
Fino all’8 novembre 2018 Clima a Milano ospita la sinergia tra i tre artisti – diversi ma complementari, affini ma lontanissimi – Andrea Kvas, Jonatah Manno e Isao M’onma. A intrecciare la loro sorte è l’artista Kvas – in questa occasione cura la mostra e, al tempo, espone una selezione di opere – che, nell’intervista che segue, ci racconta di passione, istinto e rivelazioni. Il titolo della mostra è mutuato da una frase del Re Lear di William Shakespeare nella traduzione del 1843 di Giulio Carcano: “farò cose, non so ancora quali, ma saranno lo spavento della terra”.
“Continua ad essere fondamentale la questione del movimento, della creazione di oggetti che forzano il dinamismo della percezione, scardinando la contemplazione passiva. Tutto nasce da un desiderio di esplorazione, di tuffarsi nell’ignoto: il desiderio di spaventarsi.” Spiega Kvas. “Le opere in mostra sono accomunate dalle molteplici possibilità di inoltrarsi in dimensioni profonde, in cui i contorni netti delle immagini lasciano spazio a zone ‘grigie’, di dubbio, di introspezione e di viaggi solitari. Dallo spavento emergono dei gesti che nella loro reiterazione generano, come fossero dei mantra, infinite strade da seguire.”
Elena Bordignon: Le motivazioni del titolo “Lo spavento della terra”. Citi “Re Lear” di William Shakespeare. In particolare una frase che rovista nelle emozioni umane quando siamo in pericolo, sotto scacco. Mi spieghi a cosa ti riferisci in particolare? Quali paure o spaventi?
Andrea Kvas: Considero il titolo della mostra come un lavoro a se stante che si affianca e dialoga con i lavori esposti e lo spazio. Recentemente, quando ho riletto quel passo in un libro di Michaux, ho subito pensato che poteva essere il giusto catalizzatore per la mostra. Ma come tutti gli esperimenti, non ero certo della sua effettiva efficacia fino all’apertura al pubblico. Non credo ci sia nulla di davvero spaventoso nei lavori presentati, penso però che “Lo spavento della terra” abbia fatto si che il pubblico si approcciasse alle opere con una sorta di sospetto, quindi con un’attitudine più vigile ed attenta.
EB: E’ come se ponessi l’accento sulle emozioni che si provano in certi momenti, emozioni che fanno scaturire reazioni da poter utilizzare per l’atto artistico. Succede anche nella tua prassi lavorativa? Sfrutti l’aspetto emozionale delle tue esperienze?
AK: Certamente, la mia attitudine al lavoro è profondamente viscerale. Non saprei quantificare per esempio quanti dei miei lavori siano emersi da violenti scatti d’ira. Uno di questi è presente in mostra e credo sia abbastanza evidente quale sia.
Non sono mai riuscito ad avere un approccio progettuale, a premeditare un lavoro a tavolino, l’emozione di cui mi nutro con voracità è quella che provo quando agisco liberamente, imprevedibile a me stesso, sull’orlo instabile dell’attesa del nuovo che scoprirò una volta asciugata la pittura.

EB: Torniamo alla mostra da Clima. Metti a confronto il tuo lavoro con altri due artisti: Jonatah Manno e M’onma. Come e per quali ragioni li hai scelti?
AK: Li ho scelti con la stessa visceralità con la quale affronto il mio lavoro. Sono un grandissimo ammiratore di tutti e due e non vedevo l’ora di confrontarmi con loro. Non ho selezionato i lavori per affinità ma piuttosto per la qualità dei singoli, il mio ruolo è stato poi quello di farli dialogare. Il mio esperimento è stato quello di vedere queste relazioni, che fino a poco prima erano solo nel mio pensiero, prendere forma e trovare un senso nuovo. Come accade quando dipingo: è stata ed è sempre una rivelazione scoprire che qualcosa che conoscevo e padroneggiavo molto bene (la conoscenza degli artisti in questo caso o le tecniche e materiali pittorici) potesse ricombinarsi un modo nuovo, inaspettato, ma equilibrato e armonico al tempo stesso.
EB: Come hai scoperto e cosa ti affascina del lavoro dell’artista giapponese M’onma, che produce opere in uno stato di perdita ‘del controllo intellettuale’?
AK: M’onma l’ho scoperto per caso in una delle mie tante ricerche quattro o cinque anni fa. Untitled (2001, inchiostro su carta, 47 x 61 cm) è proprio il primo che ho visto e il mio preferito. Quei disegni così complessi e intricati mi hanno subito rapito, mi sono letteralmente perso nei labirinti che crea sulla carta. Ogni dannata volta che torno anche sullo stesso disegno trovo qualcosa di nuovo, o meglio lo osservo seguendo un percorso diverso. Pur essendo disegni piuttosto piccoli li avverto come mastodontici, pieni zeppi di misteri dei quali non avremo risposte.

EB: In merito ai tuoi lavori in mostra: sembrano sviluppare una nuova ricerca. Ce ne parli?
AK: Non credo di aver fatto nulla di nuovo a dire il vero! Dopo tanti anni di sperimentazioni e ricerche sul mezzo pittorico ho voluto raccogliere quel bagaglio di esperienza e riportarlo ad una dimensione “classica”. L’approccio sperimentale, curioso e imprevedibile c’è sempre, ho prodotto tre lavori apparentemente molto diversi tra loro che però sono accomunati da questo modus operandi.
EB: Per quanto riguarda le opere di Jonatah Manno. Trae ispirazioni da simbolismi tradizionali dell’esoterismo e della teosofia. Cosa ti ha attratto delle sue opere?
AK: Quello che sempre mi ha attratto del lavoro di Manno è che ha sempre molteplici livelli di lettura, dall’Ermetico al profondamente terreno e atavico, I suoi lavori ti attraggono fisicamente per portarti in dimensioni parallele dove vigono regole differenti. Li ho sempre visti come dispositivi, come strumenti, macchine dello spazio-tempo. Le sue opere e quelle di M’onma hanno un potere evocativo straordinario e mettendoli vicini questa energia si è amplificata radicalmente: inoltrarsi nella coltre di demoni per poi imbattersi in “The rocks of the hag” (2018, pastelli su carta, 51 x 68 cm) e scivolare fino ad un’onda immobile è stato per me primo un’esperienza estremamente intensa.





