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Intervista con Manuele Cerutti | QUEM GENUIT ADORAVIT, Collezione Maramotti

In occasione della sua mostra QUEM GENUIT ADORAVIT, abbiamo intervistato Manuele Cerutti in merito al nuovo corpus di dipinti e opere su carta ospitato alla Collezione Maramotti fino al 18 luglio 2024.
Manuele Cerutti QUEM GENUIT ADORAVIT veduta di mostra Collezione Maramotti, Reggio Emilia Ph. Roberto Marossi
Manuele Cerutti QUEM GENUIT ADORAVIT veduta di mostra Collezione Maramotti, Reggio Emilia Ph. Roberto Marossi

Elena Bordignon: La serie di opere in mostra alla Collezione Maramotti, approfondisce una tua recente esperienza, la paternità. Pensare alla genesi dell’essere umano, e in particolare, a un proprio figlio, credo che sia una delle esperienze più intense e irripetibili che una persona possa fare nella propria vita. Hai deciso di raccontare questa tua ‘avventura’ autobiografica, attraverso i tuoi quadri. In che modo o attraverso quale prospettiva hai iniziato questa narrazione?

Manuele Cerutti: La serie di opere che presento alla Collezione Maramotti, attinge sì alla mia vicenda autobiografica della paternità, ma senza esserne la cronaca. Difficile dire come sia iniziata veramente. Quel che ricordo di quei primissimi tempi (ma credo sia frequente in casi simili) è la sensazione di essere ‘ingombrante’, e di dover cercare una condizione che ti permetta di stare alla giusta distanza e coinvolto al contempo, mentre guardi, con occhi impreparati, un fenomeno che sempre stupisce: la nuova vita. Con le tante emozioni che si contraddicono, la bellezza del bambino e la sua piccola dimensione, che viviamo come fragilità; e poi la possibilità di eventi dolorosi. Una compresenza di forza vitale e debolezza, che solo dopo ti viene in mente potrebbero essere tra gli indicatori della creatività: il sentimento verso il bambino non arriva di colpo ma lentamente. In quel primo periodo ho fatto molti disegni, spesso improvvisi e su carta recuperata, con strane associazioni tra un suono, un odore, un piccolo respiro. E molti appunti su uomini delle Origini, e vegetali. E fa parte del progetto, dei suoi inizi, anche il sonno. Il sonno infantile, all’inizio, e poi subito nelle sue proiezioni future. Che sono del resto presenti in molte opere pittoriche o letterarie antiche, e quasi sempre si accompagnano a eventi straordinari.
Nella pittura rinascimentale, ad esempio, sembrerebbe che lo stato di sonno, ritratto in alcune opere in piena luce diurna – talvolta così innaturale da potersi paragonare alla morte – renda incapaci di agire i soggetti colpiti. E’ un motivo che ho cercato di approfondire, a lungo disegnando posture di figure raggiunte dal sonno, e che tuttavia restano quasi in attesa.
In Tutte le mani dormono, il sonno è toccato anche agli oggetti, e diventa oggetto una figura raggiunta dal sonno, con le gambe distese a conquistare una parte sicura della poltrona di fronte, come a formare la campata di un ponte. Il fagotto che avvolge amorevolmente la sua gamba, come meglio diremo, evoca una crescita, una nascita eccezionale, che racconta a suo modo l’urgenza che una nuova vita ha di apparire.

EB: Mi spieghi come nasce il titolo della mostra, QUEM GENUIT ADORAVIT – “Adorò colui che generò”?

MC: Nasce dall’incontro avvenuto con l’affresco della Madonna della Ghiara, conservato presso l’omonima Basilica di Reggio Emilia, sorta proprio intorno all’opera – un’ immagine famosa per essere mediatrice di miracolose guarigioni.
Il motto “quem genuit adoravit” sta scritto sulla cornice. L’ambiguità, che la traduzione volutamente letterale aggiunge (Adorò colui che generò), suscita immediatamente la domanda: chi è l’adorante e chi l’adorato? Quando nasce un figlio, contemporaneamente nasce anche un genitore, ogni nascita è doppia.  Il quadro e il suo titolo sono stati dunque come un’apparizione che, a mano a mano che il progetto è andato avanti, si è precisato come motivo ispiratore. Inoltre, anche l’iconografia di quest’opera è eloquente. È raro, a mia conoscenza, che la Madonna sia collocata, come qui, a sinistra del bambino e raffigurata in un gesto di adorazione, a mani giunte verso di lui. 

Manuele Cerutti QUEM GENUIT ADORAVIT veduta di mostra Collezione Maramotti, Reggio Emilia Ph. Roberto Marossi
Manuele Cerutti Spezzare l’incantesimo (ponte con furetto) 2023 matita e acquerello su carta 19,6 x 28,7 cm © Manuele Cerutti Courtesy the Artist and Guido Costa Projects Ph. Cristina Leoncini

EB: Nella tua recente iconografia il corpo umano è rappresentato come fosse una pianta i cui arti, come fossero rami, si sdoppiano o assumono strane forme. Dove è nata questa analogia tra il corpo e le piante?

MC: Sì, in effetti l’analogia di cui parli con le forme delle piante è presente, la semplice intuizione di uno sviluppo verso il mondo vegetale. Il mio lavoro precedente era orientato al corpo umano, qui i due regni sono con-presenti. L’opera che ha dato avvio a tutto ciò è Motus Naturalis (2018), con cui cercavo di rappresentare singole parti del corpo attribuendo loro un’esistenza bastante a sé stessa – sganciata cioè da un servizio motorio dettato da un corpo (organo) superiore; un ipotetico movimento originario che risponde a una nozione di tempo sospesa. Un racconto di piedi che non sono la carrozza del corpo, servono soltanto a portare se stessi, obbediscono solo alla propria soggettività. Se accettiamo che ogni parte del corpo possieda un propria identità, dunque, un corpo sarà un soggetto collettivo. Ebbene, la pianta è l’immagine che, per conformazione fisica, più si presta all’evocazione del concetto di soggetto collettivo. Ancora, l’immagine del soggetto a più membra può rievocare una difformità da leggere come dono. La Virtù di un essere ‘originario’, non conforme alla norma, dove le parti che lo compongono non rispondono ad un ordine, ma ad un caos in cui neppure la necessità opera; ciò è molto vicino per assonanza all’uomo primordiale descritto nel mito di Aristofane raccontato nel Convito di Platone. Nell’opera La Traversata, ad esempio, braccia e gambe sono in numero superiore, come remi di un nocchiero d’oltremondo che seguitando nella sua traversata ci mette a conoscenza del suo prezioso carico.
Tornando alla tua domanda, credo che questa analogia fra il corpo e le piante sia nata nell’orto di casa: ho passato molto tempo in questo luogo assieme a mio figlio. Mi è capitato a un certo punto, mentre ero con lui, di fare una margotta ad un ramo di pero, – un elemento che è stato ripreso nei lavori della mostra. La margotta è una tecnica di riproduzione agamica, impiegata in agricoltura, che consente di clonare la pianta madre per ottenere un nuovo esemplare. Ossia, un ramo ancora attaccato alla pianta madre viene portato a generare nuove radici incidendolo, scortecciandolo e racchiudendolo, con torba e terriccio, in un telo di plastica scura, legato a formare un manicotto. Il ramo verrà successivamente separato dalla pianta madre e poi messo a dimora. Tutto questo per dire che per me la margotta ha significato un feto che cresce all’interno di una membrana, dovunque essa sia. Incidentalmente, la pianta è molto vicina al bambino, per velocità del tasso di crescita (il bambino raddoppia di peso in poco tempo). E poi ci sono stati altri insegnamenti, non so quanto di essi sia entrato in questi lavori. Un incrocio di senso del tempo diverso, molteplice. Crescite lente contro crescite repentine, attese incerte, nuove acquisizioni, tutto ciò mi sembra suggerisca l’idea di aggiungere come coltivare e non come acquistare.

EB: C’è una tua espressione che mi piacerebbe approfondire: hai definito la pittura l’“impronta continua del fare”. Cosa intendi e come sei arrivato a questa consapevolezza?

MC: La pittura non è solo un fatto di maturazione del linguaggio, tecnico e del pensiero: è evidente che continuando ad esercitarsi e praticarla si migliora, anche molto. Pertanto, ad ogni stagione della vita, penso si possa metaforicamente considerare la pittura come quello slancio necessario ad un corpo che, cadendo su di una superficie, imprime una traccia, per poi rimbalzare e riprendere slancio per una seconda e necessaria caduta. Fare, dunque, è soggetto a giudizio anche se risponde ad un bisogno. Nel seguitare a rispondere a questo bisogno, contribuiamo a quella pratica cumulativa (accumulo) che chiamiamo pittura. L’ inventario del fare è ricco e anche l’occhio ne fa parte.
Fare in pittura, talvolta si maschera da immobilità esitante, una tensione, all’opposto un lento e quasi impercettibile procedere per piccoli avanzamenti o arretramenti. Non vi sarebbe impronta senza distacco, tuttavia, la pittura supera la matrice stessa che la genera. Come ci ricorda Plinio, dei viperotti dentro il corpo della madre, impazienti di nascere, ne dilaniano il corpo per venire al mondo.

Manuele Cerutti QUEM GENUIT ADORAVIT veduta di mostra Collezione Maramotti, Reggio Emilia Ph. Roberto Marossi
Manuele Cerutti L’operazione 2022 matita e acquerello su carta 17,2 x 22,6 cm © Manuele Cerutti Courtesy the Artist and Guido Costa Projects Ph. Cristina Leoncini

EB: Uno degli aspetti che mi hanno sempre interessato del tuo ‘fare’ pittorico sono le velature e le cancellazioni. Interruzioni o ripensamenti, sdoppiature o negazioni, come motivare queste tracce pittoriche che rendono le immagini misteriose e a volte inspiegabili?

MC: Lo stato di apparente incompiutezza, come anche in altri lavori, è un modo per tenere ‘sotto controllo’ la narratività della rappresentazione. A volte, procedere oltre nella definizione di una parte, al servizio di un ideale tutto integrato, può compromettere anche la vitalità dell’opera.
Sono tracce che hanno valore di quasi-ripensamenti. Quasi, perché raramente arrivo a negarle, ciò per lasciare spazio alle altre strade possibili. Tendo quindi ad integrarle con le nuove possibilità che vi si intrecciano e ponendo come percorribili tutte le vie. È plausibile, peraltro, per chi osserva, ritenere non necessaria alcuna delle traiettorie presenti. Vi è un momento in cui, naturalmente, il ripensamento cessa, anche se non sempre nel momento giusto.
Il quasi-ripensamento vive nell’intenzione del finito di un’opera. È un’immagine dello sdoppiamento del pensiero. Anche i pensieri, sono parte del tessuto della realtà, enti a tutti gli effetti reali, anche se non rispondono ad una schietta realtà fisica. La pittura, come altre attività umane, è immersa in questo ibrido elemento – fatto di realtà immateriale e materiale.
La tela non è mai un supporto neutro, bensì una componente del lavoro che custodisce tutti i sentieri tracciati, e ciò che visivamente appare come cancellato, velato, incerto, porta con se anche le possibilità di un prossimo affioramento.
Sempre per le ragioni spiegate nella prima risposta, la scoperta della gomma (per il bambino) svolge una funzione che sembra analoga o dello stesso tipo dei ripensamenti, nel senso che la sua presenza facilita il ripensamento. La cancellazione è infinitamente più modulare, spezzabile in tante parti, più maneggiabile. Spezza il lavoro in unità più piccole. Tuttavia, la correzione non è spontanea, da essa nasce il dubbio. All’inizio, quando il bambino scopre il disegno, il segno è ancora scevro da malizia e virtuosismo e mi pare essere la cosa più vicina al reale che si possa immaginare.
Il bambino tende all’intero, ogni suo singolo disegno è come una monade, autosufficiente, una compresenza interna di mondi. Con la scoperta della gomma si innesca la conservazione di alcune parti, inizia l’ordinamento e la gerarchia, una forma elementare di vigilanza della rappresentazione, che fino a quel punto non prevedeva parti.
Il disegno di un bambino va avanti come una corrente senza diramazioni, senza dubbi sopraggiunti. La scoperta della gomma è controversa e fatale, spezza questo flusso, …

Manuele Cerutti
QUEM GENUIT ADORAVIT
10 marzo – 28 luglio 2024
Collezione Maramotti, Reggio Emilia

Manuele Cerutti Spiazzo vuoto pieno di luce 2023 matita e acquerello su carta 13,5 x 19,5 cm © Manuele Cerutti Courtesy the Artist and Guido Costa Projects Ph. Cristina Leoncini