Una donna china su una cumulo di sabbia. Le immagini sono sgranate, indefinite come l’azione che compie la figura femminile. Lei è l’artista Laura Grisi che nel film The Measuring of Time del 1969, è ripresa mentre compie l’impresa impossibile di contare i granelli di sabbia di una spiaggia. Da questo film è mutuato il titolo della prima ampia retrospettiva museale dedicata all’artista italiana dopo la sua scomparsa avvenuta nel 2017.
A cura di Marco Scotini, a cui abbiamo rivolto alcune domande che seguono, questa importante esposizione, ospitata al Muzeum Susch dal 5 giugno al prossimo dicembre 2021, ricostruisce il percorso professionale e mappa la molteplice e significativa ricerca della Grisi.
Collocata in una posizione isolata e difficilmente inquadrabile in una sola tendenza degli anni Sessanta – Settanta, la Grisi appare oggi come uno dei casi più originali e personali di arte concettuale e di pensiero diagrammatico, in cui la stessa riflessione prende forma sia attraverso icone che attraverso rappresentazioni visive.
In bilico tra la Pop Art italiana, Minimalismo e Arte Concettuale, al sua ricerca ha toccato queste correnti senza esserne succube o compartecipe. Non definibile scultrice, videoartista o pittrice, la Grisi la sempre operato nell’ottica avanguardista di scavare e scovare sempre nuovi modi per raccontare l’inesprimibile, l’incommensurabile.
Influenzata dalle culture extra-occidentale, conosciute grazie a lunghi viaggi in Africa, Sud America e Polinesia, l’artista ha sempre fatto dell’eclettismo un suo punto di forza e una manifestazione di una irrequietezza professionale che le ha permesso di esprimere e raccontare la tensione tra gli opposti, la complementarietà tra gli aspetti contraddittorie del reale: “La tensione tra macro e microscala, tra i dati e il possibile, (la legge e il caso, l’universale e il particolare, il passato e il futuro) è messa in scena ogni volta attraverso una radicale politica dell’attenzione rivolta al minimo, al marginale, al grado zero: quattro ciottoli, il suono delle gocce d’acqua, il colore delle foglie di mango, la direzione del vento, il passaggio percettivo tra le sensazioni, i rumori prodotti dallo spostamento delle formiche sul terreno. Tale attenzione estrema è sempre l’oggetto di un rituale antropologico di cui ci sfuggono le coordinate culturali: contare granelli di sabbia, misurare la forza del vento, distillare percezioni sensoriali, rifotografare fotografie, permutare cose e oggetti, ascoltare l’inudibile.”
Intervista con Marco Scotini —
Elena Bordignon: Laura Grisi è una personalità artistica che per molti anni è rimasta nell’ombra rispetto a molti altri artisti a lei contemporanei. Negli anni ’70 si divideva tra Roma e New York, dove aveva cominciato a lavorare con la galleria Leo Castelli, una collaborazione prestigiosa che andava a sommarsi alla lunga lista di mostre personali e collettive, non ultime le numerose partecipazioni alla Biennale di Venezia. Solo in anni recenti la sua ricerca è stata non solo riscoperta ma anche riconosciuta come decisamente importante. Come motivi i lunghi anni di silenzio attorno alla sua ricerca?
Marco Scotini: Nel 1973 Laura Grisi tiene la sua prima personale alla Leo Castelli Gallery di New York con la fantastica serie Pebbles sulla permutazione spaziale di cinque pietre. Le occasioni espositive nella West Broadway saranno molte ma il grande Castelli non sarà l’unico a inserirla nella propria scuderia. Agli anni ’70 risalgono anche le sue mostre da Saman Gallery di Ida Gianelli, Konrad Fisher e Francoise Lambert. Comunque, già alla fine degli anni ’60, sono ripetute le sue presenze negli USA. Grazie ad Alan Solomon, che aveva curato il fatidico padiglione Pop alla Biennale di Venezia del 1964, Laura prende parte alla mostra Young Italians all’ICA di Boston e al Jewish Museum con Castellani, Pascali, Pistoletto e Kounellis, tra gli altri. Nello stesso anno della sua partecipazione alla Biennale di Venezia – il 1966 – Grisi figura anche nella mostra Italy New Tendencies alla Galeria Bonino di New York. Prende parte a esposizioni seminali come Il Teatro delle Mostre o alla mostra proto-concettuale Plane und Projecte als Kunst alla Kunstalle di Berna. Oppure a quella proto-ecologista di Boston Earth, Air, Fire, Water: Elements of Art. In tutto il decennio dei Settanta credo che Laura Grisi risulti la presenza artistica femminile italiana più nota a livello internazionale. Ecco che quando dobbiamo valutare il silenzio a cui è stata relegata successivamente, emergono due aspetti essenziali. Uno è più personale e relativo al suo posizionamento difficile da inquadrare in una sola tendenza artistica come minimalismo, pop art o arte concettuale. Un carattere questo che il canone storiografico modernista ha sempre ritenuto negativo, bollandolo di eclettismo. L’altro aspetto invece va valutato come una vera e propria discriminazione di genere. Se oggi riscopriamo tante artiste fondamentali che sono state escluse dalla storiografia ufficiale dobbiamo ammettere che tutte sono state attive in un momento in cui il femminismo era al suo apogeo e che poi il ritorno ad una ideologia reazionaria, dagli anni ’80 in poi, ne ha fatto perdere addirittura le tracce. Rimane il fatto che oggi Grisi ci appare un’artista pionieristica e fortemente originale nella sua declinazione di un’arte concettuale che incrocia ecologia, etnografia e genere.
EB: In occasione della mostra che curi al Muzeum Susch, The Measuring of Time, Laura Grisi è presentata come “un soggetto femminile apolide e nomade che sfida le politiche dell’identità, l’univocità della rappresentazione e l’unidirezionalità del tempo.” A tuo parare dove sta l’attualità e profondità della sua ricerca? Quali serie di opere in mostra ritieni essere strettamente legate alle tematiche (e problematiche) di oggi?
MS: Laura Grisi è sostanzialmente un’artista del molteplice, dell’illimitato, dell’intangibile. Forse la risposta a questa tua domanda si potrebbe riassumere nel suo film che dà il titolo alla mostra. Questo film in bianco e nero documenta l’artista, sola su una spiaggia e impegnata in un’impresa – degna di Sisifo – che apparentemente non ha fine, oltre il tempo enumerabile. In questo bellissimo “frammento” filmico, che alterna close-up delle mani che contano ogni granello di sabbia a panoramiche dell’arenile, non c’è solo una figura femminile impegnata in un’operazione che ne eccede le facoltà: l’impossibilità di contare tutti i grani di sabbia di una spiaggia. Non c’è soltanto una sfida al passaggio del tempo. La distesa sabbiosa che appare come un tutto omogeneo (memore di tutti i deserti che Grisi ha visitato) è, al contrario, divisibile all’infinito, in ciascuno strato della sua sedimentazione. Ogni grano di sabbia, infatti, ripete se stesso senza essere mai identico a nessun altro. In questa ossessione di Grisi per il particolare trascurabile, per gli scarti differenziali, per il minimo e per l’incommensurabile, sta la vera grandezza di Laura Grisi.
EB: Insieme all’esposizione di importanti opere dagli anni Sessanta agli anni Ottanta e alla presentazione di documenti fondamentali della ricerca e dei viaggi dell’artista, in mostra sono stati ricostruiti alcuni dei nove ambienti dedicati ai fenomeni naturali e mai riallestiti dalla fine degli anni Sessanta e inizio anni Settanta. Mi introduci in cosa consistono questi ambienti e perché sono importanti espressione dell’eterogeneità della ricerca della Grisi?
MS: In mostra sono ricostruiti cinque ambienti, alcuni mai riallestiti dalla fine degli anni ’60. Si è trattato di un grande sforzo anche filologico ma ne siamo soddisfatti. Sono ambienti fondamentali che secondo me segnano quell’idea di femminilizzazione dello spazio che Grisi condivide con altre artiste coeve (come Judy Chicago e Teresa Burga) e di oggi. Si tratta del passaggio dai segni alle forze, dal piano all’ambiente, dal duraturo all’evento. La Sala della nebbia, il Volume d’aria, la Stanza della pioggia sono una rivendicazione dell’aria come fondamento della nostra esistenza. Qualcosa che sfida la materia solida come presupposto di tutto il pensiero occidentale e patriarcale.
EB: Una degli aspetti distintivi della sua ricerca è quella legata alle culture extra-europee, in particolare quelle dell’Africa, del Sud America e della Polinesia. Quali sostanziali influenze hanno avuto queste culture nel suo percorso?
MS: Laura Grisi ha sempre affermato che questi viaggi intorno al mondo, in cerca di popolazioni indigene e in compagnia di Folco Quilici, hanno fortemente influenzato il suo modo di pensare e visualizzare la vita. Ma c’è un aspetto, tra tutti, che vorrei sottolineare. Grisi all’inizio della sua attività usa una Hasselblad e una Rolleiflex, fa una fotografia di grande intensità in stile Magnum. Nel’64 comincia a capire però che questa attitudine naturalistica e presunta obiettiva è solo un ennesimo artificio occidentale, così passa alla pittura e a tanti altri media artistici che le consentono approssimazioni linguistiche, traduzioni imperfette della realtà e dell’originale. Forse per questo motivo l’artista metterà al centro del suo lavoro il movimento e l’ascolto, secondo una politica dell’attenzione davvero estrema. Il fatto che Laura abbandoni l’idea della traccia in favore dell’aura (non è un gioco di parole!), mi pare sia un segno ulteriore di questo suo grande lavoro solitario e non spettacolare. Con le sue fotografie iniziali, infatti comincia la mostra di Susch. È la prima volta che queste foto rientrano in una sua mostra: ma la nostra idea era quella di riaprire una interpretazione di Laura Grisi a 360° e che, finalmente, le potesse restituire tutto il suo valore.
The Measuring of Time è la prima ampia retrospettiva museale dedicata all’artista Laura Grisi (1939 – 2017) dopo la sua scomparsa, realizzata in collaborazione con l’Archivio Laura Grisi di Roma e la Galleria P420 di Bologna.
Laura Grisi. The Measuring of Time
Muzeum Susch
A cura di Marco Scotini
5 giugno – dicembre 2021