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eve — MASSIMO, Milano | Intervista a Paolo Bufalini e Paolo Gabriotti

Intervista di Tommaso Pagani — Il 3 dicembre ha inaugurato “eve” presso MASSIMO, in via degli Scipioni 7 a Milano, la mostra personale di Paolo Bufalini, a cura di Paolo Gabriotti, visitabile fino al 22 dicembre. L’esposizione restituisce un immaginario...

Installation view. Photo by Nicolò Panzeri

Intervista di Tommaso Pagani —

Il 3 dicembre ha inaugurato “eve” presso MASSIMO, in via degli Scipioni 7 a Milano, la mostra personale di Paolo Bufalini, a cura di Paolo Gabriotti, visitabile fino al 22 dicembre. L’esposizione restituisce un immaginario straniante in cui elementi eterogenei, che attingono alle sfere dell’onirico, del profetico e del quotidiano, coesistono, dando luogo a un ambiente dalla temporalità indefinita.

Attraverso lo sconvolgimento e la manipolazione della percezione sensoriale, l’intera mostra appare come un invito a riflettere sulle rielaborazioni della mente umana che oscillano tra solennità e cinismo, veglia e sogno, natura e artificio. Come è strutturata la mostra?

Paolo Bufalini: La mostra è pensata come un tutto organico, le due sculture esposte sono nate man mano che si precisava l’assetto generale. Ho tentato di delimitare uno spazio altro che le accogliesse, avvolgente e straniante al tempo stesso. Da subito sono stato attratto dall’idea di questa luce che emerge dal seminterrato, introducendo a un sottosuolo sia figurato che letterale. I due interventi ambientali – la luce arancione e la carta tritata che ricopre il pavimento – hanno la funzione, oltre che di strutturare l’immagine, di rendere la percezione del tutto più intensa a livello fisico, e di coinvolgere più sensi. Nel mio lavoro, quando possibile, cerco sempre di articolare una scansione precisa della visione, di dare luogo a delle piccole epifanie. Il lavoro dei comodini, ad esempio, è pensato per rivelarsi solo all’ultimo momento, il contenuto – i due teschi avvolti dalle stringhe di carta – diventa visibile solo all’ultimo istante, dandosi come immagine finale e inaspettata. Quest’atto di affacciarsi per guardare fa parte, in questa mostra, di una serie di comportamenti indotti, penso ad esempio al modo in cui i cumuli di carta condizionano i movimenti dello spettatore. Anche nel caso della sfera è richiesto un certo approccio, direi quasi circospetto, dal momento che il suo equilibrio sulla sella sembra precario. 

Paolo Gabriotti: Forse l’elemento in un certo senso generativo è stato la luce, Paolo ha iniziato a lavorare quasi subito all’idea di una mostra che si palesasse come un miraggio, un’immagine che ti si para davanti, dunque esteriore, ma che risuona allo stesso tempo come un qualcosa di interiore, che ti fa dubitare, situata al confine tra attuale e virtuale. Questa ricerca di un’esistenza sospesa caratterizza forse in senso più ampio il suo approccio all’immagine, valendo anche per le singole installazioni.

Paolo Bufalini, senza titolo. Photo by Nicolò Panzeri

Paolo Bufalini: Inizialmente ho pensato a eve come vigilia, come un modo per esplicitare il senso di imminenza che desideravo permeasse la mostra. Eve, del resto, è anche Eva in inglese.  Quest’associazione imprevista si è rivelata feconda, forse essenziale per sottolineare una compenetrazione di tempi diversi, di inizi e fini intrecciati. Mi piace pensare a questo sguardo originario che si posa su un mondo già pieno di detriti, di segni del tempo, rimanendo comunque nuovo, nascente. Questo, forse, completa la risposta precedente, in particolare rispetto all’oscillazione tra solennità e cinismo.

Paolo Gabriotti: Rivelerei che il titolo è arrivato abbastanza tardi nella produzione della mostra, e dopo una certa reticenza (non è un caso che molti lavori di Paolo siano Untitled). Cosa comprensibile ma non prevista, lo si è trovato anche grazie alla collaborazione grafica di Marco Casella, che conoscendo molto bene Paolo è riuscito a intercettare frequenze inaspettate, lavorando su immagini stock e partecipando a far emergere il titolo. La palindromia del nome poi ci sembrava rimarcasse perfettamente la centralità che il motivo temporale assume nella mostra, ci sono piaciute subito queste fluttuazioni di senso con ciò che ci proponevamo di attuare a livello espositivo.

Nella tua visione, elaborata a partire dal vissuto e dal dato reale, che ruolo assumono il sogno, il fantastico e la suggestione letteraria?

Paolo Bufalini: Per me è importante mantenere il lavoro a un livello pre-razionale, facendomi guidare più da un’intuizione visiva che da un’intenzione discorsiva. Cerco di rintracciare le mie stesse influenze a lavoro ultimato. Nel caso di questa mostra, oltre a elementi ricorrenti ormai da anni nel mio lavoro – il teschio, la sfera di cristallo – direi che un elemento interpretativo decisivo può essere individuato nell’evocazione della figura del cavallo. I riferimenti mitologici, iconologici e letterari possono essere veramente sterminati. Pensando a come rispondere, mi è tornato in mente il sogno di Raskol’nikov in Delitto e Castigo di Dostoevskij, uno di quei casi in cui un sogno – probabilmente inventato – si fa presagio – il famoso episodio del cavallo di Nietzsche è pressoché identico, così come il caso clinico raccontato da Freud, anche questo successivo, del piccolo Hans. In inglese questo legame tra la figura del cavallo e la dimensione onirica è ancora più esplicito: la parola nightmare, incubo, lo include letteralmente, poiché mare significa appunto giumenta.Le oscillazioni sono molteplici, e in qualche modo associabili alla logica del sogno: temporalità diverse collidono, si fondono, immagini, parole, suoni, stati d’animo e ricordi si condensano. 

Paolo Bufalini, senza titolo, dettaglio. Photo by Nicolò Panzeri

Se la grandiosità dell’essenziale si manifesta dove una singolarità esaurisce la complessità, ecco come le uniche due opere presenti in mostra riescano a sintetizzare in modo esaustivo un pensiero critico molto più ampio, che invita a una riflessione sulla cultura occidentale fondata sulla determinazione certa di senso e significato. Come, e attraverso quale processo, avete concepito e scelto i lavori esposti?

Paolo Bufalini: Le opere esposte sono state concepite contestualmente alla mostra, pur essendo potenzialmente autonome. Il punto, per me, è sempre costruire un’immagine chiara e eloquente, pur mantenendola aperta a livello interpretativo. Per quanto riguarda la parte centrale della tua domanda, direi che in questa mostra i due lavori presenti rimarcano molto la centralità dello sguardo – la sfera che richiede di essere scrutata, i comodini che impongono una visione ravvicinata – a scapito della parola – mi riferisco alla miriade di parole e testi tritati, resi illeggibili. Sono un pagliaio fatto di parole e discorsi scaduti, che hanno perso la loro funzione, sono in qualche modo delle macerie, anche se leggere e volatili, per certi aspetti romantiche (penso anche alle rovine nel Romanticismo, oltre al senso più generico del termine). Ciò che mi attrae del visivo, in generale, è la possibilità di instaurare un dialogo muto con le cose, di aprire una prospettiva di senso che non possa essere esaurita a livello verbale, anche quando è impregnata di riferimenti culturali.

Paolo Gabriotti: La mostra è nata in modo graduale e da un processo abbastanza lungo, abbiamo iniziato a confrontarci con MASSIMO quasi sei mesi prima dell’opening e da lì si è generata una dimensione continuativa di proposta e scambio. Collegandomi a ciò che dice Paolo, credo che nel suo lavoro la dimensione analitica si generi sempre a partire da un’atmosfera mentale e dai continui scarti di senso che producono le sue immagini. Viviamo in un tempo segnato dalla consapevolezza che dei cambiamenti drastici sono incombenti, in particolare ambientali e tecnologici. Anche se non ci appaiono chiaramente, risultano essere ormai irreversibili, come se appartenessero a un futuro che abita già il presente. Un presagio. In modo simile, il lavoro di Paolo mi sembra capace di evocare certi nodi critici, anche se mai in modo diretto o didascalico. Dalla sfera di cristallo del mondo fantasy-medievale, che chiama in causa pratiche di divinazione ma che ricorda anche uno schermo digitale. Alla coltre di pagine tritate, una marea di dati e informazioni che se da un lato fa pensare a uno scenario apocalittico – le macerie dei nostri discorsi – personalmente mi ricorda anche come si parli molto del rischio di ritrovarsi intrappolati in un mondo di informazioni ridondanti e sterili. Siamo spinti sempre più a esprimerci, ma al fine di essere profilati attraverso l’analisi statistica e la predizione algoritmica. Sono suggestioni ovviamente, poi vedi che l’NSA chiama uno dei suoi più potenti programmi di raccolta dati “Prism” e tutto sembra richiamarsi.

Paolo Bufalini, senza titolo. Photo by Nicolò Panzeri

L’interdisciplinarietà della mostra, e delle sue possibili letture, intercetta la fisica, la filosofia e la psicanalisi e questo è evidente anche nel testo critico, dove vengono citati Mircea Cărtărescu, Tim Ingold, Thomas Ligotti e Gaston Bachelard. Quali sono i riferimenti teorici che sorreggono l’impostazione della mostra?

Paolo Bufalini: I riferimenti di Paolo sono spesso diversi dai miei. Questa differenza mi porta, ogni volta, a sorprendermi delle suggestioni che individua, e costituisce quindi un arricchimento reale della mia pratica. Personalmente, guardo più alla letteratura, all’arte e al cinema, che alla teoria o alla saggistica, ma alla base di un’opera o di una mostra non c’è mai un riferimento preciso, almeno in partenza. Nella fase finale della realizzazione di questa mostra, mi sono ritrovato spesso a pensare ad Underworld di Don DeLillo. Nel romanzo, questo mondo di sotto ha varie forme, e trova spesso un correlativo-oggettivo nelle scorie, siano esse nucleari, o più semplicemente spazzatura e rifiuti organici. Cose che si tenta in tutti i modi di nascondere, di seppellire, e che a un certo punto non si riesce più a occultare. Imponendosi di nuovo alla vista, direi che queste scorie – in senso lato – diventano in qualche modo uno specchio, parlano di ciò che siamo. Non è tanto – o non soltanto – una critica al capitalismo o al modo in cui viviamo, quanto il pensiero, per certi versi molto triste, che nulla può essere realmente cancellato. Tutto ciò che abbiamo vissuto non è altro che una zavorra che ci ancora al passato, e in questo modo determina il futuro.

Paolo Gabriotti: Anche se ovviamente appartengono a una prospettiva in un certo senso di contatto, i testi che evoco nel mio scritto sono arrivati a posteriori rispetto al processo di produzione della mostra. Più che a un’impostazione teorica, mirano a delineare alcuni orizzonti di senso, delle corrispondenze, anche vaghe, con la mostra e le opere. Con Paolo certo ci conosciamo da diversi anni, quindi qualsiasi punto di vista io assuma è inevitabilmente legato anche a un terreno comune di discorso, ma rimane per me una prospettiva personale, uno di chissà quanti altri possibili percorsi di senso rintracciabili. Il lavoro di Paolo è distante da prospettive propriamente concettuali, il suo è un pensiero per immagini; quindi, anche la scrittura doveva tendere più alla suggestione atmosferica che a voler essere esplicativa. Ho scelto poi passaggi molto brevi anche perché le citazioni a volte sembrano assomigliare alle immagini, appaiono allo stesso tempo dotate di autonomia eppure inscindibili dagli accostamenti a cui vengono sottoposte.

Paolo Bufalini, senza titolo. Photo by Nicolò Panzeri