Linea1201 è un programma di residenza diffusa dell’artista Angelo Bellobono e promosso dall’associazione Atla(s)Now, a cura di NOS Visual Arts Production. “Linea1201” sarà presto anche un libro grazie alla collaborazione con VIAINDUSTRIAE publishing e la collaborazione scientifica della Società Geografica Italiana.
Elisa Del Prete: “Alcune ore di alpinismo fanno di una canaglia e di un santo due creature abbastanza simili. La stanchezza è la via più breve verso l’uguaglianza e la fratellanza.” Lo dice Nietzsche, e lo trovo un aforisma perfetto per iniziare il dialogo con Angelo Bellobono su “Linea 1201”, il programma di residenza diffusa sull’Appennino che assieme a lui e ad altri quattro partner abbiamo costruito, io e Silvia Litardi di NOS Visual Arts Production, tra giugno e settembre 2020.
La fatica, lo sforzo, qualcosa che abbiamo provato in questi mesi sulle terre alte d’Italia, quelle più nascoste, che non sono sempre e solo paradisi nascosti, ma che anzi celano molte fragilità per lo stato di abbandono in cui riversano. Io stessa pensavo sarebbe stato più facile. Più facili le escursioni, più facili i rapporti con i territori, più facile mapparli. Amo camminare e amo la montagna, ma questa è stata un’esperienza diversa. Mettere insieme arte e montagna ha aperto letture dell’una e dell’altra inaspettate, ha svelato sovrastrutture e infrastrutture traballanti, ha portato al centro il corpo, non quello che mostriamo ma quello che respira, suda, sente, ha paura ed è semplicemente felice. Con “Linea1201” abbiamo percorso l’Appennino in quattro tappe… tappe diverse ora possiamo dire, in cui Angelo è stato invitato a portare avanti la sua ricerca pittorica in relazione ai diversi ambienti, rispondendo ai contesti, al paesaggio, salendo in vetta, sotto il sole e sotto l’acqua. Ogni tappa si è sempre conclusa con una giornata di trekking aperto al pubblico e un laboratorio di pittura “en plein air”. Siamo saliti sul Monte Marrone, in Molise, sul Monte Alpi in Basilicata, sui calanchi della Valsamoggia in Emilia-Romagna, sul Monte D’Oro nel Lazio. Abbiamo portato il pubblico dell’arte in montagna e introdotto l’arte ad abili escursionisti.
Angelo, cos’hanno in comune arte e montagna? Qual è il senso di metterli insieme?
Angelo Bellobono: Ti risponderei che la scomposizione che ho scoperto sulla tela a Latronico c’entra molto con la camminata che avevamo fatto il giorno prima sul Monte Alpi. Durante il percorso siamo passati per momenti diversi, abbiamo fatto esperienze diverse, attraversato boschi diversi, visto luci diverse, sentito suoni e odori diversi, il cerreto era ampio con i suoi tronchi estesi e dritti in cui filtrava la luce dal sottobosco, nella faggeta la luce si è fatta più scura, la temperatura è cambiata, assieme a quella percettiva del paesaggio, il sottobosco si è fatto denso…
Quando ho iniziato a operare gli strappi sui dipinti volevo proprio riportare questa sensazione di paesaggio che si stratifica e si evolve, per ragioni spontanee o per l’intervento dell’uomo: sono linee di mancanze, pezzi di paesaggio che non ci sono più ma che si riposizionano altrove grazie alla memoria che lasciano in noi e sul terreno stesso, in un’altra parte del dipinto. Da qui il taglio cui mi sono spinto in questi mesi, in particolare venendo a contatto con una terra per me quasi nuova, la Lucania, che appartiene a quell’Appennino che ha sofferto, fragile, carico di tensioni che tengono il paesaggio in equilibrio, ma anche le relazioni tra le persone e tra territori. Il nastro che alla fine tiene su la tela è più fragile del supporto pittorico stesso. Eppure è quello strappo che tiene insieme questo paesaggio, lo trattiene, lo tiene su. E per me quello strappo ricollocato non è per forza un pezzo di paesaggio o di natura può essere anche una persona, il segno di una relazione, un paesano che è ritornato o che tiene viva la relazione con questa terra.
EPD: Dallo strappo, che avevi già esplorato in studio, dipingendo su un pezzo di tape poi rimosso e ricollocato altrove, questo percorso di residenza diffusa sull’Appennino ti ha portato ad esplorare nel tuo lavoro nuove direzioni. Ripenso al gesto con cui quella mattina a Latronico (in Basilicata, ospiti dell’Associazione Vincenzo De Luca nell’ambito di “A cielo aperto”) hai tagliato letteralmente la tela già dipinta in più parti. Un gesto che non ha niente a che fare con Fontana bensì con una ricerca compositiva che è ritornata anche durante il laboratorio, quando hai ricucito insieme tutti i lavori dei partecipanti insieme ad altri frammenti “da studio” alla ricerca di una composizione corale. Lo stesso era avvenuto anche in Molise quando, in totale isolamento, hai offerto al paesaggio prima una, poi più tele, lasciando che le intemperie facessero corso sulle loro superfici.
AB: Sì. C’è una grande similitudine tra i primi due lavori cui sono giunto al termine delle prime due teppe. Entrambi sono pezzi di tela ravvicinati che contengono pezzi di raccordi pittorici. Certa pittura diventa per me formalmente un ponte che collega a qualcos’altro. La pittura, come altre forme artistiche, richiede a volte assembramenti o scomposizioni dello spazio pittorico. Lo riavvicini, lo ricomponi, crei connessioni anche tra supporti pittorici diversi. In questo senso è una forma installativa. In ogni residenza ho portato con me una grande tela vuota, un elemento di partenza che mi serviva per raccogliere quel che sarebbe accaduto in quel luogo. In Molise, l’isolamento in cui mi sono ritirato nella Capanna Moulin in cima al Monte Marrone mi ha tenuto praticamente incollato al paesaggio, mentre in Basilicata avevo un bellissimo laboratorio proprio tra le strade della parte vecchia del paese e il workshop che abbiamo fatto si è sviluppato praticamente ogni giorno con le persone che passavano e si fermavano a parlare, dipingere, stare, mettendo a dura prova la concentrazione sul mio lavoro pittorico personale. Qui l’esperienza umana collettiva è stata totalizzante, là è come se il workshop l’avessi fatto con la natura, che ogni giorno interveniva con il suo apporto, trasformando il lavoro.
EDP: A Valsamoggia invece, la terza tappa, hai testato quella che hai chiamato una “trappola pittorica”, posizionando una grande tela bianca sul dorso di un calanco in attesa che ricevesse l’impatto di un temporale in arrivo. E anche ad Amatrice, dove per caso all’improvviso, sulla valle di Macchie Piane hai srotolato a terra la tela che avevi in spalla appena ti sei accorto che un gregge di pecore stava correndo verso di te, così da catturarne il passaggio. Cosa ti interessa di questo processo spontaneo?
AB: Una trappola è un dispositivo messo in atto per catturare, trattenere, raccogliere, che non necessariamente ha un’accezione negativa. Più volte parlo di me, del mio corpo, come di un raccoglitore di pittura, e il supporto ne diventa un prolungamento, una protesi. Ecco io stesso posso essere trappola o intrappolato. Piazzare una trappola pittorica per lasciare che il paesaggio la attraversi, con modalità anche sconosciute e inaspettate, e vi depositi elementi e tracce con cui poi mi piace dialogare e che mi interessa analizzare è per me quasi un percorso scientifico che si avvicina alla ricerca naturalistica messa in atto per studiare e approfondire l’ambiente, la flora e la fauna, al fine di preservarli. Con queste trappole voglio catturare aspetti del paesaggio non necessariamente visibili, cercando al tempo stesso di preservarlo attraverso un atto che è per me di partecipazione personale che si riversa poi sulla collettività quando restituisco il processo di visione, scoperta, appartenenza e meraviglia. Porre l’essere umano al vertice delle specie lo spinge spesso ad interrogarsi solo sulle proprie identità, mettendole in relazione ai sistemi sociali. Muoversi nei sistemi naturali fa scoprire un senso di libertà rispetto agli schemi sociali che va di pari passo col senso di inadeguatezza rispetto alla natura. Nulla in natura è uguale per sempre, nessun essere è uguale per sempre, nulla esiste per sempre, così anche un quadro non sarà mai per sempre lo stesso.
EDP: Dall’isolamento iniziale al laboratorio in paese, fino alla convivenza con Osvalda e Stefano all’Officina Pellegrini, carica di tutta la storia dello scenografo Gino Pellegrini alla cui memoria è dedicata (partner del progetto a Valsamoggia grazie alla collaborazione con Fondazione Rocca dei Bentivoglio) fino all’esperienza collettiva finale di Amatrice, la residenza ha conosciuto un crescendo, di interlocutori, rumori, sollecitazioni. Ad Amatrice eravate quattro artisti. Con te c’erano Davide D’Elia, Beatrice Meoni e Chris Rocchegiani. L’estate aveva lasciato spazio all’autunno e per la prima volta ci sono stati momenti collettivi di discussione attorno al lavoro. A me personalmente ha colpito come la pratica di ognuno sia rimasta radicata nella propria ricerca difendendone lo spazio, cauta rispetto a quanto l’esperienza nella sua natura ardita (tra montagna, maltempo e convivenza) poteva portarvi, la concentrazione di ognuno sull’andamento del proprio lavoro, l’attenzione a non perdersi e a non perdere nessun passaggio di quello stare lì che potesse riversarsi nel lavoro. Se da un lato Beatrice ha sfidato la sua pratica tradizionale interrogandosi su cosa significasse per lei spostare le condizioni di partenza, Chris è partita munita di strumenti di indagine che le sono serviti da puntelli durante una settimana in cui l’intensità del suo lavoro non poteva essere salda come in studio. E poi Davide, che ha svolto il ruolo dell’elemento di disturbo portandovi sempre fuori da quell’angolo di certezze precarie che ognuno stava faticosamente difendendo finché la tempesta non se l’è addirittura portate via. La montagna e la pittura en plein air, che era evidentemente il tema di tutta la residenza, hanno rievocato in Davide il concetto di dispositivo, che è stato poi al centro del suo lavoro.
AB: Già. La vita stessa è un dispositivo, noi siamo dispositivi sparsi per il mondo, lo sono le opere, tutte. Per me le varie tappe sono state vere e proprie spedizioni pittoriche con tutto ciò che prevede una spedizione: organizzare il bagaglio, il percorso, studiare clima e ambiente, le relazioni sul territorio… ma poi essere pronti a cambiare repentinamente ogni piano. Per me la montagna è un modo per allenarmi a scappare. Mi serve per tenermi pronto, perché io mi sento sempre in uno stato di fuga da qualcosa.
“Linea1201” è un programma di residenza diffusa dell’artista Angelo Bellobono, promosso dall’associazione Atla(s)Now, a cura di NOS Visual Arts Production e realizzato con il contributo della Fondazione Cultura e Arte, ente strumentale della Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale presieduta dal Prof. Avv. Emmanuele Francesco Maria Emanuele, in collaborazione con Comune di Rocchetta a Volturno, “A Cielo Aperto” – Associazione Vincenzo De Luca di Latronico, Fondazione Rocca dei Bentivoglio di Bazzano, Casa della Montagna di Amatrice, e col sostegno tecnico di Lefranc & Bourgeois che ha gentilmente donato i propri materiali.