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Disappearing Objects – Louis De Belle, Jordan Hruska

Testo di Nicolò Ornaghi e Pietro Bonomi — Lo scrittore milanese Giuseppe Pontiggia una volta ha detto che «il libro è l’oggetto perfetto». Anche Umberto Eco lo ripeteva spesso. Intendevano dire forse molte cose allo stesso tempo, ma di certo, al...

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Testo di Nicolò Ornaghi e Pietro Bonomi —

Lo scrittore milanese Giuseppe Pontiggia una volta ha detto che «il libro è l’oggetto perfetto». Anche Umberto Eco lo ripeteva spesso. Intendevano dire forse molte cose allo stesso tempo, ma di certo, al livello più concreto, stavano affermando all’incirca che il design del libro, nella sua struttura fondamentale, non è migliorabile, non è alterabile senza diventare qualcosa di diverso da quello che è. Può essere declinato, esplorato, ma non «sfondato», non trasfigurato.
Disappearing Objects di Louis De Belle e Jordan Hruska, edito da Bruno, da questo punto di vista si situa al limite. Il breve racconto di Hruska, posto per così dire «in primo piano» come superficie manifesta, nasconde le fotografie di De Belle che, per via della particolare rilegatura francese chiusa sul lato alto, si possono solo «sbirciare» con difficoltà e non appaiono a un primo spoglio del libro. Ritraggono una serie di oggetti bizzarri e vagamente respingenti, avulsi da qualsiasi contesto e perciò di difficile interpretazione per chi non appartenga alla ristrettissima cerchia di prestigiatori e produttori specializzati che sono soliti maneggiarli. Si tratta infatti di piccole «protesi» e gadget di cui si servono i professionisti della prestidigitazione per i loro spettacoli illusionistici. Libro di narrativa illustrato? Libro di fotografia con testo a commento? Niente di tutto questo.
Il testo di Hruska e le fotografie di De Belle non si rapportano secondo un criterio didascalico. In mancanza di termini di paragone più evidenti, Disappearing Objects potrebbe forse ricordare Glas, libro-esperimento di Derrida del 1974, in cui su due colonne sono stampati due testi diversi, privi di un legame esplicito tra loro, costringendo il lettore a una perplessità e a un’interrogazione sulla modalità di «utilizzo» dell’oggetto-libro, simile alle spontanee domande sulla possibile funzione degli strumenti «magici» visibili nelle immagini. In tal senso il libro è «leggibile» a sua volta come un gadget magico, come un finto/vero libro che intrattiene un rapporto illusionistico con la tradizionale fruizione di un testo di narrativa o di un libro di fotografia.

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Nell’operazione tuttavia non c’è traccia di sperimentalismo, arbitrarietà, volontà di stupire. La pubblicazione è improntata in ogni sua parte a un incrollabile rigore formale: nei canoni del design, nella struttura e in ogni dettaglio. Un simile dispositivo formale discende direttamente dal patto d’onore del fotografo con la comunità di persone grazie alla cui disponibilità ha potuto sviluppare il progetto. L’illusione è una cosa seria, difficile da maneggiare senza lasciarla svanire. Corre alla mente il caso dell’artista americana Taryn Simon che, in un suo lavoro del 2007, An American Index of the Hidden and Unfamiliar, ha fotografato un’antologia di luoghi inconsueti e per varie ragioni anch’essi nascosti o inaccessibili ai più: zecche di stato, piantagioni di cannabis, copertine di Playboy in braille, interni del quartier generale della CIA, siti di stoccaggio di scorie radioattive, valanghe controllate, punti di arrivo di cavi di trasmissione oceanica, sedi del Ku Klux Klan. Simon ha avuto accesso a spazi su cui gravavano vincoli di segretezza di ordine politico, militare, di sicurezza, ostacoli fisici e normativi. Curiosamente, solo una location è rimasta da ultimo inaccessibile: un parco a tema della società Walt Disney. La posizione della direzione del parco, ha raccontato l’artista, è stata irremovibile: l’immagine fotografica compromette, minaccia, rischia di spegnere l’immaginazione. Un parco a tema vive della sorpresa che genera nel visitatore e l’illusione perde di potenza se viene anticipata e svelata. Per sfuggire a questo rischio, e sottraendosi consapevolmente a una certa spietatezza del disvelamento, De Belle si è impegnato a ricercare una forma che permettesse alle immagini di esistere nella realtà, ma al contempo di mantenersi virtualmente inaccessibili, tenendo fede all’accordo che ha portato il fotografo ad accedere agli strumenti dei prestigiatori: non svelarne il segreto.

Un lavoro durato circa due anni e che ha previsto la frequentazione diretta di prestigiatori, negozi, collezionisti del settore e infine la selezione di 32 soggetti. La rappresentazione seriale degli oggetti, fotografati in studio, avviene su uno sfondo neutro e con caratteristiche fotografiche standardizzate, come in un catalogo in still life. De Belle ha accuratamente evitato qualsiasi espressività superflua, lasciando al lettore/spettatore ogni decisione sulla modalità di relazione da adottare nei confronti degli oggetti ritratti. L’ambiguità del soggetto e delle dinamiche interpretative che vi si intrecciano sembra aver suggerito al fotografo un lavoro di sottrazione, che si è concretato essenzialmente nella ricerca e nella selezione degli oggetti, nonché, si direbbe, nel progressivo raggiungimento di una posizione di neutralità, da cui è stato espunto ogni residuo di maniera, composizione, sguardo. In altre parole, sembrano scomparire qui tutte le componenti «illusionistiche» della fotografia, i suoi trucchi e le sue «soggettività».

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Dall’altra parte, quasi specularmente, la protagonista del testo di Hruska è abitata da una soggettività debordante, che traduce progressivamente le forme reali in un labirinto illusionistico e deformante. Questo intreccio fra realismo e illusione, tra oggettività e fiction, è gestito da De Belle e Hruska con sapiente distacco proprio quando si fa più intricato. Il titolo del libro, quasi sornione, ripete una volta di più l’ambiguità: Disappearing Objects, «oggetti per sparizioni», ovvero una descrizione «realistica» e «neutrale» degli strumenti fotografati. Allo stesso tempo, le fotografie consentono solo a una ristrettissima minoranza di fruitori di essere interpretate in senso realista. Che succede quando si rappresenta un’illusione? L’accadere di un’illusione non è forse è qualcosa di reale? E la sua rappresentazione? Non per caso gli autori si riferiscono a Materia e Memoria di Bergson, citato in esergo nel foglio di sala della mostra che ha accompagnato la presentazione di Disappearing Objects presso la libreria Bruno a Venezia. La tensione irriducibile fra percezione realista e percezione soggettiva, messa a tema dal filosofo francese, si ripete in filigrana nel rapporto tra fotografia, da un lato, e narrativa e illusionismo dall’altro, i due veri «rappresentati» del libro.

Narrativa e illusionismo condividono la fiction, la necessità dell’autoinganno, della «sospensione dell’incredulità», come si dice in gergo tecnico. La fotografia, almeno al livello del senso comune, è invece associata per lo più all’istanza di un certo realismo, o quanto meno a un pathos del disvelamento, al discernimento del visibile. Per quanto possa di volta in volta qualificarsi come formalista o persino surrealista, alla fotografia viene usualmente attribuita un’aderenza e una prossimità assoluta al reale, che si ritiene negata ad altre forme di «ripresa» o rappresentazione. Sulla scorta dei precedenti lavori di De Belle, Failed Dioramas e Besides Faith, si potrebbe affermare che è proprio l’ambiguità di questo rapporto l’oggetto della sua fotografia. L’apparire e lo scomparire, il segreto e il manifesto, il visibile e l’invisibile, la soglia. Un’«estetica dell’invisibile», come l’ha esplicitamente definita. In effetti, se si elencano gli oggetti visibili presenti nelle sue fotografie (posto che sia possibile farlo: in quest’ultimo lavoro, in questo senso ancora più radicale, è quasi impossibile per la stragrande maggioranza del pubblico) nulla si è detto ancora dell’oggetto della sua fotografia: l’oggetto, o almeno l’obiettivo, sembra essere quello di far «vedere» di colpo la visibilità stessa o l’atto del disvelamento, oggetto costituzionalmente invisibile, oggetto che scompare con le cose viste e nominate (ecco il vero disappearing object). E forse anche, al fondo, un’interrogazione di tipo morale che si rivolge non solo al tema manifesto della necessaria «omertà» dei prestigiatori sui loro trucchi, ma a una più generale etica delle arti del visibile: che cosa è bene svelare e che cosa lasciare velato?

Disappearing Objects Louis De Belle
with a short story by Jordan Hruska

ISBN 978-88-99058-22-7
2018 | English | 16 × 22 cm, 144 pages
4 Color Offset + Pantone | French Folded Thread-sewn softcover
€25
www.b-r-u-n-o.it

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