ATP DIARY

New Photography | Conversazione con Leonardo Magrelli

Mauro Zanchi: Le immagini del progetto West Of Here paiono fotografie in bianco e nero di luoghi quotidiani, esistenti, come se fossero molto vicine alle ricognizioni di Lee Friedlander o di Edward Ruscha o di Garry Winogrand o di altri grandi autori americani. Invece tu hai indotto una benevola trappola iconica, facendo in modo che gli […]

Leonardo Magrelli – West Of Here
Leonardo Magrelli – West Of Here

Mauro Zanchi: Le immagini del progetto West Of Here paiono fotografie in bianco e nero di luoghi quotidiani, esistenti, come se fossero molto vicine alle ricognizioni di Lee Friedlander o di Edward Ruscha o di Garry Winogrand o di altri grandi autori americani. Invece tu hai indotto una benevola trappola iconica, facendo in modo che gli sguardi dei fruitori – o almeno quelli che guardano la prima apparenza o in modo sbrigativo – non si accorgano dell’inganno (che qui non rivelo, almeno non alla prima domanda). Come sono nati la prima idea e i collegamenti di senso successivi, quelli di stampo concettuale, su cui hai costruito la narrazione, il libro e il senso di queste immagini?

Leonardo Magrelli: Come dicevi tu, a una prima occhiata West of Here si presenta come una classica indagine fotografica sul territorio di Los Angeles e dintorni, seguendo le orme dei molti fotografi che hanno raccontato questi spazi (oltre agli autori che hai citato, penso anche a Mark Ruwedel, John Divola, Henry Wessel, Anthony Hernandez). A uno sguardo più attento tuttavia, il lavoro rivela il suo inganno. Tutte le immagini provengono infatti dal videogioco Grand Theft Auto V, la cui ambientazione simula la metropoli californiana e i suoi dintorni. Per lungo tempo ho collezionato immagini provenienti da innumerevoli blog su internet, in cui giocatori di tutto il mondo caricano scatti catturati dal gioco, per diverse ragioni: spesso per scambiarsi consigli sulle missioni, per video-registrarsi mentre le eseguono, o per invogliare altri utenti a scaricare migliorie grafiche. Oltre a un linguaggio visivo spesso “oggettivo”, che a me ricordava quello dello stile documentario, la cosa che mi aveva colpito di più era proprio l’enorme quantità di queste testimonianze visive di un luogo inesistente. Quando ero più piccolo, e giocavo ore ed ore ai videogame, non mi sarebbe mai passato per la testa di “fotografare” ciò che accadeva nel gioco. Oggi si trovano invece migliaia e migliaia di queste immagini in rete, e il perché, a mio avviso, è presto detto: se ci viene data la possibilità, in modo semplice, di registrare visivamente qualcosa, qualsiasi cosa, finiremo sempre per farlo. Il richiamo dell’immagine è troppo forte. 
Il passaggio cruciale poi è stato quando ho provato, quasi per caso, a portare in bianco e nero queste immagini estremamente sature e colorate. La loro evidenza virtuale e digitale scompariva, sfumava ulteriormente la differenza tra vero e falso, e diventavano subito chiari i richiami agli autori sopra citati. Da lì in poi la strada era abbastanza spianata, bisognava solo fare un accurato processo di ricerca, editing e di taglio. Mi sembrava futile rifare io stesso, dentro il videogame, una serie di scatti “alla maniera di”  – tra l’altro un’operazione già fatta da artisti molto bravi come Roc Herms e Alan Butler. Era molto più interessante invece usare come materiale di partenza le foto che avevo collezionato. Questo processo mi permetteva infatti sia di evidenziare l’incontrollata proliferazione di immagini in ogni ambito, sia, al contempo, di ricostruire una narrazione unica partendo da una sorta di “memoria collettiva” di un posto che non esiste.

Leonardo Magrelli – West Of Here
Leonardo Magrelli – West Of Here – Installation view
Leonardo Magrelli – West Of Here

MZ: Secondo Pessoa ogni poeta finge così totalmente tanto da credere che siano vere persino le sensazioni dolorose che veramente sente: “Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente. / E quanti leggono ciò che scrive, / nel dolore letto sentono proprio / non i due che egli ha provato, / ma solo quello che essi non hanno” (Autopsicografia). Quale origine ha la tua predilezione per la finzione-cortocircuito, che direttamente o in modo indiretto mette in crisi molte certezze e lo statuto della fotografia?

LM: Che la fotografia sia un mezzo ambiguo è stato chiaro sin da subito ai più avveduti (basti pensare all’annegato di Bayard, ai cadaveri spostati a favore di camera da Gardner nelle foto della guerra civile americana, o a come O’Sullivan inclinava la linea dell’orizzonte in alcuni suoi scatti, pur essendo stato incaricato di documentare in maniera “esatta” l’Ovest americano). Io comunque non vengo da studi classici di fotografia, non sono cresciuto assistendo al rituale iniziatico e sacrale della nascita dell’immagine dal bagno chimico in camera oscura. Dopo i miei studi (Disegno Industriale e Storia dell’Arte), ho iniziato a lavorare come grafico editoriale e a fare copertine di libri trade. Questo per dire che sono cresciuto facendo ogni giorno operazioni quali: prendere la foto di una collina, scontornarne una di un soldato e inserirlo davanti in primo piano, condire il tutto con un cielo plumbeo, e, se serve, virare i colori dell’insieme e aggiungere infine il titolo. Un approccio che rende evidente quanto il concetto di verità fotografica sia labile e quanto le immagini possano mentire. Questi due assunti credo abbiano influenzato profondamente la mia pratica artistica successiva. 

MZ: Consideri West Of Here un’opera aperta? Mi riferisco alle conseguenze e alle dinamiche che si innescano nel rapporto autore-fruitore, libro-lettore, mostra-spettatore. L’autore che ha messo in azione un racconto visivo permeato dalla fiction prevede che anche i suoi fruitori fingano di non sapere che le immagini non sono state realizzate con una ripresa fotografica, o che a un certo punto, anche se si sono accorti dell’inganno, continuino a credere che il racconto fotografico sia veramente accaduto a Los Angeles?

LM: Dopo che il “trucco” delle immagini è stato svelato, secondo me l’effetto che si produce nell’osservatore è simile a quello che si ha con la famosa anatra-lepre, o con quelle immagini prospettiche nelle quali, se ci impegniamo, riusciamo a ribaltare il senso della prospettiva. Ossia, passiamo dal vedere una cosa al vederne una diversa, oscillando tra le due, sempre coscienti dell’esistenza dell’altra. Nel caso di West of Here, la seduzione della fotografia è tale che, pur sapendo che nulla di ciò che vediamo è reale, i nostri meccanismi visivi di riconoscimento sono indotti a continuare a credere che lì ci sia una strada, lì ci sia una macchina, lì il cielo, lì una zona d’ombra…

MZ: Con quali scenari hai messo in discussione la veridicità della fotografia e della sua funzione di testimonianza attendibile?

LM: Una delle potenzialità che mi è parso di intravedere sin da subito in questo lavoro era proprio quella della messa in crisi del concetto di riconoscimento nella fotografia, e quindi della sua veridicità. Trovavo poi particolarmente indovinato che questo cortocircuito avvenisse attraverso immagini che, all’apparenza, rappresentavano Los Angeles: la città degli Studios, di Hollywood e dell’industria cinematografica, diventa essa stessa un set, una messa in scena, una replica virtuale del suo originale. Il libro, la cui idea è nata parallelamente e intrinsecamente al progetto, si apre con due citazioni, una delle quali è tratta dall’Eneide. Nello specifico si tratta del passaggio in cui il protagonista si imbatte in Buthrotum, la cittadella costruita da altri esuli troiani a somiglianza della loro città natale distrutta. E proprio come Buthrotum, Los Santos sembra più un ricordo che una copia. È immediatamente familiare e riconoscibile, ma allo stesso tempo ha qualcosa di vagamente strano e ambiguo. Mancano dei pezzi, le distanze sono alterate, le dimensioni cambiate.

Leonardo Magrelli – West Of Here – Installation view
Leonardo Magrelli – West Of Here – Installation view
Leonardo Magrelli – West Of Here – Installation view

MZ: Mi interessa approfondire il senso della fotografia di paesaggio rapportandola al cyberspazio. In quale mondo o dimensione sono immerse le immagini di West Of Here?

LM: La seconda citazione in esergo al libro è invece uno stralcio del commento di Vittorio Sermonti all’Eneide stessa. La grande opera in latino non fu mai conclusa, e presenta incongruenze, salti temporali e logici, brani che si contraddicono gli uni con gli altri. Per affrontare tutto ciò e orientarci nel capolavoro di Virgilio, Sermonti avverte: “Qui dobbiamo adottare la sintassi dei sogni, che assorbe le incongruenze [narrative] in un realismo chiaro, meticoloso, conflittuale e tangibilmente irreale». Ecco, per quanto mi sforzi di trovare parole alternative per descrivere l’esperienza virtuale restituita da Grand Theft Auto V, non se ne trovano di migliori. Sicuramente, questo effetto straniante è enormemente amplificato dal fatto che, come dicevamo, la città del videogame si rifà a Los Angeles, ma senza che la replica possa essere del tutto fedele (un’operazione del genere sarebbe mastodontica e richiederebbe uno spazio di archiviazione dati immenso). Forse in altri videogame questa sensazione è alleviata, non so, ma rimane comunque il dubbio di cosa significhi fotografare un luogo simile. Con quale luce si sta fotografando? È giusto dire che si sta fotografando? Che valore hanno delle tracce fisiche di una realtà intangibile?

MZ: Ci condurresti dentro le tue immagini, come se tu fossi un Caronte che ci porta in un altro mondo, simile a quello terreno ma con altre prospettive e connotazioni? In questo luogo che valore hanno i termini vero, falso, reale, finto, tangibile, virtuale?

LM: A mio parere, nel discutere quale accezione dare ai termini di vero, falso, reale in questo ambito, buona parte del problema risiede nel rapporto sfuggevole che le immagini virtuali intrattengono con quelle fotografiche. La differenza principale consiste nella mancanza di un referente reale e fisico nelle prime. Per quanto manipolata e artefatta possa essere, una fotografia è sempre la traccia di qualcosa di fisico al di là dell’obbiettivo. È proprio il fatto che ci sia un pezzo di realtà in ogni immagine fotografica ad aver creato così tanti problemi alla fotografia. Invece, nel caso di questi scatti virtuali provenienti da videogame, dietro non c’è niente: queste immagini sono soltanto la traccia di loro stesse. Sono sostanzialmente configurazioni particolari di informazioni relative alla luminosità dei vari pixel sullo schermo. Configurazioni particolari che ai nostri occhi, per ragioni culturali e percettive, producono un riconoscimento e si caricano di significato. Capito questo, non ha molto senso chiedersi se queste immagini siano vere, false, reali: il meccanismo di riconoscimento che attivano nel nostro occhio è comunque reale, la loro presenza sul libro o sullo schermo è reale anch’essa. Possiamo dire che è solo in rapporto alla fotografia che siamo tentati di definire queste immagini come false. In fin dei conti, potremmo tranquillamente considerarle delle illustrazioni molto verosimili, e avremmo forse meno problemi nel venire a patti con la loro natura.

MZ: In una conversazione per Doppiozero, con Simone Santilli (che con Nicolò Benetton ha costituito The Cool Couple) abbiamo ragionato sulla possibilità di realizzare fotografie estremamente realistiche nei videogiochi della Rockstar Games (soprattutto Red Dead Redemption 2, dove le schermate di caricamento sono dei negativi su lastra di vetro che si sviluppano gradualmente, e dove è possibile andare in giro a cavallo e fare foto di paesaggio per mezzo di una macchina fotografica virtuale) e di come Balenciaga abbia lanciato una sua collezione autunno-inverno attraverso una tipologia da videogioco, ovvero con uno spostamento di una fetta di mondo off-screen all’interno dell’ambiente di gioco. Secondo la tua esperienza, in che direzioni va il rapporto tra fotografia e gaming?  

LM: Gli esperimenti che legano fotografia e videogame sono già numerosissimi e spesso affascinanti. A chi interessasse scoprire di più, consiglio il blog “In-Game Photography” di Marco De Mutiis, curatore al Fotomuseum Winterthur, e la recente mostra How to Win at Photography (lì tenuta e da lui curata insieme a Matteo Bittanti), che contiene forse i più felici e fruttuosi esempi di come la fotografia incontri i videogame. Le direzioni verso cui si va orientando il rapporto tra i due campi mi sembrano già numerose, e si stanno moltiplicando velocemente. Un esempio che mi ha colpito molto mi è stato raccontato da un docente di fotografia poco tempo fa. Un suo allievo, mi diceva, viene pagato dalle società organizzatrici di tornei di videogiochi per fare il reporter di questi eventi virtuali, all’interno di questi eventi virtuali. Il suo compito, cioè, non consisteva nel fotografare i gamer intenti a giocare nelle conventions, bensì nell’accedere, dal suo computer, alle aree di gioco digitali per seguire le sfide dei giocatori nei loro diversi videogame (zone di guerra, città, piste da corsa etc.). Qui, muovendosi indisturbato in tali “open world scenarios”, il nostro studente di fotografia cattura immagini sul suo computer per raccontare l’avvenimento virtuale, come un vero e proprio fotoreporter. Più sdoppiamento di così!

Leonardo Magrelli – West Of Here – Libro