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Dal 2 al 23 maggio 2016 si è svolta in Molise la prima edizione di Flâneur, un progetto di residenza per artisti nato da una costola di Vis à Vis – artists in residence project, il programma ideato dall’associazione culturale Limiti inchiusi arte contemporanea di Campobasso.
A differenza di Vis à Vis – che pratica le sue residenze nei piccoli paesi molisani – Flâneur è stato realizzato negli spazi della Fondazione Molise Cultura, attualmente l’unica istituzione culturale della regione. La Fondazione – che ha inaugurato le sue sale espositive nel 2013 con una mostra dedicata all’artista di origini molisane Gino Marotta – gestisce regolarmente eventi dedicati alla cultura, spaziando dalle arti visive al teatro, dalla musica alla promozione letteraria. Sede della Fondazione è il Palazzo della ex-GIL, una struttura di architettura fascista che fu sede delle attività della locale Gioventù Italiana Littorio. Il complesso, recuperato di recente, è stato immaginato come un polo di attrazione per la città capoluogo, un vero e proprio centro multimediale dotato di sale per convegni, proiezioni, rappresentazioni, punti di informazione e divulgazione, in una struttura rappresentativa della regione a livello non solo territoriale, ma anche nazionale ed internazionale.
Alla luce della mission della Fondazione, l’associazione culturale Limiti inchiusi (impegnata da oltre vent’anni nella promozione dell’arte contemporanea in Molise) ha immaginato un progetto da dedicare esclusivamente ad essa, un’idea che si inserisse nell’ambito della formazione e che fosse in grado di incoraggiare le istituzioni culturali regionali anche nella direzione dei linguaggi contemporanei. Flâneur si è concretizzato alla luce dei più attuali schemi di produzione e divulgazione dell’arte che presumono attività di cooperazione, contributo attivo e coralità ideativa allo scopo di reinterpretare l’immagine standardizzata dell’istituzione museale. La Fondazione Molise Cultura ha incrementato, dunque, le sue capacità supportando l’artista nella sua ricerca teorica e pratica, divenendo un vero e proprio centro di produzione creativa.
Per questa prima edizione di Flâneur – che prevede almeno altre due annualità – gli ideatori hanno selezionato un artista internazionale, il giapponese Satoshi Hirose. Hirose ha avuto a disposizione uno spazio all’interno del Palazzo ex-GIL che ha utilizzato come luogo di lavoro, studiando la storia, gli usi e i costumi del Molise, incontrando i curatori e ricevendo occasionalmente ospiti interessati. Una serie di visite guidate nei luoghi più caratteristici della regione, unitamente ad attività laboratoriali in loco, hanno completato l’iter della residenza che si è conclusa con la realizzazione di un’opera, a firma di Hirose, ispirata alla terra che lo ha ospitato. Il lavoro è di proprietà della Fondazione Molise Cultura ed è entrato a far parte del patrimonio della stessa, trovando contestualmente una sua collocazione all’interno degli spazi del Palazzo ex-GIL.
Il progetto – ideato dall’associazione culturale Limiti inchiusi di Campobasso e finanziato dalla Fondazione Molise Cultura – è stato curato da Silvia Valente e Matteo Innocenti. Di prossima pubblicazione il catalogo edito da Limiti inchiusi.
Silvia Valente
Segue un testo del curatore Matteo Innocenti —
Flâneur | Satoshi Hirose, L’esercizio di uno sguardo alternativo
Satoshi Hirose, artista giapponese ma che possiamo definire cosmopolita – poiché oltre all’assidua frequentazione dell’Italia, tuttora risiede a Milano, numerosi sono i suoi spostamenti tra i vari paesi del mondo – nel tempo ha sviluppato una ricerca artistica originale basata su differenti modalità espressive, dall’installazione alla scultura, dalla fotografia alla pittura, fino all’azione partecipata. La nota specifica e costante è il ricorso agli elementi della quotidianità e la loro ricombinazione in forma inconsueta, così da stimolare possibilità ulteriori di confronto tra noi e questi; dunque un processo che amplia la portata significativa delle cose comuni, fino a renderle indice di impreviste e più ampie interrelazioni: per esempio tra la componente materiale e spirituale dell’uomo, tra la stabilità ideale e l’impermanenza effettiva dei fenomeni, tra le demarcazioni del naturale e dell’artificiale, tra gli accadimenti nelle scale del micro e del macrocosmo. Fattori vari, ricompresi per via di sintesi dall’ampio concetto della deterritorializzazione: nell’accezione più generica di superamento cosciente della localizzazione storica, geografica e sociale di un dato territorio, e in quella più articolata per cui tale processo, rappresentativo della stessa pratica filosofica, risulta quale stadio intermedio, fruttifero e necessario nell’emersione di nuova consapevolezza.
Hirose in effetti pone in atto l’esercizio di uno sguardo alternativo, che non consideri con fissità alcun limite o confine di sorta. Da qui anche l’importanza del viaggio, di quello biografico a soddisfazione di una tendenza al nomadismo, e di quello d’immaginazione originato e reso condivisibile proprio dall’opera d’arte. Ne consegue una dimensione di continue ambivalenze, il cui obiettivo non vuole essere una dispersione discrezionale, ma la comprensione profonda – quindi il rispetto – dei punti di incontro e di differenza tra le culture umane, già al livello dell’ordinario; con le parole di Hirose «La banale dimensione quotidiana dell’esistenza, dove si ritiene non si dia mai nulla di nuovo, è in verità un mondo pieno di stimoli. Riproducendo e rimodulando i piccoli fatti della vita di ogni giorno, ci appare la ricchezza insospettata di questa dimensione dell’esistenza umana».
Il viaggio all’interno del Molise è venuto configurandosi per l’artista come una continua scoperta, a partire da Campobasso, con il passaggio costante da piccoli centri abitati – ognuno forte di una propria storia – a zone di natura, da queste ad altri centri ancora. Procedendo verso il mare Adriatico si incontrano Casacalenda, Larino, Termoli, più prossimi al capoluogo Ferrazzano, Oratino, Limosano, verso la montagna Pietracupa, Pietrabbondante, Agnone, Capracotta, Pescopennataro. Sono soltanto alcuni dei toponimi, non potendoli citare tutti, ma conta l’impressione d’insieme: l’artista lungo questo percorso decisamente scandito, da luogo a luogo, da identità ad identità, ha infine immaginato proprio la visione di un arcipelago. Che certo non vuole essere una descrizione aderente, piuttosto un’evocazione dei rapporti di identità e di opposizione che la definizione ha insiti in sé: nella sostanza ci si riferisce a quella distanza che allo stesso tempo unisce e separa terre varie.
Così l’opera di Hirose ci restituisce un’immagine insieme poetica e concreta del territorio che lo ha ospitato. Untitled (13 cerchi) consiste di una serie di cerchi di acciaio, tredici per l’esattezza, inclusi gli uni negli altri seguendo un particolare ritmo e leggermente sollevati dal livello del suolo.
Sappiamo il cerchio avere una quantità notevole di significati, attribuitigli nel corso storico dalle varie culture mondiali. In generale sta a simbolo della perfezione, dell’omogeneità, di infinitezza e di assenza di divisione e di distinzione; se in Occidente esso è venuto rappresentando anche l’emanazione che dal divino giunge all’umano, in Oriente ha avuto uno sviluppo specifico nella pratica della calligrafia, Ens? infatti è una rappresentazione immediata della forma la cui esecuzione corrisponde al ritratto spirituale dell’autore. Nel caso di Hirose il cerchio conta non per un senso esclusivo, all’opposto per il suo darsi come catalizzatore di tanti motivi: potremmo dire che vale in quanto forma “aperta”, capace di prestarsi alle diverse interpretazioni degli osservatori – anche quella, suggerita dalla circonferenza che avvolge l’albero di magnolia, che riguardi il legame affettivo sorto tra l’artista e la regione.
L’installazione, che mantiene un forte carattere scultoreo, componendosi di più elementi identici ma variati nella dimensione, propone la questione del centro e della sua relatività almeno ad un doppio livello.
Internamente le forme pur in sé concluse rimandano a una reciprocità di relazioni. La completa percezione, che si compie costantemente entrando ed uscendo dall’opera, sancisce l’impossibile determinazione di un solo centro. Ed indicare questo – che ogni punto costituisce una centralità – equivale al riconoscimento della pari importanza e della pari dignità di tutte le posizioni: di più, si suggerisce che una tale attitudine è addirittura necessaria alla piena comprensione della realtà. Ugualmente vale per un territorio. Affinché gli abitanti riescano a intenderne l’insieme dei caratteri, e affinché questi vengano recepiti anche da fuori, c’è bisogno primariamente di riconoscere tutti i i legami che vi agiscono e favorire un loro armonico equilibrio.
Esternamente l’installazione offre l’opportunità di un punto di vista variabile; dall’alto le circonferenze descrivono un disegno d’insieme più riconoscibile – forse la stilizzazione di due volti, uno in dialogo e l’altro in ascolto – a suggerimento dell’importanza di mantenere sempre lo sguardo in stato attivo e creativo, per non perdere alcunché della ricchezza di quanto si offre a noi. L’artista si avvale della qualità dimensionale, dovuta in considerazione della grandezza dell’edificio e del piazzale scelto come luogo d’esposizione, senza compromettere la leggerezza che sempre caratterizza le sue opere: i cerchi sono come sospesi, generando un’ombra di rilievo sul pavimento sottostante. La composizione è in stato di equilibrio, tra la solidità fisica della materia installata e la levità di una figurazione che potenzialmente potrebbe sempre mutare.
A corrispettivo “effimero” delle note presenti in Untitled (13 cerchi), l’artista ha inoltre sviluppato un percorso di opere nello stesso numero dei cerchi, collocate all’interno del Palazzo Ex Gil, in luoghi che non hanno una specifica valenza funzionale e che dunque devono come essere ri-scoperti. Le materie utilizzate sono conseguenti all’esperienza di residenza o derivano da altri lavori presentati in passato: resti di carta gualciti a creare piccoli mondi, sassi uniti da un filo o accumulati al bordo di una finestra, bastoni di bambù recuperati e sospesi in alto, terracotta impressa con le mani a “registrazione” del proprio sentire, pasta alimentare a formare una costellazione, un’ampia documentazione fotografica di quanto visto ed esperito nel periodo di permanenza e così via. Ne emerge un contesto ricco, mirato alla condivisione, che pur nella propria autonomia estetica e poetica diviene testimonianza progressiva del processo che ha condotto alla realizzazione dell’installazione definitiva.