Marco Scotini ci racconta la Biennale di Yinchuan | Starting from the Desert. Ecologies on the Edge

“Credo che il merito di questa biennale, se ne avrà mai uno, sarà quello di cercare modi di liberazione dalla separazione tra le cose, dalle discipline, dalle forme del passato e del futuro, vedendole come il limite massimo alla costruzione di un mondo ecologico. Perché dobbiamo continuare a mappare, catturare, regolare, incanalare?” Marco Scotini
29 Maggio 2018
Alimjan Jorobaev - Oral creativity

Alimjan Jorobaev – Oral creativity

Grazie alle ricerche, alle scoperte e agli ‘scavi’ (metaforici) compiuti dal team curatoriale della Seconda Biennale di Yinchuan – direttore artistico Marco Scotini, curatorial team Andris Brinkmanis, Paolo Caffoni, Zasha Colah e Lu Xinghua – scopriamo una nuova (e contemporanea) Via della Seta. Concepito con l’obbiettivo di misurarsi con uno specifico contesto sia storico che geogtrafico, che esule dalle strade battute e trite del ‘sistema delle biennali’ “Starting from the Desert. Ecologies on the Edge” cerca di rispondere alle esigenze – e urgenze – contemporanee, adotaddo un ‘metodo archeologico’. Come ci racconta Marco Scotini nell’intervista che segue, questo metodo ha stretti legami con il pensiero di Michel Foucaul. Per il pensatore francese, l’archeologia del sapere è l’analisi della nascita e dello sviluppo del rapporto “al tempo stesso non visibile e non nascosto” fra formazioni discorsive e non-discorsive, fra saperi, non necessariamente codificati, e comportamenti sociali, più o meno istituzionalizzati. Spiega Scotini che adottare questa metodologia non significa ritrovare l’origine pura e incontaminata di quanto c’era prima, ma dissolverla in una moltiplicazione di strati eterogenei che non possono essere più essere catturati (o spiegati) da quelle formazioni moderniste e oppositive con cui continuiamo a pensare: uomo e natura, geografia e storia, arte e scienza, oralità e scrittura e così via.”

Citando artisti e le loro scoperte, il curatore ci racconte le sue ‘impressioni’ laddove continuava a “vedere solo terra e cielo”. Dunque, con un decisiva volontà propositiva e una forte carica visionaria, i curatori sono riusciti a scardinare i consilidati percorsi metodologici su come si costruisce (e cura) una Biennale. Suddivisa in quattro macro aree – Nomadic Space and Rural Space; Labor-in-Nature and Nature-in-Labor; The Voice and The Book; Minorities and Multiplicity – “Starting from the Desert. Ecologies on the Edge” indaga un diverso significato di ‘ecologia’, parola che ha perso il suo significato diventando un’etichetta di comodo sostanzialmente svuotata.

“Il denominatore comune a cui ci siamo riferiti per la concezione dell’intera biennale è quello di una Scienza Nomade, per dirlo con Deleuze e Guattari: una scienza vagabonda o itinerante.”
Privilegiando la processualità alla forma, il confronto ad una visione dogmatica, il team capitano da Scotini sembra tracciare – sia con le tematiche affrontate, che per la scelta ‘virtuosa’ degli artisti – le coordinate mobili di un campo progettuale destrutturato che, andando al di là della ricerca prettamente estetica (diktat dell’arte in primis) per dare voce alla necessità di instaurare un rapporto vero, efficace ma soprattutto critico, con l’ambiente naturale, sia esso leggibile come frutto della cultura o delle inevitabili ideologie.
Significativo che Scotini, come chiosa, alluda ad un certa ‘follia’ che aleggia in questa impresa-biennale. “Ma non era proprio la follia un attributo dell’arte?”

Marjetica Potrc, Yinchuan_Rural House, installation, commission by Yinchuan Biennale, 2018, courtesy the artist 01

Marjetica Potrc, Yinchuan_Rural House, installation, commission by Yinchuan Biennale, 2018, courtesy the artist 01

Elena Bordignon: Una delle particolarità della Yinchuan Biennale è quella di essere fortemente radicata ad uno specifico contesto socio-politico. Dalla particolarità di una situazione radicata al territorio, la vera sfida è quella di far si che le peculiarità ‘locali’ diventino espressione di quelle che sono le ‘urgenze contemporanee’ estendibili ad una visione globale. Assieme al team di curatori hai raccolto questa sfida adottando un ‘metodo archeologico’. Mi spieghi la natura di questo metodo e come lo avete fattualmente applicato nelle vostre ricerche?

Marco Scotini: Di fatto il Nord Ovest della Cina è terra di scavi. Ancora oggi la quantità di cose sepolte dalla sabbia del deserto è maggiore di quella emersa. Ti potrei citare un libro noto e affascinante di Peter Hopkirk, Diavoli stranieri sulla Via della Seta, che racconta le spedizioni nell’area di archeologi come Aurel Stein o esploratori come Paul Pelliot, Sven Hedin e Albert von Le Coq. Io stesso ho voluto incontrare molti archeologi tra Xi’an, Pechino e Yinchuan nell’ultimo anno. La Via della Seta ha una lunga e grande storia che si trova ora sotto la minaccia di un megalomane e futurista progetto cinese, che avrebbe la pretesa di farla risorgere. Però quando parliamo di metodo archeologico per la seconda Biennale di Yinchuan non è proprio questo che intendiamo. Ci riferiamo a Foucault e alla sua idea delle formazioni discorsive. Perseguire questa metodologia non significa ritrovare l’origine pura e incontaminata di quanto c’era prima, ma dissolverla in una moltiplicazione di strati eterogenei che non possono essere più essere catturati (o spiegati) da quelle formazioni moderniste e oppositive con cui continuiamo a pensare: uomo e natura, geografia e storia, arte e scienza, oralità e scrittura e così via.

Intendo dire che prima di incontrare il gruppo etnico abbiamo a che fare con un enunciato che definisce cos’è una minoranza sociale e cos’è una maggioranza. Se ‘scaviamo’ ci rendiamo conto che la situazione è più complessa e le ibridazioni maggiori di quanto appaiano. Per non parlare delle lingue, delle espressioni spirituali, dei reperti materiali, delle specie ornitologiche. So che la vocazione attuale del mondo è ridurre tutto ad un solo linguaggio, ad un unico stile di vita, abolendo ogni forma di biodiversità. Un grande scrittore egiziano, che ho conosciuto e che veniva dal deserto, diceva: “Non è possibile essere l’altro. Ogni vera prossimità passa per la differenza” – o qualcosa del genere.

EB: Lo scorso dicembre a Milano, durante la conferenza stampa della presentazione della Biennale, raccontavi: “Uno degli aspetti che mi hanno colpito, nelle mie varie visite al museo di Yinchuan, è che ho avuto come l’impressione che lì, la storia, non ci fosse passata. Nella stessa città di Yinchuan è molto difficile trovare delle tracce del passato.” Questa assenza di ‘storia’ o meglio, l’essere privi di una pesantezza storica evidente, vi ha agevolato od ostacolato nella costruzione e sviluppo delle tematiche della Biennale?

MS: La definivo impressione, appunto. Così come il deserto cancella le tracce, a Yinchuan continuavo a vedere solo cielo e terra. Per questo abbiamo preso la pala e cominciato a scavare: quello che è emerso è molto altro. Con Marjetica Potrc abbiamo voluto vedere i resti della Grande Muraglia che ora appaiono come cumuli di terra, lì dove questa separava il deserto dalla campagna. Ad un certo punto abbiamo incontrato Yanchi, un piccolo villaggio con una distesa enorme, piatta e vuota. Sopra c’erano migliaia di frammenti di terracotta, di mattoni, di tegole che risalivano a 2000 anni fa. Si trattava di una potente città della dinastia Han, rasa al suolo dai Mongoli e da secoli scomparsa. Per questo la Potrc ha preso come modello per il suo lavoro una casa contadina che appartiene ad un particolare ecosistema. Queste case sono fatte di sabbia e paglia di riso e quando le persone le abbandonano ritornano allo stato di deserto, senza lasciare alcuna traccia del vissuto. Mi sembra una filosofia ancora tutta da apprendere.

The Institue - Theresholds 2 and 3, commission by Yinchuan Biennale, 2018, courtesy of the artist

Can Altay, The Institue – Theresholds 2 and 3, commission by Yinchuan Biennale, 2018, courtesy of the artist

EB: Uno dei tratti distintivi della Biennale – evidenti anche nel titolo ‘Starting from the Desert. Ecologies on the Edge’ – è l’aspetto ecologico. Il significato primario del termine ecologia riguarda lo studio delle interrelazioni che intercorrono fra organismi e ambiente che li ospita. Simbolicamente come avete trattato il tema dell’ecologia? Mi fai degli esempi concreti citandomi opere e artisti?

MS: Come sai da anni mi occupo di tematiche ambientali ma ad Yinchuan mi è sembrato fondamentale fare un passo in avanti e decisivo. Sembra che l’ecologia debba ridursi a quello che definiamo “verde” o “natura”. É emersa sempre più forte la necessità di pensare ad un oikos che tutto trattiene al suo interno: il corpo, la voce, le macchine, il lavoro, le culture, la storia, la geografia, il genere, gli animali e così via. Dunque ecologie sociali, psichiche, ambientali, ecc. Pensa a un outsider come Demetrio Stratos e al suo tentativo radicale di sottrarre le nostre corde vocali alla normalizzazione fonetica del linguaggio attraverso le diplofonie o le quadrifonie. Mi vengono in mente anche le socio-botaniche di Xu Tan, le denuncie di Naviot Altaf, la piantagione di Zheng Bo, il femminismo di Salima Hashmi e Scheeba Chhachhi, la storia del seme in Mao Chenyu.
Credo che il merito di questa biennale, se ne avrà mai uno, sarà quello di cercare modi di liberazione dalla separazione tra le cose, dalle discipline, dalle forme del passato e del futuro, vedendole come il limite massimo alla costruzione di un mondo ecologico. Perché dobbiamo continuare a mappare, catturare, regolare, incanalare?

Mi vengono ancora in mente i testamenti di grandi maestri – politicamente segnati – come Luigi Nono, che alla fine del suo percorso afferma “bisogna saper ascoltare”, o come Joris Ivens che, a novanta anni, gira il suo ultimo film nel deserto del Gobi. Proprio lui che per tutta la vita aveva inseguito le rivoluzioni del Novecento e sente infine la necessità di filmare il vento.

EB: La Biennale è stata suddivisa in quattro macro aree: Nomadic Space and Rural Space; Labor-in-Nature and Nature-in-Labor; The Voice and The Book; Minorities and Multiplicity. Mi racconti brevemente le tematiche affrontate in ogni sezione e, se esiste, la relazione che le tiene unite?

MS: Siamo partiti da queste dicotomie classiche per cercare di confutarle. Di ogni segmento abbiamo individuato le sovrapposizioni, gli slittamenti, le ibridazioni. Prendiamo per esempio la parola minoranze. Ecco che questa ha valore solo all’interno di una visione vincolata ad un unico mondo possibile. All’interno di questo mondo c’è una maggioranza e una o più minoranze. Se pensiamo attraverso la lente della molteplicità siamo costretti – al contrario – a uscire da questa idea di un solo mondo per aprirci ai possibili, alle eccedenze, alle proliferazioni. Ecco che allora l’idea di maggioranza viene meno.

Potremmo anche prendere la parola ‘lavoro’ e vedere che con questa si è contrassegnato solo un ambito della nostra esistenza (quello salarizzato, operaio o direttivo che sia), lasciando fuori il lavoro della terra, delle piante e quello riproduttivo della donna. Naturalmente tutto questo ha a che fare con la ricerca estrema di nuovi valori che non possono più essere quelli del capitalismo o del socialismo storico. Come dice Silvia Federici: bisogna re-incantare il mondo. Ecco perché tutta quella retorica sulla ricerca di energie alternative mi fa un po’ ridere, perché rimane totalmente dentro il paradigma scientifico. Per cui esaurita una riserva se ne trova un’altra – indipendentemente dal fatto che siano gas fossili, vegetali o altro. Forse dovrei aggiungere che il denominatore comune a cui ci siamo riferiti per la concezione dell’intera biennale è quello di una Scienza Nomade, per dirlo con Deleuze e Guattari: una scienza vagabonda o itinerante.

Justin Ponmany, Amphitheatre, performance, comminssion by Yinchuan Biennale, 2018, courtesy of the artist

Justin Ponmany, Amphitheatre, performance, comminssion by Yinchuan Biennale, 2018, courtesy of the artist

EB: 90 artisti provenienti da oltre trenta regioni, con particolare attenzione ai confini occidentali della Cina: dalla Mongolia all’Asia centrale e sud-orientale. Accanto ad artisti molto conosciuti, avete scelto anche dei talenti poco noti in Occidente. Mi segnali le scoperte che hai compiuto e che più ti hanno colpito, magari segnalando alcuni artisti la cui ricerca è meritevole di approfondimenti?

MS: Abbiamo privilegiato come osservatorio il bordo occidentale della Cina perché siamo nel Nord Ovest cinese ma anche perché di lì passavano tutti i flussi della Via della Seta. Dunque dalla Mongolia siamo passati al Centro Asia o Eurasia, al Pakistan, al Nepal, all’India, all’Indonesia, alla Cambogia fino a Singapore. Credo che sono moltissimi gli autori poco noti in Occidente e non soltanto per motivi generazionali. Una grande scoperta è stato vedere come la scena artistica cinese e del sud est asiatico stia soprattutto focalizzandosi su tematiche ecologiche e ambientali. Di molti autori storici non ne ero a conoscenza neppure io anche se hanno già partecipato ad importanti mostre internazionali. Se dovessi prendere qualche campione dalla più nuova generazione direi i cinesi Li Binyuan (che rivendica il proprio corpo come unico capitale sociale) e Wang Sishun (che custodisce una fiamma sempre accesa spostandola da una mostra all’altra) così come i singaporesi Zai Tang (che lavora sull’ecologia acustica) e Ho Rui An (che fa lecture performances sugli stereotipi della globalizzazione).

EB: Sempre riferito alla presentazione di alcuni mesi fa, parlavi della ‘monoliticità’ senza tempo della cultura cinese, aspetto che sicuramente avrai indagato da più prospettive. Mi racconti come lo hai sviluppato? Lo hai considerato un ostacolo o uno ‘stato’ che, diversamente che in Occidente, diventa un potenziale paradigma denso di contenuto da indagare?

MS: Diciamo pure che si tratta di un attacco a questa pretesa monoliticità della Cina (che è dura a morire e tale solo da un punto di vista ideologico). Se solo qualche anno fa sembrava un mondo che si fosse aperto all’esterno, adesso nuove chiusure si fanno ogni giorno sempre più pressanti. Per cui, pur non avendo scelto opere esplicitamente politiche per questa biennale, in dogana ciascuna lo diventa e spero proprio di poter importare tutte le opere selezionate, anche se non ne sono ancora affatto sicuro. Credo che questa nuova chiusura non sia solo un problema cinese e la situazione mondiale lo dimostra. Ebbene forse ha pure senso partire da qua, proprio perché la Cina, più di ogni altra nazione, ha incarnato l’idea fossilizzata di Stato. Se pensi che tutto il nostro progetto muove dall’idea di una Scienza Nomade contro la Scienza di Stato, allora la seconda Yinchuan Biennale non può altro che apparire come un’impresa folle. Ma non era proprio la follia un attributo dell’arte?

Tina Modotti, Pandurang Khankhoje y el aspecto del campo de experimentación de la Escuela Libre de Agricultura Emiliano Zapata, Colección: Incremento Acervo/Savitri Sawhney, México, Fecha de asunto: 1930

Tina Modotti, Pandurang Khankhoje y el aspecto del campo de experimentación de la Escuela Libre de Agricultura Emiliano Zapata, Colección: Incremento Acervo/Savitri Sawhney, México, Fecha de asunto: 1930

Starting from the Desert. Ecologies on the Edge
Second Yinchuan Biennale
June 9–September 19, 2018
Museum of Contemporary Art Yinchuan 

Direttore Artistico: Marco Scotini
Team Curatoriale: Andris Brinkmanis, Paolo Caffoni, Zasha Colah e Lu Xinghua

Artisti: Ravi Agarwal, Vyacheslav Akhunov, Navjot Altaf, Can Altay, Nazgol Ansarinia, Arahmaiani e Wukir Suryadi, Said Atabekov, Baatarzorig Batjargal, Sammy Baloji, Massimo Bartolini, Felice Beato, Erick Beltrán, Alighiero Boetti, Nomin Bold, Giuseppe Castiglione (Lang Shining) , Filipa César, Sheba Chhachhi, Nikhil Chopra, Emory Douglas, Duan Zhengqu, Enkhbold Togmidshiirev, Peter Fend, Mariam Ghani, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Piero Gilardi, Shiva Gor, Raphaël Grisey, Grupo Suma, Salima Hashmi, Kiluanji Kia Henda , Hiwa K, Ho Rui An, pittori contadini di Huxian (Chen Jianchun, Du Zhilian, stazione culturale Jiaoxi, Li Fenglan, Li Naiti, Liu Huisheng, Ma Zhenlong, Wang Zhenying), Saodat Ismailova, Joris Ivens, Francesco Jodice, Alimjan Jorobaev, Kan Xuan, Muratbek Kasmalieva e Gulnara Djumaliev, Kimsooja, Li Juchuan, Li Binyuan, Liu Ding, Juan Pablo Macías, Taus Makhacheva, Mao Chenyu, Mao Tongqiang, Helen Mirra, Adrien Missika, Tina Modotti, Moataz Nasr, Pedro Neves Marques, Nils N orman, Uriel Orlow, Prabhakar Pachpute, Kyong Park, Gianni Pettena, Thao-Nguyen Phan, Justin Ponmany, Marjetica Potrč, Leang Seckon, Tsherin Sherpa, Karan Shrestha, Song Dong, Demetrio Stratos, Alexander Ugay, u-ra-mi-li (Iswar Srikumar e Anushka Meenakshi), Wang Sishun, Wang Wei, Penba Wangdu, Gruppo WUXU, Xu Tan, Xu Bing, Yang Kailin, Sawangwongse Yawnghwe, Zai Tang, Katarina Zdjelar, Robert Zhao Renhui, Zheng Bo, Zhuang Hui

Erick Beltran - Archive unit-multiple, installation, commission by Yinchuan Biennale, 2018, courtesy of the Artist

Erick Beltran – Archive unit-multiple, installation, commission by Yinchuan Biennale, 2018, courtesy of the Artist

Alexander Ugay, Cape Yellow - Scripus, 2018, comminssion by Yinchuan Biennale, courtesy of the artist

Alexander Ugay, Cape Yellow – Scripus, 2018, comminssion by Yinchuan Biennale, courtesy of the artist

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