ATP DIARY

L’organismo ripiegato su se stesso di Gabriele Garavaglia

Curiosa introduzione quella scritta da Milovan Farronato, per la mostra  W 3 L ? di  Gabriele Garavaglia. Da subito si intuisce che il curatore, per interpretare gli interventi dell’artista nello spazio di viafarini DOCVA,  ha visualizzato un corpo organico lacerato, ferito, incidentato. O forse malato o in preda ad una fulminante infezione. Si descrivono così tessuti strappati, […]

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Curiosa introduzione quella scritta da Milovan Farronato, per la mostra  W 3 L ? di  Gabriele Garavaglia.

Da subito si intuisce che il curatore, per interpretare gli interventi dell’artista nello spazio di viafarini DOCVA,  ha visualizzato un corpo organico lacerato, ferito, incidentato. O forse malato o in preda ad una fulminante infezione. Si descrivono così tessuti strappati, fratture multiple e arti spezzati. Il linguaggio che il curatore utilizza è quello arido-pseudoscientifico di un medico che constata la gravità del paziente.

L’ ‘atmosfera’ che questo crea, dunque, è quella di un corpo-spazio aggredito da un intervento, traumatizzato da gesti violenti. Quelli di Gabriele Garavaglia, in realtà, più che essere così distruttivi, sono in realtà dei modificatori di percezioni.

La sala dello spazio espositivo che tanto conosciamo (quante mostre avrò visto lì dentro?), è stata modificata da Gabriele per ripulirla o rifarle i ‘connotati’ e mostrarcela sotto una nuova veste. Ecco allora il senso del grande segno nero gocciolante. Due grandi ‘MENO’ che sottraggono ‘un bel niente’. Un primo segno e rimasto intonso nel muto, mentre l’altro, tracciato sulla parete mobile in cartongesso, è stato capovolto assieme alla parete che lo accoglie. Sul soffitto una personalissima costellazione di segni dorati, che altro non sono che una sorta di ‘unisci i punti’. I punti sarebbero tutte le tracce lasciate sul soffitto dalle precedenti mostre.

Steso sul pavimento un’opera già mostrata dall’artista nello stesso spazio in una precedente collettiva. Ora come allora, altro non è che una colonna inutile di cartongesso. Se allora era stata innalzata per non sostenere alcunché, ora è presentata deposta (ammalata o depressa vista la sua inutilità), e un po’ rovinata.  Ultima, una piccola scultura che rappresenta in scala ridotta una trave dello spazio. (Quest’opera non ce l’ho molto a fuoco).

Nelle pupille è ancora impressa un’ultima immagine sconnessa la cui decriptazione può rivelare le motivazioni dell’exitus. Un'”?” determinata per il segmento più lungo dal profilo di una colonna portante e per quello più breve dalla traccia in spessore di muro della silhouette dell’organismo ora ridotto a perimetro di una stanza rettangolare: colore genericamente bianco, 200 mq circa , 15 x 13 x 5 m, inserti in mattone vivo, interstizi in metallo grigio cemento, due colonne portanti, una sola trave centrare, finestre sbarrate, un solo ingresso, una sola via d’uscita alternativa. Non può che essere un’evidente allucinazione che riduce il corpo a uno spazio. Lo sconcerto determinato dalla paura di essere abitato e non più di abitare— un problema forse di personalità in discussione — ha condotto l’organismo a ripiegare su se stesso. Non è morto in vero, ha solo riposato ed ora appare pronto per una nuova rianimazione.

Ultimo referto redatto da Milovan Farronato in collaborazione con la neurologa Francesca Del Sorbo. Milano, 11 settembre, 2011

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