un gatto tassidermizzato che sulle sole due zampe anteriori sembra scorrazzare per il piano terra della galleria.
Anche Emilio Prini già nel 1997, qualche anno dopo il lancio del World Wide Web, sfruttava con grande ironia la tecnologia di internet, con l’opera Esco. Una sequenza di colori all’infinito che lo spettatore può interrompere in qualunque momento per passare a altra pagina dell’INTERNEZ, sempre attuale con i suoi colori cangianti, assoluti e digitali.
Michael Rey con Anz Quisp (2016) richiama lo scollamento tra il corpo e la realtà incorporea del virtuale evocato dalle sue opere, che l’artista dice essere nate da “un’ansia entropica del corporeo, ma nel corso del tempo si è evoluto nella ricerca di una libertà emancipante attraverso l’astrazione che si dissocia dai segni e dalle immagini legati al mondo”.
Ad una dimensione più personale e domestica – con la quale la pandemia ha costretto tutti a confrontarsi ridando allo spazio abitativo un tempo di cui era stato privato – si collegano in maniere diverse le opere di Hans Schabus, Ylva Snöfrid, Guillaume Bijl e Neil Beloufa.
Il lavoro di Schabus, Mona Lisa (Pandemic) (2014-2021), è una nuova serie di puzzle col soggetto della Gioconda di Leonardo Da Vinci, che l’artista ha cercato nelle diverse edizioni disponibili sul mercato e che ha portato finalmente a compimento nel 2021, impiegando sette anni proprio come Leonardo nella realizzazione del ritratto di Lisa Gherardini.
Al tema dei riti e dei rituali interrotti e rinnovati fanno riferimento i dipinti di Snöfrid che posti in posizioni corrispondenti sui due piani della galleria raccontano di un momento di rituale trasformazione. Bijl con le sue nature morte stravaganti della serie Sorry (2021) propone delle composizioni di oggetti legati all’ambiente abitativo e quotidiano esposti come fossero fossili e reperti archeologici di questo periodo storico. Anche la comunicazione tramite dispositivi tecnologici ha lasciato alla voce e ai pensieri soltanto i connotati del volto dei singoli individui, protagonisti delle interviste fittizie di Beloufa in Global Agreement.
La mostra PANDEMIC (Vol. 21) attiva una molteplicità di riflessioni sul presente lasciando totale libertà interpretativa e di riconoscimento al visitatore che è invitato a leggere e individuare la propria trama in una narrazione collettiva per immagini, seguendo le opere esposte in un percorso indefinito nello spazio post-industriale della galleria.