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New Photography | Ezio D’Agostino

Il decimo appuntamento dedicato alla nuova scena fotografica è dedicato a Ezio D’Agostino, fotografo nato a Vibo Valentia nel 1979, attualmente di casa a Marsiglia.Per leggere le altre interviste ☞ Mauro Zanchi, Sara Benaglia:  Come il tempo archeologico pensa il futuro? Ezio...

Ezio D’Agostino, dalla serie 14.644, 2010

Il decimo appuntamento dedicato alla nuova scena fotografica è dedicato a Ezio D’Agostino, fotografo nato a Vibo Valentia nel 1979, attualmente di casa a Marsiglia.
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Mauro Zanchi, Sara Benaglia:  Come il tempo archeologico pensa il futuro?

Ezio D’Agostino: Credo che il mio allontanamento dalla pratica archeologica sia iniziato proprio con la scoperta di questa assenza nel pensiero archeologico. L’archeologia non pensa il futuro, a causa di una visione del tempo cronologica, cioè propria a Kronos, e quindi storica, lineare. Il suo limite è nato con la sua etimologia, con quello “studio delle cose antiche”, che relega tali “cose” al fondo di quella linea retta sulla quale noi tentiamo di razionalizzare e visualizzare il tempo. Tali “cose” hanno influenzato e continuano a influenzare in diversi modi e ambiti il nostro presente, ma il futuro non è contemplato: una visione del tempo cronologica e lineare non consente di muoversi oltre quel punto eternamente mobile che è l’ora. Alcune correnti di pensiero moderne hanno però sviluppato alcune teorie interessanti sul pensiero archeologico, seppure non scientifiche: secondo queste, ogni ricostruzione del passato sarebbe vincolata dal punto di vista e dal contesto di coloro che lo osservano, e perciò non storicizzabile in maniera assoluta. Queste teorie, che in qualche modo minano l’“impianto probatorio” della disciplina archeologica, le permettono però di aprirsi verso il futuro, proprio perché ne scardinano la fissità storica. Ed è in queste teorie che ha messo radici il mio modo di concepire la fotografia. Un’ulteriore spinta è stata data dallo studio della teoria della relatività e delle sue implicazioni filosofiche sulla dilatazione e la relatività del tempo e degli eventi, e dalla lettura di alcuni autori moderni come Jorge Luis Borges o Gilles Deleuze. In particolare, ricordo il terrore e il sollievo con cui ho percepito il tempo modificarsi attorno a me mentre leggevo la serie di paradossi Del puro divenire nella Logica del senso del filosofo francese. Dal mio punto di vista, un reperto archeologico o una fotografia operano nella dimensione paradossale del divenire: non sono “cose” che si concludono in uno spazio temporale definito e definibile, ma fenomeni che si muovono liberamente in uno spazio fluido e aperto, e la cui esistenza e i cui significati diventano possibili solo grazie alla presenza di un osservatore. Per me, il reperto e la fotografia assomigliano più a presagi che a documenti.

MZ / SB: Il progetto NEOs (2019) apre uno spaccato su un presente avveniristico, in cui il tardo capitalismo ha una deriva spaziale. Come sarebbero cambiati gli scatti della serie se registrati su un asteroide? Forse somiglierebbero alle visioni di un microscopio elettronico?

EDA: Di scatti registrati sugli asteroidi ne esistono e, soprattutto nelle prime fasi della mia ricerca, queste immagini hanno fatto parte dei riferimenti visivi che tenevo a mente, per quanto abbia poi deciso di allontanarmene. Trovo interessante il riferimento al microscopio elettronico, perché la mia ricerca sul programma spaziale SpaceResources è iniziata proprio dalle fotografie al microscopio realizzate e fornitemi dal Musée National d’Histoire Naturelle lussemburghese del minerale di ferro contenuto nel sottosuolo del Gran Ducato, che è alla base del suo sviluppo economico e tecnologico. Queste fotografie erano incredibilmente simili alle immagini della superficie degli asteroidi che arrivavano nello stesso periodo dalle missioni spaziali giapponesi e americane. Probabilmente l’impostazione del lavoro è nata proprio da questa corrispondenza visiva: non potevo andare a scattare in orbita, ma mi sono accorto che i Near-Earth Objects erano più vicini alla terra di quanto mi aspettassi, e mi sono quindi messo alla ricerca di queste possibili ambivalenze.

Ezio D’Agostino, dalla serie 14.644, 2010
Ezio D’Agostino, dalla serie Alphabet, 2011
Ezio D’Agostino, dalla serie NEOs, 2017

MZ / SB: 14.644 è un insieme di segni che compone una mappa geografica. Il titolo è il numero di persone di cui è documentata la scomparsa, tra il 1975 e il 2010, per allontanamento volontario. Nel progetto visivo registri i luoghi in cui sono state avvistate per l’ultima volta queste persone, recuperando una memoria sbiadita, come una fotografia nel corso degli anni. Come interagisce la ricerca di prove visive con il processo operativo archeologico? Quali sono gli scarti?

EDA: 14.644 è il mio primo lavoro fotografico ed è la fase iniziale di un’interrogazione sull’immagine/documento, che porto avanti ancora oggi. Sfogliando l’album di matrimonio dei miei genitori, avevo trovato l’ultima fotografia (o meglio l’ultima fotografia conosciuta dalla famiglia) di un parente poi scomparso volontariamente. Avevo iniziato a interessarmi al fenomeno degli “allontanamenti volontari”, secondo la definizione dal Ministero degli Interni italiano. Già in quell’occasione avevo costruito una mappa dei luoghi in cui le persone scomparse erano state avvistate per l’ultima volta. Mi interessava individuare dei territori diventati luoghi di una verità processuale – è da lì che muovono le ricerche e le indagini delle polizia – in seguito alla testimonianza di una persona che avrebbe riconosciuto nel viso di un passante il ritratto fotografico diffuso dalla famiglia dello scomparso. Questi luoghi diventano il palcoscenico di una verità possibile grazie all’atto visivo: una vecchia fotografia di una persona scomparsa, un testimone, un fotografo, un osservatore di questa ulteriore immagine. Questa stratificazione di sguardi poteva modificare la lettura di un territorio: una nuova geografia costruita sul riconoscimento di un’immagine e sulla credenza a questa immagine. Le fotografie di questo lavoro non sfuggono alla costruzione di questa verità visiva. E laddove è possibile guardare queste immagini come documenti, allora bisogna intenderle come documenti “fragili”, temporanei, validi fino al giorno in cui un altro testimone pretenderà di aver riconosciuto l’immagine della persona scomparsa in un altro luogo. E in quel momento, che cosa diventeranno queste fotografie? Che tipo di documenti? Che “verità” potranno dimostrare? Può esserci verità nell’immagine solo se questa è condivisa dai suoi osservatori?

Per me, lo scarto fondamentale con il processo operativo archeologico sta nel fatto che la mia ricostruzione del fenomeno sociale dell’allontanamento volontario non è stata condotta su prove concrete, reali, ma esclusivamente sulle immagini e sui processi visivi che queste hanno prodotto, come in True Faith. Queste immagini raccontano allora diverse verità a seconda della fede con la quale si osservano.

MZ / SB: In Alphabet hai documentato con 26 fotografie l’interno del Forum des Halles a Parigi prima che venisse demolito. In quella che sembrerebbe una esplorazione territoriale, la tua fotografia si insinua nelle crepe del tempo. Che cosa produce questo tuo intervento cognitivo?

EDA: Alphabet è stato il risultato di una campagna fotografica realizzata nel Forum des Halles nel 2011, anno in cui sono iniziati i lavori di rinnovazione del sito. Les Halles di Parigi nascono intorno al 1100 come luogo dei mercati generali all’interno della cinta muraria: continuano ad avere questa funzione fino all’inizio degli anni ’70, quando una nuova visione della città comincia a farsi largo. In uno dei rarissimi interventi di rinnovazione architettonica del centro storico parigino, si progetta uno spazio che accolga le nuove esigenza della vita cittadina: commercio, trasporti, cultura, sport, loisirs… Il progetto implica la distruzione dei dieci padiglioni in ferro battuto e vetro costruiti dall’architetto Victor Baltard nella seconda metà dell’800 e l’espulsione massiva della popolazione dei ceti popolari che abitano il quartiere. Vi sono diverse lotte e opposizioni cittadine al progetto architettonico che dureranno diversi anni; viene anche organizzato un referendum con il quale i parigini bocciano il progetto sostenuto dall’allora sindaco Jacques Chirac, che nonostante tutto decide di farlo realizzare comunque. Un complesso monumentale di quattro piani sotterranei di cemento armato, vetro e metallo si impone nel pieno centro di Parigi, una sorta di labirinto in cui anche gli autoctoni hanno difficoltà a orientarsi. Nel bene e nel male, il Forum des Halles diventa però un luogo iscritto nella memoria visiva dei parigini ma non solo, con le sue superfici, i suoi materiali, i suoi colori. Fino a diventare obsoleto nel primo decennio del nuovo millennio, quando viene programmata una nuova ristrutturazione e un nuovo progetto architettonico volto a cambiare la forma del luogo, ma non il contenuto.
Quello che mi ha inizialmente colpito era questa visione microscopica della progettazione. In archeologia, mi sono trovato a studiare costruzioni architettoniche pensate per durare nei secoli. Un’opera monumentale come quella del Forum des Halles veniva invece ripensata e demolita integralmente trentadue anni dopo la sua nascita, e con lei tutta la storia simbolica che si portava dentro. Questa nuova distruzione creava una sorta di palinsesto con la prima distruzione del sito, e proiettava un’ombra sulla durata del progetto attuale. Ma soprattutto manifestava una visione del tempo architettonico radicalmente diversa da quella che avevo studiato in precedenza, e che mi sembrava sottintendere un’idea alla base dell’economia capitalista: la distruzione è produttiva.
Ho cercato allora di ritrovare queste diverse temporalità all’interno dello spazio in via di distruzione, in un rapporto 1:1 con il luogo che mi permettesse di rimisurare il tempo e lo spazio con un metro umano.

Ezio D’Agostino, dalla serie NEOs, 2017
Ezio D’Agostino, dalla serie NEOs, 2017
Ezio D’Agostino, dalla serie NEOs, 2017

MZ / SB: Le 26 immagini nella pubblicazione e le ventisei lettere dell’alfabeto che tu connetti al progetto inerente al Forum des Halles evocano rimandi all’idea dell’ impermanenza (e a criteri come la durata, la sostituzione e l’oblio). Ci interesserebbe approfondire la tua traduzione in forma dell’impermanenza.

EDA: Il termine che tengo a mente per riunire in un’immagine i diversi criteri elencati in questa domanda è stratificazione. E per questo credo che il mio lavoro tenda, in effetti, più alla mise en image della permanenza che dell’impermanenza. Mi chiedo come l’immagine fotografica possa includere in sé diversi elementi, sia temporali sia visivi: immaginari collettivi dei luoghi fotografati e dei soggetti con cui mi rapporto, le memorie collettive e personali dei luoghi, le strutture del guardare e le loro gerarchie consce o inconsce. Quello che mi interessa produrre come fotografia è una sorta di terrain vague, nel quale da un lato si riveli il substrato culturale da cui nessuna immagine può prescindere e dall’altro si crei uno spazio diacronico, che apra nuove letture dei territori, sia visivi sia reali.

MZ / SB: Come immagini il futuro della fotografia, una sua possibile evoluzione? Cosa cerchi tu, ora, nel potere rivelativo delle opere?

EDA: Sinceramente, non riesco a immaginare il futuro della fotografia: le sue forme e le sue applicazioni sono talmente varie e diversificate che un solo futuro sarebbe troppo riduttivo. Però ultimamente mi trovo a riflettere sul legame tra la produzione di immagini e le risorse naturali. Probabilmente a causa della crescente virtualizzazione delle immagini, forse si è persa di vista la tecnologia che serve oggi per produrle e conservarle, una tecnologia che – anche a fronte della quantità di immagini prodotte – è sicuramente più vorace di quella del secolo scorso, e palesemente in crescita. Nei tre anni in cui ho lavorato al progetto NEOs – sullo sfruttamento minerario delle risorse e dei metalli rari sugli asteroidi – mi sono trovato a interrogarmi sulla durata di queste risorse, che sono presenti anche nella catena produttiva delle nostre immagini: macchine fotografiche, computer, cavi di rete, server… Il fatto che i giganti del capitalismo tecnologico di oggi – quali Paypal, Ebay, Amazon, Google –  e le principali banche di investimento – come Goldman Sachs o Morgan Stanley – stiano finanziano questa impresa spaziale, racconta molto del futuro verso il quale stiamo andando: l’esaurimento sul nostro pianeta di alcune risorse rare, ma ormai indispensabili alle infrastrutture tecnologiche, e anche alla produzione e alla conservazione delle immagini. Credo che prima o poi la fotografia dovrà fare i conti con questa mancanza di risorse, e quindi di possibilità di produzione e conservazione.

MZ / SB: La nostra civiltà attuale sta vivendo la transizione da una biosfera a una iconosfera. Molti aspetti della vita si smaterializzano nell’impalpabilità dell’immagine. Cosa significa per te produrre nuove immagini in un’epoca in cui non ci facciamo più solo immagini del mondo, ma in cui il mondo stesso diviene un’immagine?

EDA: Questa domanda si lega bene con il discorso che facevo prima riguardo al progetto True Faith. Io credo che siamo in una fase successiva a questa smaterializzazione di cui si parla: in questa vicenda con la quale mi confronto, gli aspetti della vita si materializzino proprio nell’impalpabilità dell’immagine. Come in un ritorno di fiamma, l’immagine ha assunto in sé il ruolo poietico dei fenomeni: quello che esiste nell’immagine non solo ridefinisce i nuovi confini di ciò che si guarda e di come lo si guarda, ma si proietta anche in una dimensione spaziale, quella della realtà fisica, modificando realmente gli aspetti della vita sociale e della struttura fisica dei luoghi. Se in passato il paradigma era “se qualcosa esiste, allora è riproducibile in un’immagine”, oggi è l’inverso: se qualcosa esiste come immagine, allora esisterà anche nella realtà. Vedere qualcosa significa davvero che quel qualcosa esiste, proprio perché esiste come immagine. Nelle mie ricerche sui fenomeni delle apparizioni, mi sono imbattuto in una frase che trovo emblematica, pronunciata da Adolphe-Louis Donnadieu, fotografo e professore alla Facoltà Cattolica di Scienze di Lyon, che in uno studio del 1903 ricorda le testimonianze dei visitatori dell’ostensione torinese della Sacra Sindone: «Non si vede niente, dicono tutti insieme, di fronte all’Immagine», aggiungendo: «Potremmo allora domandarci da dove viene quello che si vede così bene sulla fotografia».

Ezio D’Agostino, dalla serie True Faith, 2016
NEOs, Installation View, Centre National de l’Audiovisuel (Luxembourg), 2019
NEOs, Installation View, Centre National de l’Audiovisuel (Luxembourg), 2019
NEOs, Installation View, Centre National de l’Audiovisuel (Luxembourg), 2019