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English interview below
Lo spazio Yellow di Varese ospita, fino al 29 gennaio la mostra personale di Lucia Veronesi, “In Piena Presenza”. L’artista per l’occasione si confronta con lo spazio varesino, realizzando una video-installazione site-specific, sintesi in grande del suo processo creativo. Le Cose Entrano in Scena Sempre al Momento Giusto, titolo dell’opera, propone una versione extra-large, a misura d’uomo, di una delle sue scatole. La grande scatola è volutamente costruita con cartone riciclato e materiale povero, come quello usato dall’artista per le sue piccole scatole, con la stessa carta adesiva “finto legno” e la vecchia carta da parati che diventa schermo di proiezione.
Segue una conversazione tra Vera Portatadino e Lucia Veronesi.
Vera Portatadino: Ci siamo incontrate per la prima volta a Venezia, nel tuo studio. Sono rimasta affascinata dalla quantità di collages che hai tirato fuori da alcune cartelle: uno sopra l’altro, un accumulo di segni, colore, forme, tecniche, carta, processi…
Lucia Veronesi: Sì, ricordo bene. L’accumulo per me non è solo un tema, è diventato un modo di operare: accumulo immagini, ritagli, materiali diversi, lavoro contemporaneamente a più cose e con media diversi. È una sovrapposizione continua di visioni, che dalla pittura passano al collage, dal collage al video, dal video al disegno e all’installazione: pratiche diverse che si sostengono a vicenda e che traggono ispirazione l’una dall’altra. Per me è necessario, prima di intraprendere un nuovo lavoro, circondarmi concretamente di appunti visivi, di libri, di riviste: tappezzo le pareti del mio studio di immagini e stimoli. Sono una sicurezza, un punto certo, e in questo assomigliano a quello che gli oggetti rappresentano per gli accumulatori seriali. Il gesto dell’accumulare porta in sé una grande libertà: non si tratta di una collezione, non c’è un criterio selettivo rigido; si mettono insieme cose in un modo più o meno caotico, senza un percorso strutturale o palesemente logico.
VP: Quindi accumulare per te è una necessità?
LV: Per me l’accumulo è stato prima di tutto una fascinazione. Circa cinque anni fa mi sono resa conto che mi attraeva moltissimo l’ossessione che certe persone hanno per gli oggetti, per le cose di cui non riescono a disfarsi. Il loro è un accumulo compulsivo e senza controllo, che trasforma case e ambienti: e a me interessavano gli effetti che provoca, soprattutto gli effetti formali. Da parte mia non sono un’accumulatrice, ma mi affascinano le masse informi che occupano metri quadri di stanze, dove l’oggetto in sé non ha più alcuna importanza, se non quella di continuare ad essere presente, di venire trattenuto nella vita di chi l’ha usato; il fatto che non può essere buttato via rappresenta il suo valore. Questo è stato il centro della mia ricerca negli ultimi anni: l’invivibilità dello spazio e la sua disfunzionalità causata dall’ingombro di ciò che è stato usato e vissuto. Così lo spazio domestico, da abitabile diventa una specie di paesaggio semiselvaggio, e infatti interagisce con il paesaggio naturale esterno che lo invade e lo fagocita. Non è una interazione pacifica: spesso provoca una catastrofe, che però io vedo anche come culmine di un cambiamento, inquietante ma forse liberatorio, e possibilità di una trasformazione. Il risultato è una visione del mondo in bilico tra ciò che è reale e ciò che sta in una dimensione sospesa, astratta: se pensi alle foto della serie In piena presenza vedi che il riferimento al reale è rappresentato dalle piccole stanze di cartone con la carta da parati e il pavimento di finto legno. Siamo in una casa, in una stanza, seppure posticcia. Ma lo spazio è invaso e contaminato da forme e masse più astratte che lo trasformano e spostano la visione in un altro posto, che non è né casa né grotta, né civiltà né natura.
VP: La tua opera sconfina dalla pittura su tela al collage, fino a diventare tridimensionale nelle scatole, che sono oggetto e scenografia allo stesso tempo. Ritorni poi al bidimensionale mediato dal video e dalla fotografie. Si può sempre parlare di pittura?
LV: Il punto di partenza è sempre la pittura. La considero un modo di affrontare il mondo. Dipingo anche quando faccio video, quando lavoro alle piccole scatole di cartone che uso sia come set per i video, sia come soggetti per fotografie che come oggetti da mostrare direttamente, così come sono. È capitato che qualcuno, guardando le mie fotografie, mi abbia chiesto se le immagini sono elaborazioni digitali. In realtà sono fotografie di scatole di cartone, quindi di oggetti tridimensionali: hanno un alto e un basso, un pavimento, un soffitto e della carta da parati. All’interno di queste stanze di cartone inserisco ritagli e sagome di carta, che a loro volta ho dipinto. Queste sagome creano delle ombre, dei volumi, degli spazi, una profondità: tutte cose che vengono evidenziate con lo studio delle luci mentre scatto le fotografie. Se si osservano bene le immagini, si notano questi dettagli, si vedono le ombre, e si capisce che si tratta di un lavoro ottenuto senza alcuna elaborazione digitale. Ma rimane comunque un’incertezza ambigua, polivalente: all’apparenza possono sembrare sia collage che dipinti, sia volumi prospettici che superfici bidimensionali, sia assemblaggi manuali che elaborazioni digitali… Aggiungi il fatto che stampo queste immagini su carta cotone, un materiale che esalta gli sfumati, la profondità e la sgranatura del colore. E quindi, sì, si può parlare di pittura.
Lo stesso succede nei video, dove la tecnica dello stop motion unita a quella del collage esalta l’idea di manualità e di gesto pittorico senza l’ausilio di altri programmi al di fuori di quello usato per il montaggio.
VP: Quando mi hai parlato del progetto per Yellow mi è venuto in mente La Caverna dell’Antimateria di Pinot Gallizio sebbene con le dovute differenze…
LV: Il riferimento a Pinot Gallizio mi piace molto, il concetto di caverna intesa come rifugio umano ma anche come mondo parallelo, magico, con le sue regole e le sue condizioni, non è poi così lontano dal mio lavoro e da quello che propongo nel tuo spazio. Il progetto iniziale nel corso di questi mesi ha cambiato forma, si è ripulito e si è scrollato di dosso suppellettili inutili e pesanti. È stato un bel percorso, possibile anche grazie a un prezioso confronto con alcuni amici artisti, che non solo mi hanno ascoltato ma mi hanno instillato dubbi e mi hanno fatto riflettere.
VP: Il tuo interesse per la pittura non é nella sintesi costruita nell’immagine, quanto piuttosto come accadimento sfaccettato attorno al corpo, alla mente, ai sensi. Quasi come fosse un susseguirsi – se vuoi un’accumulazione – di input percettivi, emotivi, sensoriali. Mi sbaglio?
LV: Credo che tu abbia centrato il punto. Per Yellow presento un progetto che non mostra la pittura ma ne parla attraverso i media del video, dell’installazione e della fotografia. Ho avuto bisogno di allontanarmi dalla pittura per riuscire a ristabilire un equilibrio e una serenità che prima non avevo: insistevo su certi temi che non mi appartenevano, e questo mi impediva di vedere le cose in maniera più libera. Tra me e la pittura c’è sempre stato molto conflitto, è stato ed è un rapporto molto complesso e sofferto. Ora credo di essere consapevole dei miei limiti, e mi è più chiaro come la pittura entra nel mio lavoro, e come il mio lavoro sia dentro la pittura.
Ho dovuto allontanarmi da un certo tipo di approccio alla pratica pittorica, ho preso le distanze dall’ossessione del soggetto, del cosa dipingere, per focalizzarmi sul processo e affrontare tutto in una maniera più libera e leggera. Ho visto le cose in maniera più chiara. Se vuoi ho anche intrapreso un percorso più difficile, meno immediato ma sicuramente pieno di mille sfaccettature ancora da esplorare.
Interview with Lucia Veronesi —
Vera Portatadino: We met for the first time in Venice, in your studio. I was fascinated by the number of collages you took out from a few folders: one by one, an accumulation of marks, colours, shapes, techniques, paper, processes…
Lucia Veronesi: Yes, I remember very well. Accumulation is not only a theme for me, it has gradually become a way of doing: accumulation of images, cuttings, varied materials. I usually work on many things with different media at the same time. Visions are continuously overlapping, from painting to collage, from collage to video, from video to drawing and installation: different practices that support one another in mutual inspiration. Before starting to work on something new, I need to literally surround myself with visual notes, books, magazines. I cover the walls of my studio with images and incentives. To me they are a certainty, a standstill, and in a way they are like objects to a compulsive hoarder. The hoarder’s gesture is an action of great freedom: it is not a collection, there is not a strict selective principle as things are put together in a more or less chaotic way, without a structural or a clearly logical path.
VP: So, is accumulation a need for you?
LV: For me, accumulation has been first of all a fascination. About five years ago I realised I was enchanted by some people’s obsession towards objects, towards things they cannot get rid of. This kind of accumulation is compulsive and out of control, it changes houses and environments. I was interested in its consequences, especially as far as its formal effects are concerned. I am not a hoarder myself, but I am fascinated by shapeless masses that take up a lot of space, any time the object per se loses all its relevance, except for the idea of being present, of remaining in the life of its own user; the impossibility of throwing it away is a value in itself. This has been the core of my research in the last few years: uninhabitable spaces and the disfunctionality caused by the volume of whatever was used and experienced. Hence, the inhabitable domestic space turns into a sort of wild landscape and in fact, by interacting with the natural external landscape, it is invaded and absorbed. This is not a pacific interaction: often it leads to a catastrophe, the climax of a disturbing but liberating change and the opportunity for transformation.
The result is a vision of the world that is hovering between what is real and what stands in a suspended, abstracted dimension. If you take into consideration the pictures of the series Full presence you will realise that the reference to reality is represented by small rooms made of cardboard with wallpaper and fake wooden floor. We are in a house, in a room, although they are all artificial. Nonetheless the space is invaded and contaminated by more abstract shapes and masses that change it and take the vision to another place, which is not a house nor a cave, not civilisation nor nature.
VP: Your work crosses the border of painting on canvas to collage, up to the three-dimensional boxes, which are objects and scenery at the same time. Then you go back to two-dimensional mediated by video and pictures. Can we still refer to it as painting?
LV: The starting point is always painting. For me, it is a way to face the world. I paint while making a video and also while working on the small cardboard box I use as set, as subject for the pictures, or else as an object to be shown simply as it is. Somebody asked me if the pictures are digitally processed. In fact, they are pictures of cardboard boxes, that is to say three-dimensional objects. They have a top and a bottom, a floor, a roof and some wallpaper.
Inside these cardboard rooms I put paper cuttings and silhouettes that I have previously painted. These silhouettes make shadows, volumes, spaces, depth: all things highlighted by the study on light that is necessary for the pictures. If you closely observe the pictures, you cannot miss all these details, and the shadows are there as well, it is a work made with no digital interference. Nonetheless there is an ambiguous, broad, uncertainty: at first sight, they look like either collages or paintings, either perspective volumes or two-dimensional surfaces, either handmade assemblies or digital elaborations…plus I print these images on cotton paper, which is a material that highlights shades, depth and grainy colours. At the end of the day, yes, we can certainly still talk about painting. The same happens with the videos, the stop motion technique combined with collage underlines the idea of manual skills and of pictorial gesture without adding any different software to the one I normally use for editing.
VP: When you first mentioned the idea you had for Yellow, La Caverna dell’Antimateria by Pinot Gallizio came to my mind, with all related differences.
LV: I love the reference to Pinot Gallizio, the idea of a cave as human shelter and parallel universe at the same time, a magical place with its own rules and conditions: it is not that far from the leitmotif of my work and what I have proposed for your space. The initial project has gradually changed in these months, it got clearer and cast off useless and heavy parafernalia. It has been a gorgeous evolution, with the collaboration of some other artists and friends, who did not only listen to me but could also cast doubts and push my reflection further.
VP: Your interest in painting is not exactly in the synthesis built on the image, but rather in the multifaceted happening in the field of body, mind and senses. As if it were a sequence – an accumulation in a way – of perceptive, emotional, sensorial inputs. Am I right?
LV: Well, you have got it absolutely right! For your space I am presenting a project that doesn’t show the painting but talks about it through video, installation and photography. Per Yellow presento un progetto che non mostra la pittura ma ne parla attraverso i media del video, dell’installazione e della fotografia I had to move away from painting to re-establish a balanced and quiet dimension I did not know before. I used to insist on topics that did not really belong to me and this halted a more open perspective on things. I have always been in conflict with painting, it has been a complex and suffered relationship. Now I think I am aware of my limits, and I have clear in mind how painting is to be part of my work and how my work can be part of the realm of painting. I had to move away from a certain kind of approach to painting, I distanced myself from the obsession towards the object, the thing to be painted, and I started to focus more on the process while approaching everything in a freer and lighter way. I have seen things getting clearer. In a way, I have certainly embarked on a harder journey, less immmediate but certainly full of a number of aspects that are worth exploring.
Vera Portatadino and Lucia Veronesi, November 2015