Mancano pochi giorni all’apertura dell’attesa mostra curata da Cloe Piccoli, I’ll be there forever – The sense of classic, ideata e prodotta da Acqua di Parma e ospitata a Palazzo Cusani (Milano) dal 15 maggio al 04 giugno 2015. Noti da mesi gli artisti invitati a confrontarsi con un tema affascinante e molto impegnativo come il ‘classico’: Rosa Barba, Massimo Bartolini, Simone Berti, Alberto Garutti, Armin Linke, Diego Perrone e Paola Pivi. Per rafforzare e dare una prospettiva originale al tema, la curatrice, nel suo approfondito testo in catalogo, cita molte fonte, da Borges a Calvino, da Benjamin a Settis. Tra queste, una sembra particolarmente appropriata per introdurre non solo il vaso concetto di “classico”, ma anche la stessa mostra che sarà articolata, imprevedibile e sicuramente coinvolgente.
“Di fronte a un’immagine il presente non smette mai di riconfigurarsi per quanto antica possa essere. … Di fronte a un’immagine per quanto recente, contemporanea possa essere, il passato al tempo stesso non smette mai di riconfigurarsi, poiche? quell’immagine diventa pensabile solo in una costruzione della memoria se non dell’ossessione. Di fronte a un’immagine, infine, dobbiamo riconoscere con umilta? che essa probabilmente ci sopravvivera?, che siamo noi l’elemento fragile, passeggero, e che e? l’immagine l’elemento futuro, l’elemento della durata”. Georges Didi-Huberman ( G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 13.)
ATPdiary ha posto una serie di domande agli artisti, in merito sia al concetto della mostre che alle opere che esporranno in questa occasione. Iniziamo con le due brevi interviste a Massimo Bartolini e Diego Perrone.
— MASSIMO BARTOLINI
ATP: La mostra “I’ll Be There Forever /The Sense of Classic” ti ha portato, per molti versi, a relazionarti con concetti quali classico, storia, storia dell’arte e figure archetipe, ma anche termini come intramontabile, canonico ed esemplare. Mi dai una tua definizione di “classico”?
Massimo Bartolini: Il classico è per me una persistente familiarità sovrannaturale.
ATP: Hai mai pensato al tuo lavoro in relazione all’ “imponente” storia dell’arte? O, ad un altro aspetto fondamentale: la durata di un’opera?
MB: Qualche volta e con scarso successo per entrambe la domande.
ATP: Idealmente, hai mai immaginato una tua opera tra un secolo? Come sarà fruita o, ancora, cosa ne resterà?
MB: No, mai.
ATP: Mi racconti un’opera che definiresti “un classico”? Perché?
MB: Le donne di Giacometti, perché hanno fornito una delle immagini più convincenti della storia di quello che si chiama “essere”.
ATP: Perché scegli di confrontarti con un materiale denso di storia e cultura come il bronzo? Cosa ti affascina di questo materiale?
MB: Per togliergli il più possibile storia e cultura e vedere come si può fare una statua senza fare uno statement.
ATP: In occasione della mostra “I’ll Be There Forever /The Sense of Classic”, presenterai la scultura “Giacometti Landscape” ispirata a Woman of Venice VIII. Perché hai scelto questa scultura, tra le più ieratiche dell’artista svizzero?
MB: Perché è già un paesaggio verticale, perché è una delle sue scultura che più mi fa venire in mente l’Atelier di Giacometi, quel bellissimo libro di Jean Genet , perché in quella scultura, a ricopiarla si sente benissimo, c’è rimasta imprigionata la danza che le mani hanno fatto per modellarla.
— DIEGO PERRONE
ATP: Hai mai pensato al tuo lavoro in relazione all’ “imponente” storia dell’arte? O, ad un altro aspetto fondamentale: la durata di un’opera?
Diego Perrone: Non so bene come rispondere a questa domanda, la durata di un’opera dipende da troppe variabili che non sono in grado di prevedere. Preferisco lavorare per rendere efficace una mia opera perché è qualcosa che mi sento di controllare meglio.
ATP: In merito alla “Fusione della Campana” – opera realizzata nel 2008 – cosa ti ha attratto di questo soggetto, affrontato anche dal grande regista Tarkowsky nel film “Andrej Rublev”?
DP: La fusione della campana è una rappresentazione simultanea di tre momenti differenti della lavorazione di una campana. Le tappe fondamentali che ho seguito sono: lo scavo di una fossa di fusione, la modellazione della campana nella fossa e la colatura del metallo che dalle ciminiere passa nei canali e finisce per andare a costituire la campana. Come hai giustamente detto questa scultura deriva da un episodio del film di Tarkowsky “Andrej Rublev” e principalmente dalla scena finale, nella quale la camera si alza per inquadrare il luogo all’aperto usato per realizzare la campana e nel quale si vedono chiaramente scavo e ciminiere delle fornaci. Ora, osservandola mi rendo conto che ho rappresentato tutto ciò che protegge e che cela la campana, una pelle di terra che ostruisce lo sguardo sul vero soggetto, e ne difende la visione.
ATP: Fragilità e resistenza: il vetro è un materiale affascinate e difficile. Lo utilizzi per le opere che presenterai in mostra. Quali sono le tue fonti di ispirazione?
DP: La tecnica che ho usato per realizzarle si chiama “Pasta di vetro” e consiste nel colare dentro uno stampo il vetro fuso e dopo alcune settimane di raffreddamento la scultura risultante sarà un blocco senza alcun vuoto nel suo interno. Il vetro, in questo caso, diventa un materiale che considero anti-scultoreo. La sua trasparenza quasi cancella i volumi e la texture superficiale e ti fa vedere dentro, sostituendo al chiaro-scuro della scultura la sua composizione interna. Il soggetto delle sculture è sempre il profilo di una testa sulla quale sono state modellate delle carpe koi, simbolo orientale che stilizzato è spesso frequente nell’immaginario dei tatoo.