Musica per un giorno è un appuntamento performativo della durata continuativa di 24 ore. Si svolge una volta l’anno e avrà un ciclo complessivo di 24 anni. Come un modulo potenziato nella sua moltiplicazione, ventiquattro per ventiquattro, questa aritmetica esistenziale nasce dall’incontro tra Canedicoda e Roberta Mosca, e mette in atto una riflessione che prende spunto da Musica per un giorno registrata in un mese, un disco di improvvisazione e field recordings della durata di 24 ore realizzato dallo stesso Canedicoda sotto l’alias Ottaven, prodotto nel 2012 dalla label Second Sleep con un box di 24 cassette da 60 minuti l’una.
Per il suo quinto anno la performance, presentata da Xing, si è svolta davanti a un ristrettissimo pubblico “familiare” dalle ore 12.00 di sabato 19 dicembre sino alle ore 12 di domenica 20 dicembre 2020 a Villa Cervo nel villaggio di Rosazza, sulle montagne biellesi (alcuni scatti selezionati sono in fondo al testo; le coperte e i costumi fanno parte della collezione di Canedicoda). Qualche giorno prima Canedicoda e Roberta Mosca hanno incontrato la curatrice e critica di base ad Amsterdam Angeliki Tzortzakaki. Ne è nata una conversazione a tre in cui si è parlato di calore umano, di “normalizzazione” del tempo e di una zuppa che non finisce mai…
(Nel 2021, per il suo sesto anno, Musica per un giorno sarà alla Triennale di Milano).
AT: Siamo già alla 5a edizione di Musica per un giorno. Nel 2016 ho visto la vostra première allo Spazio O’ presentata nella cornice di un’installazione scenografica che creava delle zone confortevoli che il pubblico poteva abitare a suo piacimento. Gli incontri seguenti sono stati da Raum a Bologna, al Museion di Bolzano e al Palazzo delle Esposizioni a Roma. Dopo questa serie di momenti più istituzionali il lavoro esce dalle metropoli culturali, ripercorre la Valle Cervo per infiltrarsi in una villa dell’800 in un paesino di circa 90 abitanti. Prendo questa occasione per chiedere a te Roberta la storia di questo posto e perché viene chiamato il paese degli spiriti…
RM: Si tratta della dimora che il senatore Federico Rosazza ha fatto costruire per la sua famiglia. La villa si trova all’interno dell’omonimo paesino che con lui ha avuto una svolta sia per le costruzioni sia per le sedute spiritiche (e massoniche). Si dice che Federico Rosazza ottenesse dagli spiriti indicazioni su come e dove costruire: quindi c’è un’energia misteriosa attorno all’architettura del paese.
AT: Vi troverete allora ad attraversare 24 ore in un anno talmente complicato a tutti i livelli, incluso quello temporale. Se lo Spazio O’ mi ha dato la sensazione di un ambiente di cerimonia o di culto contemporaneo, in questo caso mi viene più da pensare a un incantesimo su un luogo carico di storie e leggende. Come mai la scelta di un ambiente più intimo?
C: C’è sempre stata molta spontaneità nel cogliere le occasioni che venivano proposte e così facendo in un certo senso abbiamo vissuto come un crescendo di bellezza. Molto spesso ci si confronta nel lavoro con Xing e discutendo sul contesto di Rosazza, Silvia Fanti immaginava che l’intensità con cui avremmo affrontato questo capitolo non sarebbe stata tanto diversa rispetto a quella espressa in ambienti più istituzionali. Ed è vero. Specialmente in un anno come questo – nel quale un sacco di progetti che hanno a che fare con il pubblico sono stati annullati – poter portare avanti un rituale e dare ascolto all’aspetto spirituale e personale di un progetto.. beh mi sembra bello e corretto.
AT: Condivido molto l’interesse per questo aspetto personale dello spazio domestico, sia con residenze, letture collettive e tentativi espositivi. Considerando però quanto siano diverse le occasioni che accadono spontaneamente, fino a che punto credete che una pratica come la vostra venga definita dal contesto in cui si trova?
C: Credo che ogni ambiente abbia un suo valore e che spetti a noi sviluppare man mano una volontà di ascolto ed adattamento sempre più fine; questa attenzione deve per forza coesistere con la natura del progetto. Sicuramente il lavoro in alcuni spazi funzionerà meglio rispetto ad altri, ma questo non dev’essere un problema. Espandendosi in un arco di tempo di 24 ore è normale che si affrontino – sia con il movimento sia con il suono – momenti più o meno intensi. Spesso è come se parte del tempo sparisse: possono passare tre ore senza che io me ne accorga, in piena veglia, e dei blocchi di tempo svaniscono. Si perde un po’ l’importanza che può avere lo spazio in un dato momento quando sei concentrato sull’esperienza in divenire; il progetto non ha bisogno del nostro benessere. Hai detto bene all’inizio: si attraversano 24 ore. E’ un ottimo esercizio. Questa performance è delicata e lo spazio va protetto.
RM: Secondo me quello che fa moltissimo, più che lo spazio architettonico e fisico in sé, è come sia abitato, quale sia l’infrastruttura invisibile di codici, di azioni, pensieri e vissuti. Le differenze stanno nel calore delle persone che ci circondano. Uno spazio potrebbe valere l’altro, e in questo il nostro agio o disagio non è così importante. Poi c’è questa situazione particolare di adesso, e non ci rendiamo ancora conto completamente di cosa significhi essere distanti effettivamente dalle persone.
AT: Siete d’accordo che essere a proprio agio non è di primaria importanza. Mi ricordo che quando ho visto il lavoro mi sono chiesta, anche in un modo un po’ naïf, come fate a mangiare, a dormire etc. Qual è il ruolo del riposo in questo lavoro, sia il vostro che quello del pubblico?
RM: L’aspetto interessante di questo lavoro è ciò che sta in mezzo tra la veglia e il sonno. Per cui io non mi sono mai imposta un divieto; non si tratta dello sforzo di dover resistere ma piuttosto di esplorare qual è l’intenzione. Il lavoro continua, incluso durante il sonno che per me non è un tabù: anzi mi sono sempre addormentata e svegliata alla stessa ora casualmente senza sveglia. E anche cerco la consapevolezza del movimento. Poi c’è un disintegrarsi nel suono a livello fisico per me. Sin dall’inizio la nostra intenzione non era di fare musica (da ascoltare) e danza (da guardare), ma “respirare” quello che si crea nello spazio.
C: A me viene un po’ da “normalizzare” la pratica. Nel senso che ci sono tante attività più o meno folkloristiche che hanno a che fare con questa idea del perpetuo, del resistere e dell’insistere. Ad esempio un matrimonio in Uzbekistan può durare tranquillamente tre giorni, o in alcuni contesti per questioni religiose la musica non smette mai di suonare. C’è poi forse a Bangkok una zuppa che bolle da 45 anni e ogni giorno continuano ad aggiungere ingredienti. Musica per un giorno è una sensazione alla quale ci possiamo abbandonare e al suo interno ovviamente le intenzioni e le necessità cambiano. Personalmente, il fattore che mi motiva è questa idea e pratica di potersi concentrare per un periodo lungo su un mestiere; lo sforzo che porta a elasticizzare una conoscenza, una consapevolezza. L’ho trovato utile perché mi ha cambiato molto la percezione e la necessità rispetto al lavoro precedentemente fatto come musicista. A Bologna il 3° anno mi sono reso conto che era giusto che mi riposassi, mentre gli anni precedenti l’avevo vissuta come una pratica di attenzione e di azione continua. Il pubblico vive liberamente l’arco di tempo. A volte resta per sempre, a volte se ne vanno, a volte tornano, a volte forse immaginano quello che sta accadendo.
AT: A me la cosa che piace ed incuriosisce di questo lavoro è questa strana contraddizione che racchiude. Dal tempo stirato e allungato di alcuni riti e momenti di collettività – clubbing incluso – a una lettura temporale neoliberista, come espresso anche da Jonathan Crary nel concetto di 24/7.
C: La percezione del tempo è spesso elastica. Quest’anno ne abbiamo avuto svariate prove con esplosioni di noia incredibile per tanti e disperati tentativi di riempire il tempo con qualche nuova attività. Eppure è passato un anno, un anno intero, che può sembrare brevissimo o lunghissimo. Cercando di sviscerare l’idea della contraddizione tra la spontaneità di un’azione naturale e la condizione in parte artefatta di una performance, certo, voler seguire un’attività per 24 ore è chiaramente una forzatura. Devi pretendere di averne la libertà per farlo. Torno sul concetto della “normalità”: di cosa vuoi che sia fatta la tua vita? Vuoi suono e movimento? Vuoi il tempo? Senza giudizi o paragoni. Senza sminuire il fatto che sia un momento speciale, voglio credere che ci siano tanti momenti speciali nell’arco di una nostra vita. A me smuove la consapevolezza che ognuno si crea una realtà, come un rito, o un momento da dedicare a noi.
AT: A proposito di questo, mi viene in mente il romanzo A Tale for the Time Being che ho letto recentemente. Una delle due protagoniste, Naoko un’adolescente millennial, cerca di raccontare la storia della sua bisnonna monaca buddhista ed ex attivista anarco-femminista in Giappone che conta 104 anni di vita. Stupita dalla sua lentezza a fare tutto, Naoko la descrive come l’unica persona che capisce il tempo, e sta molto attenta quando lo usa: “She says that she does everything really really slowly in order to spread time out so that she will have more of it and live longer and then she laughs and you know she is telling you a joke”. Musica per un giorno mi da una sensazione simile. Che questa “normalità” che io forse chiamerei “quotidianità” crea dentro di se’ delle micro-temporalità.
RM: Io sto un po’ cercando questo rallentamento e credo che il pianeta ne abbia tanto bisogno. Quello che sta accadendo ora è veramente speciale; siamo tutti invitati a rimanere in silenzio insieme, un’occasione straordinaria, ovviamente senza sminuire tutto quello che comporta. Dopo aver passato un periodo completamente diverso a livello temporale e che ci sta ribaltando in modi veramente sconosciuti, mi trovo a pensare che il tempo ora abbia una qualità nuova, come se non si fosse mai vista, nel bene o nel male. Da un altro lato, è anche una questione di abitudini, tanta gente è iper-occupata. Sono curiosa di questo 5° anno dopo questo periodo trascorso. Come se in tutto questo io sentissi che ci voglia molto silenzio per ascoltare qualcosa di molto sottile e preciso. Musica per un giorno ti invita a uscire da queste abitudini, perciò mi piace giocare con la parola “normalità” per quanto riguarda le tempistiche di quest’azione. È un invito ad andare a cercare cosa c’è: svegliarsi da quest’ipnosi e addormentarsi consapevolmente.
AT: La prima volta nel 2016 immagino che non sapevate bene cosa aspettarvi in quelle 24 ore. Attualmente, e dopo quattro incontri performativi, che livello di anticipazione trovate nel lavoro, considerando le vostre esperienze e il vostro livello di coscienza accumulato sul lavoro? Secondo voi verrà a evidenziarsi un po’ questa sensazione nei prossimi 19 anni?
C: Molto potrebbe aver a che fare con la noia. Cambiando gli spazi, si riformulano tanti dettagli e informazioni nuove. Anche per quanto riguarda il suono: alcuni elementi riesco ad usarli meno o di più perchè semplicemente andando avanti si trasforma il mio rapporto con l’armonia o con il gusto musicale. C’è tanta improvvisazione. Ci sono dei momenti in cui questo “puzzle sonoro” che ho tra le mani scappa o si dimena. Uso le 24 cassette originali ma anche molte registrazioni più recenti e che continuo a sviluppare. Mi viene più semplice pensarli come pattern dove le sonorità si ripetono, si evolvono, degradano, si sovrappongono. Stessa cosa per il libretto che stampiamo per ogni appuntamento: sopra i contenuti precedenti si aggiungono testi e note raccolti anche casualmente durante l’anno. Per ora conosciamo il progetto ma ogni volta riesce ad essere diverso, cresce ed evolve.
RM: Sicuramente c’è una continuazione, c’è un passato, un vissuto che lascia delle tracce in un modo specifico, come dicevo prima con il sonno che arriva sempre nello stesso momento. C’è una qualità anche in un momento di difficoltà: come se ogni anno all’11a ora arrivasse una crisi e io mi chiedo “cosa sto facendo? perchè?”. Poi una volta scavalcato quel momento si raggiunge un nuovo stato, forse di trans o leggerezza. D’altra parte faccio spesso anche dei pensieri banali. Invece per quanto riguarda l’anticipazione: cerco di “entrare” in questa situazione senza pensarci troppo, lasciando succedere qualunque cosa. Meno mi preparo, più lascio aperte queste possibilità, e maggiori sono le chance che accada qualcosa di “autentico”.
AT: Però in effetti è un esercizio. Cercando di mettermi nei vostri panni mi viene in mente che la prima volta in cui fai un’azione del genere, ti lanci in un territorio sconosciuto con un’apertura diversa. La seconda volta hai un ricordo, una memoria corporea, un pattern sonoro, una sequenza. C’è un’anticipazione che non può essere eliminata del tutto perché i collegamenti sono inevitabili. Secondo me questo processo è interessante.
C: In questo caso l’arco di tempo è ampio. Tutti viviamo queste 24 ore quotidianamente ma è come se non potessimo sempre rendercene conto. Questo non è uno spettacolo e non ha una linearità strutturata in maniera rigida; è più un sistema, un attraversare, una volontà. Voglio essere fiscale con l’inizio e la fine. A prescindere da come procede, è importante che queste 24 ore abbiano a che fare con delle regole meccaniche. Mi ricordo quella volta a Roma, mancavano solo 40 minuti alla fine e io pensavo – è fatta, è finita. E invece quel tempo non finiva più e io soffrivo come una farfalla.
RM: Una salvezza importante è stare nel presente perché se cerchiamo di anticipare è finita. È una sorta di meditazione, di attenzione nell’evitare le dipendenze delle proiezioni nel futuro o attaccarsi al ricordo che non ha più nessuna verità. A me succede da sé, si dimostra che quando rimango nel presente, vedo che non c’è noia. Non sappiamo cosa voglia dire esattamente stare nel presente per la sua inafferrabilità e inevitabilità. In Musica per un giorno questo diventa evidente.
C: Io sto pensando come sarà quando mancheranno 1-2 anni al ciclo di 24 anni. Effettivamente saremo in parte diversi e con più esperienza. Mi piace l’idea che questo progetto affronti quasi 1/4 della nostra vita.
E’ una bella vita.