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In occasione nella sua mostra personale To Build a Fire – ospitata alla galleria Lia Rumma a Milano – abbiamo intervistato l’artista Luca Monterastelli —
Ho immaginato di prendere un gruppo umano minimo e disporlo attorno ad un fuoco. Di osservarne gli individui intessere legami l’uno con l’altro, fino a creare quel tessuto di connessioni che stabilisce una realtà condivisa. Immaginiamoli, adesso, venerare questo portento, inscatolandolo in qualcosa che lo preservi. Così, quella regola chimica che muove i corpi e i mondi, è rinchiusa in questi sarcofagi di metallo che si contorcono nello spazio, imponendosi e soccombendo, mimando l’essenza del loro midollo.
Adesso che questa meccanica delle connessioni regola il loro quotidiano, è trascritta nel cemento, diventando la norma che detta il modo del loro convivere. Ora che quelle forze instabili sono codificate, che i modi di affrontare ambizioni e i fallimenti sono fissati, che perfino la memoria della tragedia ha perduto quella parte vitale che la rendeva così enorme, sono pronti a mettere in atto il loro apparato celebrativo.
Gli effetti di leggere male una storia di cui si sono perdute le dinamiche umane sono quelle di sempre. Le connessioni iniziano a spezzarsi e a condensarsi in punti sempre più forti; l’intero sistema creato collassa verso un’età delle conseguenze. Quei tubi si spezzano e si stendono nello spazio, il metallo si congela e risplende, i condotti sono aperti e le diversità di ogni forza sono accentrate in pochi punti. Il loro valore meccanico decade e sono trasformate in simbolo.
Il passaggio all’ultima fase è confuso e rapido, come spesso avviene in questi casi.
Il metallo smette di essere un rifugio, si dimenticano della funzione del fuoco: ora è solo una struttura, le cui bocche scaricano a terra il suo interno, che esalta un soggetto unico.
Qui la massa si agglomera e i gesti si uniscono sempre di più, fino a divinizzare un unico punto, a discapito degli altri.
A questo punto sono sempre più distanti dal loro inizio, e la tragedia, oramai del tutto codificata, sembra una strada confortevole. Hanno imparato a giocare con questi idoli, affinato la propaganda; ora riescono a obbligare la devozione verso un unico punto preciso. La massa si agglomera e i gesti si uniscono, tutto si perde. Fallito, ancora. Riproviamo.” Luca Monterastelli
ATP: In una recente intervista hai messo in evidenza che “il cemento è la costante degli ultimi duecento anni. (…) è un materiale stupido, dozzinale. Per questo mi affascina.” Te lo avranno chiesto molte volte, ma mi piace pensare che, anche a breve distanza da un’intervista e l’altra, o meglio, tra una mostra e tante opere pensate e prodotte, un’artista cambi o dilati il suo punto di vista.
Perché, tra i tanti materiali, hai privilegiato il cemento?
Luca Monterastelli: La mia considerazione rimane valida e non credo sia ancora il momento di rivederla. Vedi, la ricerca che ho inaugurato quando dissi quelle parole non è ancora esaurita. Il cemento deve rimanere quel materiale che ho descritto con quelle parole, altrimenti non riuscirei a utilizzarlo nel modo in cui faccio, a maltrattarlo, a ferirlo. Devo però ammettere come alcune sfumature comincino a evolversi in modo autonomo; forse è ancora qualcosa di troppo flebile perfino per farne un’intuizione, ma qualcosa c’è.
ATP: Oltre al cemento, utilizzi anche il metallo per le tue sculture. Due materiali mutuati dal’architettura. C’è una relazione tra la tua ricerca scultorea e il mondo dell’architettura?
LM: Certo, ma gli aspetti che più mi interessano non riguardano solo le soluzioni dell’architettura. Sappiamo che ogni costruzione nasce da un’idea sociale che si concreta, da una manifestazione di tutte le esperienze visive che l’hanno resa possibile. Se si parte dalle informazioni che ognuna di queste fornisce, è possibile costruire una genealogia del tessuto urbano: questo permette di accedere a un racconto delle progressioni umane senza filtri, dove gli errori rimangono presenti e leggibili senza distorsioni. La cosa più affascinante, però, è esaminare come gli individui che vivono queste trasformazioni, reagiscano. Ho notato questa tendenza a cercare di sistemare le cose: c’è tutta una somma di piccoli gesti estetici che, con il passare degli anni, correggono quell’idea, addolcendola a poco a poco, fino a restituirgli una personalità collettiva facendola incontrare con l’attualità. Cerco sempre di indagare queste pieghe, e di utilizzare i materiali come fossero già stati soggetti a queste trasformazioni.
ATP: In occasione della tua mostra “To Build a Fire “ alla galleria Lia Rumma a Milano, hai scritto un testo-racconto dove sembra – è una mia personale impressione – che tu voglia eternare un momento particolare tra un gruppo di persone. Mi racconti cosa cela il titolo e come è nato il racconto che introduce la mostra?
LM: Esatto. È un metodo di costituzione dell’apparato installativo che mi sta convincendo sempre di più. Sono sempre stato incuriosito quel procedimento che porta a ordinare la realtà in una linea temporale: quella predisposizione a sistemare in una consequenzialità causa ed effetto gli eventi. Abbiamo questa capacità, e necessità, di unire qualsiasi punto nel tessuto spazio temporale, tramite questa cosa che chiamiamo narrazione. Ho allora pensato a un gruppo umano attorno a un fuoco, e ho immaginato come ogni individuo cominciasse a intrecciarsi con l’altro, alla successiva ripartizione dei ruoli, e alla costruzione di quel primo intreccio sociale che gli permettesse di ingannare la desolazione della realtà. Ne ho poi assecondato l’evoluzione, la predisposizione a quel gioco di abusi e sottomissioni che ne consegue. La scansione nei tre piani è stata poi un’elaborazione di questi dati di partenza, ho immaginato un loro modo di legittimarsi e di trasformare questa legittimazione in propaganda, fino alle sue estreme conseguenze.
ATP: Nella costruzione delle tue sculture immagino che il processo sia lungo e laborioso. Direi anche faticose, viste le dimensione di molte opere. Mi racconti, in relazione ai lavori in mostra, come hai vissuto la loro realizzazione?
LM: Non si può nascondere che il mio lavoro coinvolga la mia fisicità in modo profondo. Questo sforzo lascia dei segni consistenti nel risultato finale, dove ogni traccia che rimane sul lavoro ne è una testimonianza presente. Diciamo che, mentre la parte ideativa limita l’espressività più viscerale, costringermi a un’immediatezza realizzativa, forzando le finestre temporali di produzione, mi obbliga a limitare i filtri che altrimenti scatterebbero. Ho sempre cercato di preservare il più possibile questa mia attitudine: credo che sia un ottimo vantaggio espressivo oltre che una parte imprescindibile del mio modo.
ATP: Imperfezioni, errori, cedimenti. Le tue sculture, proprio per le loro forme ‘approssimate’ diventano oggetti fortemente pittorici. Con questo aggettivo voglio suggerire come la materia “dura” del cemento, proprio perché trattata in un certo modo, assume un ampio spettro di modulazioni, sia formali che cromatiche. Quanto il risultato finale è investito da un’alta dose di casualità e di aspetti incontrollabili?
LM: La casualità, purtroppo, dura sempre poco. C’è un’attitudine che non può fare a meno di raddrizzare gli sbagli, c’è una forza incontrollabile che assetta la mano mentre sta compiendo il gesto, portandola, nel tempo, a completarlo nel modo migliore possibile, distillando gli errori e puntando a un perfezionamento. Sarebbe bello potere controllare quest’ambizione e mantenere la purezza del gesto iniziale, un po’ cerco di controllarlo come ho detto prima, ma alla lunga è impossibile. Quindi ci troviamo di fronte, nella maggior parte dei casi, a una casualità molto controllata.
ATP: In merito agli spazi della galleria, come hai pensato il percorso della mostra? Hai concepito un particolare display per allestire le opere?
LM: Il display è la parte più importante del mio lavoro. Ho deciso di partire da un’idea piuttosto semplice per la disposizione sui tre piani. Quando si affrontano delle divisioni architettoniche, il rischio è quello di perdere quel filo comune che dona alla successione delle opere la tensione vitale necessaria ad una buona installazione. Ho deciso di lavorare in modo eteroritmico, lasciando a ogni installazione una sua voce autonoma all’interno di una complessità corale. In questo modo ogni parte ha potuto mantenere un’identità ben distinta, ma in grado di creare un mondo del tutto diverso se lette nell’integrità dello spazio.
ATP: A prescindere da questa mostra, ci sono degli artisti – o personalità di altri ambiti che non siano strettamente legati al mondo dell’arte – che ti hanno affascinato con le loro opere (o scoperte)?
LM: Beh, sono sempre stato molto legato alla musica. I miei primi studi sono stati musicali e credo che parte della concezione dei miei lavori tutt’ora risenta di questo metodo. Poi, come ho già detto, il mio serbatoio immaginifico è riconducibile a un macro-insieme generazionale da cui tento di non escludere nulla, cercando di preservare la dignità di ogni elemento. È sempre difficile fare un’archeologia delle proprie esperienze visive, ma con il tempo mi sono fatto un’idea sempre più chiara da dove molte delle mie intuizioni provengano. Come abbiamo già detto c’è molta architettura, ma non grande architettura. Il più delle volte le mie intuizioni provengono da periferie orrende, o da dettagli sgraziati, per poi evolversi in altro. Ultimamente mi è stato fatto notare come certi particolari dei miei lavori siano riconducibili a certe architetture immaginifiche di alcuni vecchi videogiochi. Anche quella è stata un’esperienza visiva della mia infanzia, ed è quindi normale che in qualche modo si riproponga nelle forme che escono dal mio studio.
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Luca Monterastelli — TO BUILD A FIRE
I build a fire, I take a group of people and I arrange them around it. I observe them as they create bonds with each other, building up a network of interconnections that forms a shared reality. Now let us imagine them venerating this marvel, packing it into something that preserves it. The chemical rule that moves bodies and worlds is thus locked up in these metal sarcophagi that writhe in space, dominating and succumbing, imitating the essence of their innermost selves.
Now that this mechanism of interconnections regulates their everyday lives, it is transcribed into concrete, becoming the standard that dictates their way of living together. Now that these unstable forces are encoded, that their ways of tackling ambitions and failures are set, and that even the memory of the tragedy has lost the life-giving spark that made it all so immense, they are ready to put into practice their celebratory system.
The effects of misinterpreting a story of which the human dynamics have been lost are just the same as ever. The connections begin to break up and condense into ever stronger nodes, and the entire system that has been created collapses into an age of consequences. The tubes shatter and stretch out into space, the metal freezes and gleams, the conduits are open and the diversity of all powers are concentrated into just a few points. Their mechanical value dwindles and they are transformed into symbols.
The shift towards the final stage is quick and chaotic, as is often the case.
The metal stops acting as a refuge, and they forget about the function of fire: it is now no more than a
structure, and its mouths discharge its interior into the ground, which eulogises a single subject.
Here the mass agglomerates and the gestures come together more than ever, until they deify a single point, to the detriment of the others.
Now they are even farther away from their origins, and the tragedy – by now entirely encoded – appears to be the easy way out. They have learnt to play with these idols, refining the propaganda, and now they can force all devotion towards one particular point. The mass agglomerates and the gestures unite. All is lost. Failed, once again. Let’s try once more. (Luca Monterastelli)