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Il titolo prende ispirazione da un insetto acquatico dalla vita brevissima, l’Ephemera, ma i temi trattati sono tutt’altro che ordine biologico o riferiti all’entomologia. I due curatori Fulvio Chimento e Luca Panaro, curano un progetto espositivo dal taglio sperimentale dedicato alla New Media Art, grazie alle ricerche di quattro artisti: il duo che lavora a New York, Eva e Franco Mattes, l’artista di La Spezia Carlo Zanni e Diego Zuelli di Reggio Emilia. Sperimentatori e, a loro modo innovatori, questi artisti utilizzano gli apparati tecnologici in modo fortemente innovativo: contaminando internet, video e performance con i Mattes, sperimentando nuove forme di arte contemporanea, spesso contraddistinte dall’utilizzo di dati prelevati in tempo reale dalla rete come Zanni o lovorando con video e computergrafica come Zuelli.
La mostra, ospitata al MATA – Manufattura Tabacchi Modena, fino al 22 maggio, prevede una serie di incontri: Sabato 30 aprile 2016 ore 18 – Arte e New Media, presentazione del catalogo EFFIMERA – Relazioni disarmoniche (APM Edizioni, Carpi, 2016). Intervengono Carlo Zanni e Marco Mancuso, critico e curatore nel campo delle tecnologie digitali, fondatore e direttore della rivista on-line Digicult. Venerdì 13 maggio ore 18 Performance e confini fisici del web, Eva e Franco Mattes dialogano con Fulvio Chimento, Luca Panaro e il pubblico del MATA.
Segue l’intervista con i curatori.
ATP: Non senza ingenuità, le Accademie e le Università ci insegnano che di effimero, nelle opere d’arte, c’è la materia di cui sono composte, ma anche la storia di cui esse fanno parte: breve e sfuggevole come le teorie e le ‘mode’ che mutano con il cambiare dei tempi. Quelle che proponete con il taglio di ‘Effimera – Relazioni Disarmoniche’ è un altro tipo di brevità , quella espressiva. Al mutare dei supporti digitali, mutano anche le ‘forme’ delle opere stesse. Mi spiegate in cosa consistono le ‘relazioni disarmoniche’?
Fulvio Chimento e Luca Panaro: La lettura dell’opera non è sempre il frutto di un insieme coerente di dati e di sensazioni percettive, ma è piuttosto la condensazione di significati contraddittori e dissonanti. Per comprendere i lavori di artisti che utilizzano con sapienza i differenti linguaggi dell’arte, soprattutto quelli tecnologicamente più avanzati, bisogna innanzitutto rintracciare le relazioni che coinvolgono le singole componenti dell’opera con il suo intero corpo. Questo tipo di analisi, che muove “dal particolare all’universale”, non conduce sempre ai risultati sperati, esistono, infatti, precise problematiche interpretative per l’osservatore: la conoscenza teorica dei mezzi utilizzati dagli artisti, oltre alla tendenza innata della mente umana nel ricercare valori stabili in ciò che è visibilmente manifesto. Una volta individuate le relazioni possibili tra le parti di un’opera, però, non dobbiamo illuderci di averne compreso a pieno il senso: le connessioni possono essere state volontariamente determinate dall’artista in disarmonia o in contrasto tra loro. Ogni indicazione va letta nell’ottica di una potenziale ambivalenza segnica, sia che la struttura complessiva dell’opera miri a “nascondersi” oppure a lasciarsi scoprire.
ATP: Avete invitato artisti – Eva e Franco Mattes, Carlo Zanni e Diego Zuelli – molto diversi tra loro ma accomunati dal fatto che sono nati tutti nello stesso periodo e utilizzano un apparato tecnologico fortemente innovativo. Mi raccontate brevemente gli aspetti più innovativi che caratterizzano la mostra?
FC / LP: Effimera evidenzia le problematicità e la dipendenza fisica e mentale tra l’uomo e la “macchina”. La specificità della mostra sta nel modo in cui gli artisti riescono a utilizzare gli strumenti tecnologici per fini artistici. Effimera è una mostra interattiva non perché il visitatore ha un rapporto tattile con l’opera, ma perché le opere stesse attingono a un repertorio di dati e di immagini già esistenti sul web, e quindi già potenzialmente condivisi con l’immaginario reale e virtuale del visitatore. Tra gli artisti scelti per Effimera chi beneficia maggiormente della tecnologia è Diego Zuelli. I suoi lavori, infatti, sono realizzati utilizzando sofisticati programmi di computer grafica 3d, che gli permettono di ottenere risultati di forte impatto scenografico. È il caso di 8 minuti luce, lavoro realizzato appositamente per la mostra al MATA, il cui titolo si riferisce al tempo impiegato dalla luce per irradiarsi dal Sole e raggiungere la Terra. Zuelli sembra voler ricostruire quella dimensione ipnotica di cui è vittima lo sguardo nel momento in cui entra in relazione con un media, un apparente “abbandono visivo” che sottende uno scambio di informazioni e di dati, sotterraneo ma continuo.
ATP: Mi portate degli esempi di artisti – anche non in mostra – definibili “‘quasi-hacker’, che amano giocare con le regole della comunicazione, sfruttando anche i minimi errori dei sistemi operativi” (Fulvio Chimento dal catalogo mostra Effimera)?
FC / LP: Per esempio gli [edipemiC], che hanno collaborato anche con Eva e Franco Mattes (0100101110101101.ORG), insieme nel 2001 diffusero il virus Biennale.py durante la 49esima Biennale di Venezia. Nello stesso anno Marcelo Gavotta & Oliver Kamping realizzarono la bufala mediatica più famosa degli ultimi anni, che coinvolse Giancarlo Politi. I due, fingendosi Oliviero Toscani e intrattenendo con Politi un rapporto esclusivo tramite e-mail, riuscirono a farsi affidare dal direttore di Flash Art la curatela di uno dei padiglioni della Biennale di Tirana. Il vero Oliviero Toscani scoprì il tutto solo quando, una volta terminata la Biennale, gli venne recapitato in studio il catalogo della mostra.
Effimera ospita un’opera che riflette questo approccio, ma in termini marcatamente artistici: The Others (2011) di Eva e Franco Mattes. Il duo proietta 10.000 immagini, rubate dai pc di persone casuali grazie a un errore del software, nella sequenza in cui erano state archiviate dai proprietari nei loro computer. Lo scorrimento incessante delle immagini ci fa entrare lentamente nella vita di centinaia di persone, nelle loro stanze, nelle loro quotidiane attitudini. Inizialmente percepiamo le immagini come una messa in scena del “diverso da noi”, mentre con il passare dei minuti e degli scatti iniziamo a scorgere qualcosa di noi negli altri, e il giudizio su questo mondo sembra ricercare una “sospensione”, fino a renderci conto che le immagini raccontano anche di noi: osserviamo quella che può essere la nostra vita scorrere in modo imperfetto nel flusso della contemporaneità.
ATP: “Con Internet il significato di ‘originalita?’ si svuota di senso, ogni file e? riproducibile senza che venga meno la qualita?, e ogni copia e? identica all’originale.” Questo concetto sembra scontrarsi con il concetto di opera d’arte stessa, ossia mina il costrutto dell’’unicità’. La “digitalizzazione dell’arte” sotto molti punti di vista porta alle estreme conseguenze molti dei processi innescati dalla produzione e riproduzione meccanica dell’arte studiati da Walter Benjamin. E’ passato quasi un secolo dagli scritti del noto scrittore. Quali sono, a vostro parere, le prospettive aperte dalle nuove tecnologie in relazione a questi ragionamenti?
FC / LP: Il concetto di unicità non è più un problema dell’uomo contemporaneo, chi insiste anacronisticamente su questo discorso è soltanto il sistema dell’arte, i cui canali distributivi non sono stati aggiornati ai cambiamenti odierni. Le nuove tecnologie sono ormai alla portata di tutti, ma non basta utilizzarle allo scopo per cui sono state progettate, si sente la necessità di andare oltre. All’artista il compito di servirsene come detonatori di esperienze e strumenti di riflessione sui tempi che stiamo vivendo. Superata la sconfitta nei confronti dell’unicità dell’opera, all’uomo contemporaneo spetta l’accettazione della sua fugacità. La ricerca artistica oggi produce esperienze più che oggetti, dunque qualcosa di mutevole, impalpabile, di breve durata. Oggi proviamo un’esperienza, domani non più. Dell’esperienza rimane l’oggetto. Questo può essere museificato, numerato, firmato. Ma è la componente esperienziale offerta dalle tecnologie la vera opera. I musei dovrebbero favorire la riproduzione dell’esperienza non soltanto la visione dell’opera da essa generata. Le tecnologie ci mettono di fronte a queste problematiche, non sempre “nuove”, ma di certo potenziate e condivise rispetto a un tempo. Sta a noi coglierle e assecondarle.
ATP: Nel saggio in catalogo, Luca Panaro cita delle opere frutto di interventi che ‘disturbano’ o manomettono alcune logiche o funzionalità dei supporti digitali. In breve mi raccontate qualche esempio? Perché gli artisti sono attratti dall’azione di sabotare le tecnologie digitali?
FC / LP: I dispositivi che utilizziamo sono un’arma a doppio taglio. Da un lato consentono un’estrema libertà di azione, dall’altra però inducono un atteggiamento assertivo nei confronti di certi messaggi. Uno dei lavori di Carlo Zanni esposti a Effimera, per esempio, consiste in un’App per iOS6 programmata per nascondere la casella di posta elettronica VIP di un iPhone, quindi per ostacolare in qualche modo il cattivo insegnamento di cui il mezzo si fa interprete (Vagabonds In Power, 2013). Gli artisti sono attratti da queste piccole azioni di sabotaggio più che altro come campanello d’allarme nei confronti di una società che tende a indurre a ognuno di noi le stesse esigenze, per poi soddisfarle allo stesso modo. Quella dell’artista è rimasta l’ultima categoria da cui ci si può aspettare una presa di distanza (seppur silente) che scuota le coscienze rispetto a quello che sta accadendo. Sempre parlando di Zanni e di un lavoro esposto per la prima volta al Mata, il progetto online che mostra con insistenza e frustrazione soltanto l’icona di Shockwave Flash; un iPad cerca invano di visualizzare il contenuto di pagine per cui però non è stato abilitato. L’opera è una metafora della situazione attuale, allude all’impossibilità di replicare atteggiamenti e stili di vita precedenti, ormai obsoleti, attribuendo alle nuove generazioni un ruolo cruciale contro le sterili ripetizioni del sapere (Deny Thy Father & Refuse Thy Name, 2016).
ATP: Sempre in catalogo, è citato il filosofo coreano Byung-Chul Han: «oggi ci inebriamo del medium digitale, senza essere in grado di valutare del tutto le conseguenze di una simile ebbrezza. Questa cecita? e il simultaneo stordimento rappresentano la crisi dei nostri giorni». Che Pensiero avete in merito? Non è un po’ troppo negativa come sentenza?
FC / LP: Non crediamo sia così eccessiva come considerazione. Certo, i toni duri e perentori del gergo filosofico possono sembrare troppo negativi. Ma ben venga un po’ di sana critica controcorrente rispetto all’eccessiva (quella sì) accondiscendenza di certi ambienti artistici. La storia insegna come le visioni più lucide sulle dinamiche della propria contemporaneità provengano da pessimisti cronici, che dal loro particolare osservatorio si sono resi impermeabili a ciò che gli accadeva intorno, pur osservando il mondo con attenzione. Byung-Chul Han, come altri pensatori del nostro tempo, insistono sulla scarsa consapevolezza di chi utilizza le tecnologie. È lì che si annida il maggiore pericolo dell’epoca contemporanea. Finita l’esaltazione dei “mi piace”, che cosa rimane? Stiamo parlando dell’homo digitalus, parte di uno “sciame” tecnologico di cui non si conosce la destinazione e il fine. L’artista, come il filosofo e l’antropologo, deve essere un generatore di consapevolezza, a costo di veicolare un po’ di negatività.