Testo di Marisa Prete —
Siamo nel clou di un’epoca di profondi cambiamenti, che investono ogni aspetto della nostra vita su questo pianeta. Uno dei campi maggiormente coinvolti da queste trasformazioni è proprio quello che riguarda le immagini, le quali hanno cambiato la propria natura e, soprattutto, il proprio campo di azione. Le immagini “non funzionano più nel modo in cui siamo abituati, sebbene dilaghino in tutti i campi pubblici e privati come mai prima nella storia”, ci avverte Joan Fontcuberta nella prima pagina del suo libro La furia delle immagini (2018). Le nuove tecnologie sondano inesplorate frontiere del visibile, esaltando il ruolo attivo, e non semplicemente riproduttivo, dei contenuti visuali, trasgredendo i normali confini dell’esperienza visiva. Le immagini hanno mutato il modo di rapportarsi con noi e con il mondo e anche noi abbiamo radicalmente trasformato le modalità con cui viviamo le immagini, in cui ne siamo immersi, abitandole e facendoci abitare da esse. Sistemi di progettazione informatica che combinano perfettamente oggetti reali fotografati e oggetti sintetizzati dal computer, fotocamere in grado di ‘leggere’ i contenuti ripresi, tecnologie di imaging utilizzate in vari campi di applicazione: sono solo alcuni dei nuovi sistemi emersi di recente e impiegati per la creazione e la manipolazione di immagini. Nel loro insieme, essi consentono alle fotografie di svolgere funzioni nuove, senza precedenti e ancora poco conosciute. E, così facendo, cambiano radicalmente ciò che è una un’immagine fotografica. Le fotografie digitali apparentemente sono simili a quelle tradizionali; in realtà funzionano in modo diverso da quelle su pellicola. Esse consistono in codici numerici e, come tali, possono essere processate dalle macchine e trasformate in dati, visualizzate in varie modalità e contenere molte più informazioni di quelle che possono essere viste dall’occhio umano. La fotografia digitale, appena prodotta è già informazione e contemporaneamente schermo e, come tale, in un tempo istantaneo, può essere manipolata, dislocata, diffusa. La logica della fotografia digitale mette in discussione i codici semiotici, le modalità di visualizzazione e i modelli di spettatore all’interno della moderna cultura visuale, esigendo così l’apertura di un dibattito nuovo sullo status di questo medium.
I dibattiti tradizionali attorno alla fotografia si sono spesso focalizzati attorno ad un argomento predominante: il rapporto tra immagine e realtà. La fotografia mostra la realtà? Oppure la travisa, la oscura, la falsa, ingannandoci? Buona parte di questi dibattiti trova posto all’interno di una concezione, proveniente dalla metafisica tradizionale, che si fonda su un dualismo di base: da una parte c’è il soggetto, che vede, che esplora, che vuole conoscere. Dall’altra c’è l’oggetto, il mondo che aspetta solo di essere visto ed esplorato. All’interno di questo universo, che l’uomo occupa in posizione centrale, vigono un certo ordine e stabilità, garantiti dalle categorie di spazio e tempo intesi come principi fissi e immutabili.
Il concetto di fotografia, elaborato nell’arco di quasi due secoli di riflessioni, si inquadra all’interno di questo paradigma ontologico, spaziale, temporale ed antropocentrico. L’immagine fotografica, pur nella varietà delle concezioni e delle pratiche, viene considerata all’interno di uno spettro che va, per utilizzare la terminologia peirciana, dalla nozione di icona a quella di indice e, in quanto tale, fissata nella cornice temporale del passato. La fotografia è una superficie significante che ritaglia un frammento di spazio e immobilizza un istante di tempo, entrambi prelevati da un continuum spazio-temporale, linearmente e unidirezionalmente orientato. In base a questo protocollo tecnico e semiotico, la fotografia è stata dunque considerata un oggetto legato a concetti come verità, memoria, traccia, documento. Le attuali pratiche fotografiche hanno spezzato tutti questi vincoli, sia ontologici che antropologici, richiedendo la formulazione di nuovo pensiero. Anche tutto il pensiero moderno sull’arte ha sempre considerato l’oggetto estetico come oggetto, vale a dire come una struttura autocontenuta nello spazio e nel tempo. Tutte le teorie estetiche che si sono succedute nella storia sono sempre partite da un’idea di opera d’arte come oggetto finito, collocato in uno spazio e in un tempo determinati e stabili, sia essa un dipinto, una scultura, una performance, una fotografia. All’interno dell’infosfera ci viene invece chiesto di riconsiderare il paradigma stesso dell’oggetto estetico, il suo modo di darsi nello spazio-tempo, le modalità con cui noi spettatori interagiamo con esso.
La scienza, mettendo in crisi i principi della fisica classica con l’avvento della fisica relativistica e di quella quantistica, da circa un secolo ha dovuto accettare la fine del determinismo e del dualismo impliciti nella meccanica newtoniana, nonché della nozione di tempo come categoria stabile e linearmente ordinata. L’affermazione del principio di indeterminazione porta inevitabilmente a riconoscere che l’osservatore non è un’entità separata; non è possibile interagire con l’universo senza modificarlo. I fenomeni che accadono vanno visti in interazione tra loro e con l’osservatore. Il riconoscimento di questa interdipendenza di soggetto e oggetto mette radicalmente in crisi il paradigma ontologico dualistico ereditato dall’età moderna. Questa visione di un universo interdipendente si amplifica nel concetto di infosfera, che il filosofo Luciano Floridi (La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina Editore 2017) identifica non solo con l’ambiente informazionale, ma nella cui natura omnipervasiva riconosce il sinonimo dell’intera realtà, sempre più interconnessa e priva di confini, la cui temporalità è caratterizzata da una sincronicità che tende alla simultaneità, e da uno spazio fluido e delocalizzato. All’interno dell’infosfera nulla è realmente stabile e oggettivabile; la sua essenza è piuttosto l’interattività: esse est interagendum, esistere è essere interattivo. In questa cornice i processi sono più basilari delle cose, le relazioni più fondamentali degli oggetti. Le nuove tecnologie non stanno solo modificando il mondo; lo stanno riontologizzando, dando vita a un vero e proprio habitat, ridefinendo uno spazio vitale iperconnesso, in cui digitale e analogico si fondono insieme e non è più possibile distinguere il reale dal virtuale. All’interno di questo nuovo quadro ontologico, gnoseologico ed antropologico, anche l’immagine fotografica richiede un nuovo impianto teorico. Per questo si è ricorsi ai termini di ‘metafotogorafia’ e di ‘oltrefotografia’, per sottolineare l’esigenza di mettere a punto una nuova visione che rifletta sulle potenzialità che le nuove tecnologie e le nuove pratiche hanno conferito al mezzo. Già Fred Ritchin dedicava un intero capitolo del suo testo del 2009, After Photography, all’iperfotografia, mentre Joan Fontcuberta sottotitola il suo La furia delle immagini con l’espressione Note sulla postfotografia (di post-photography scriveva anche Geoffrey Batchen in un articolo apparso su Afterimage nel 1992). Tutte queste desinenze cercano, in realtà, di evidenziare il peso di una discontinuità, di spostare la concezione e le riflessioni sulla fotografia all’interno di un nuovo livello, cogliendo le sollecitazioni palesi provocate dalla rivoluzione digitale che, trasformando le immagini, ha cambiato il modo in cui percepiamo e concettualizziamo il mondo. L’immagine digitale, il ritrarsi del referente, il prevalere della manipolazione sul prelievo, dell’immaginazione sull’autenticazione, l’infittirsi delle contaminazioni intermediali e transmediali delineano una cornice all’interno della quale la fotografia va perdendo sempre più la funzione di testimonianza per assumere quella di interfaccia attiva, di ambiente visivo complesso. Nella nebulosa digitale, le immagini si moltiplicano e si fondono, si compenetrano per comporre visioni ibride e tali trasformazioni sconvolgono non solo i metodi di produzione iconografica ma anche le sue forme di diffusione e di ricezione. Questa nuova fotografia, in particolare, infrange quello che era il fondamento metafisico tradizionale, cioè il tempo, inteso come sequenza linearmente orientata, aprendo all’immagine l’accesso a diverse dimensioni temporali. La fotografia va perdendo la sua connotazione di impronta del passato per dislocarsi in un flusso smaterializzato, dinamico e multidimensionale, caratterizzato da pervasività, ubiquità, simultaneità e addirittura da predittività. Si pensi, infatti, all’ambito della machine vision e alle immagini generate da sofisticati algoritmi di intelligenza artificiale, sintetizzando fotografie preesistenti e raccolte in dataset. In tal caso le immagini-output non consistono nel prelievo di un frammento spazio-temporale. Pur sembrando in tutto e per tutto delle fotografie, e come tali fruite dalla nostra percezione, esse contravvengono al noema barthesiano: non sono originate dalla presenza, in un certo istante e in un certo spazio, di un oggetto davanti all’obiettivo della macchina. Scriveva Barthes: “La foto è letteralmente un’emanazione del referente. Da un corpo reale, che era là, sono partiti dei raggi che raggiungono me, che sono qui.” È questo, secondo Barthes, il “noema” della fotografia, ciò che la differenzia dalla pittura e dal discorso verbale, e cioè il fatto che non si possa “mai negare che la cosa è stata là”. Le immagini sintetiche frutto della machine vision, invece, non sono l’emanazione di alcun referente. Non sono, pertanto, delle impronte; né sono preesistenti, ma sono sganciate da ogni a priori spazio-temporale.
Queste immagini derivano da fotografie ma non sono fotografie, sebbene sono da esse indistinguibili e possono comportarsi come tali. E sicuramente impongono un aggiornamento radicale dei discorsi intorno all’immagine fotografica. Perché ci troviamo di fronte a immagini diverse, che non rispecchiano e non mediano un mondo già dato, che è lì di fronte a noi, ma ne creano uno nuovo, che tuttavia conserva dei legami impliciti, oscuri, con quello originale. Sono immagini in atto, frutto di un’azione performativa della macchina. E hanno natura predittiva, in quanto sono il frutto di algoritmi che operano attraverso modelli statistici e predizioni basati su immensi database. La stessa locuzione, machine vision, ci dà la misura della rivoluzione in atto. Ogni teoria dell’immagine, fotografica o meno, elaborata finora, e ogni teoria della fruizione di essa si fondava sul dato di fatto che l’unico soggetto in grado di vedere e interpretare semanticamente un’immagine fosse quello umano. Oggi, invece, ad esso si è aggiunto un altro attore capace di ‘visione’. La macchina, cioè, non è solo capace di generare forme nuove (facoltà anch’essa storicamente attribuita esclusivamente all’ingegno umano), ma anche di ‘vederle’, o quanto meno di interpretarne i contenuti informazionali. Sembra piuttosto evidente che qui stiamo parlando di un’altra cosa rispetto alla teoria dell’inconscio ottico di Benjamin, il quale riconosceva al dispositivo fotografico la capacità di mostrare il mondo secondo una modalità diversa rispetto a quella di cui è capace lo sguardo oculare, grazie alla sua facoltà di catturare dettagli ed elementi non visibili all’operatore al momento dello scatto, ma che dopo esigono comunque un soggetto umano che li tragga fuori dalla loro latenza, li riveli e li riconosca all’interno dell’immagine. Nel caso dell’intelligenza artificiale, invece, il riconoscimento lo opera la macchina stessa. Se l’inconscio ottico è la capacità della macchina di potenziare la visione – che però resta umana -, nel caso dell’ intelligenza artificiale è la stessa macchina in grado di ‘vedere’ autonomamente, cioè di processare e interpretare gli input, elaborando dati che spesso non condivide con il partner umano e che a quest’ultimo non sono accessibili. Ecco che questa nuova ‘specie’ di immagini si colloca all’interno di un universo che ha dovuto ripensare non solo la sua ontologia e la sua spazio-temporalità, ma è anche un universo che ha dovuto rinunciare per sempre ad ogni pretesa antropocentrica. Questo ribaltamento di paradigma ha impiantato un nuovo orizzonte da cui occorre partire per intraprendere un pensiero sulla fotografia al passo con i tempi. Le fotografie, da strumento di mediazione con il mondo, si sono trasformate nella sua materia prima, dalla natura sfuggente, ibrida, insieme fisica e virtuale, materiale e aleatoria e soprattutto affatto inerte o semplicemente riproduttiva, ma operativa, che agisce nel mondo contribuendo attivamente a plasmarlo e a renderlo un ambiente attivo e interattivo. Nonostante le riflessioni sull’inconscio ottico, il modello su cui si fondava l’epistemologia dell’immagine fotografica fino alla fine del secolo scorso era quello dell’occhio umano. Oggi quel modello ha bisogno di essere rivisto, perché il dispositivo della visione si sta configurando in modo diverso, in un modo che va oltre la visibilità. Il rapporto della fotografia con lo spazio, il tempo, i supporti, gli altri media e le altre immagini, con l’autorialità e con lo spettatore configura un oggetto diverso, una Metafotografia o, forse sarebbe più pertinente dire, un’Oltrefotografia.
Metafotografia è il termine che dà il titolo al progetto triennale che ha preso vita al BACO di Bergamo (a cura di Mauro Zanchi e Sara Benaglia) tra il 2019 e il 2021, grazie al contributo di 25 artisti che hanno fatto di questi temi e di queste sfide la materia della propria ricerca. Le loro produzioni si muovono all’interno di questo panorama complesso: sfondano i confini pratici e teorici attribuiti al mezzo, sondano le infinite potenzialità all’interno dell’infosfera, esplorano le implicazioni sociali, antropologiche e politiche, creano ibridazioni intermediali, facendo deflagrare i generi tradizionali per impiantare narrazioni e scomposizioni semantiche, deviazioni e metamorfosi che tengono costantemente attivo il riferimento a quell’interattività generale di cui si è detto in precedenza, senza mai perdere di vista le mutue implicazioni – e anzi facendole spesso cortocircuitare – tra virtuale e fisico, tra controllo e contingenza, tra le pratiche del potere e le modalità con cui si formano e si tramandano memorie collettive e immaginari comuni, dando vita a opere e soprattutto a gesti di decostruzione della visione e della sua presunta innocenza, con la libertà e il coraggio di superare i confini – delle idee di fotografia, di immagine, di documento e di racconto – e di farsi attraversare dai confini del mondo.