New Photography | Conversazione con Ryts Monet

"Fare delle scelte implica necessariamente avere la responsabilità di ciò che si esclude. Dare visibilità a opere prive di contenuti è per me una scelta politica chiara: il consenso è propaganda, l’arte è resistenza."
30 Novembre 2020
Ryts Monet, 30x30x30 (2015)
Ryts Monet, AirFromAnotherPlanet (2015)

Sara Benaglia/Mauro Zanchi: Come Enricomaria De Napoli è diventato Ryts Monet?
Ryts Monet: Il nome era quello che utilizzavo quando facevo graffiti.
La mia pratica artistica si è evoluta lentamente, non c’è mai stato un vero e proprio confine tra il writing e la mia attuale pratica artistica, è stato un processo graduale e piuttosto lento. Inoltre il mio interesse verso alcune culture considerate marginali é ancora presente nel mio lavoro, per cui ho deciso di continuare ad utilizzare il mio nome da writer. 

SB/MZ: Hai registrato la formazione dell’ombra dell’obelisco di Villa Opicina a Trieste su una grande striscia di carta fotosensibile e poi lavato e sviluppato la striscia nel Mare Adriatico. Un video registra la formazione di questa grande cianotipia di un monumento che imita una fattura egizia, mentre viene eretto per l’esaltazione dell’Imperatore d’Austria. La registrazione della formazione di un’immagine è un’estensione meta-fotografica?

RM: Con Taking the Shadow of an Obelisk and letting it dissolve into the Sea ho compiuto un gesto preciso come descritto dal titolo e documentato dall’opera. La mia intenzione era di raccogliere l’ombra di un obelisco in coerenza con il suo significato simbolico, di conseguenza fotografia e luce hanno giocato un ruolo fondamentale. Nell’antico Egitto l’obelisco era un monumento dedicato al Dio del Sole e rappresentava un raggio di sole pietrificato dall’Aten. Nel corso dei secoli l’obelisco è stato vittima di appropriazioni, dall’epoca dell’antica Roma all’età napoleonica. Con l’affermarsi del pensiero illuminista quel raggio di sole pietrificato venne interpretato e adottato come simbolo di ragione e razionalità e gli obelischi iniziarono ad adornare piazze e giardini. Ho lavorato quindi per antitesi: raccogliere l’ombra dell’obelisco per generare un anti-monumento che potesse ritrovare una collocazione contemporanea. Se la luce era metafora di ragione e progresso la sua assenza per opposizione diviene espressione del caos e delle sue derive globali.
Ho scelto l’obelisco di Villa Opicina a Trieste per motivi autobiografici. Sono nato e cresciuto vicino al Mare Adriatico e ora vivo a Vienna. Trieste è ancora oggi espressione di una convergenza culturale e quell’obelisco fu eretto all’inizio della strada Napoleonica per inaugurare un importante punto di espansione dell’Impero d’Asburgo.

SB/MZ: Che relazione c’è tra fotografia e imperialismo, globalmente (si veda la serie 30X30X30 del 2015)?

RM: In 30x30x30 non mi sono limitato all’utilizzo della fotografia. La serie nasce con premesse più ampie in riflessione sull’obelisco, le sue copie e la presenza del suo simbolo su scala globale. Il lavoro è costituito da 30 assemblaggi di cartoline postali su cui sono raffigurati diversi obelischi sparsi nel mondo. Le cartoline oltre ad essere dei souvenir sono dei dispositivi che permettono degli spostamenti.
L’assemblaggio delle due metà delle cartoline lascia costante il monumento al centro dell’immagine moltiplicando il paesaggio nel tempo, nello spazio e nelle sue infinite variabili.

SB/MZ: In Blue Holes (2017) hai usato nuovamente il cianotipo, in questo caso per registrare strappi a recinzioni di proprietà private o confini. Potremmo guardare alla cianotipia da diversi punti di vista, associarla ad Anna Atkins, la prima fotografa donna, oppure ai sali di ferro (usati invece dei sali d’argento). Quali minerali generano la nube digitale?

RM: La prima opera delle serie Blue Holes mostra un buco circolare in una rete ed è stata realizzata nell’estate del 2017 sul confine tra Italia e Slovenia. La recinzione in questo caso divide i due Stati nella terra di nessuno. Ho deciso in un secondo momento di estendere la serie ad altre demarcazioni in cui fossero evidenti segni di scasso che hanno permesso l’accesso a parchi, proprietà private o strade recintate.
Ho utilizzato la cianotipia come se fosse un’impronta, andando a raccogliere l’ombra di queste rotture a contatto direttamente nei luoghi in cui sono avvenuti. Il blu che fa da sfondo nelle immagini si libera e si riempie dove sono presenti le effrazioni.
Servendomi della carta impressionata con il reagente fotosensibile e di una struttura portatile che ho costruito personalmente, ho potuto isolare il soggetto dal suo contesto rispettando dimensione e tempo e fissando, attraverso la luce del sole, un’immagine unica e non riproducibile.
Sarebbe stato impossibile ottenere lo stesso risultato utilizzando una camera, poiché avrei ritratto anche le interferenze che si trovavano in primo piano e sullo sfondo. Per cui l’impressione diretta con la cianotipia è stata funzionale al risultato ottenuto.

SB/MZ: Il lavoro Der Euro des Kaukasus (L’Euro del Caucaso) (2019), è stato realizzato tra Vienna e Baku. Una consonanza visiva sembrerebbe frutto di una sorta di emulazione dell’euro nei Manat. Come hai scovato Robert Kalina e perché l’Azerbaigian si è affidato alla banca nazionale austriaca per la realizzazione e il conio della sua nuova moneta?

RM: Der Euro des Kaukasus è un film in due canali di 12 minuti. Il primo canale è stato girato tra Vienna e Baku ed è incentrato sull’intervista a Robert Kalina, il designer dell’Euro e dei Manat. Il secondo mostra invece immagini di architetture e monumenti abbandonati di epoca sovietica, circondati da cani e gatti randagi filmati tra Vienna, Budapest, Sofia, Tbilisi e Baku. I motivi per cui la Banca Nazionale dell’Azerbaijan ha fatto realizzare i Manat a immagine e somiglianza degli Euro, commissionando a Robert Kalina il design e alla Banca Nazionale Austriaca coniazione e stampa, sono menzionati da Kalina nel film.
Le motivazioni sono molteplici. L’Azerbaijan dopo il crollo dell’URSS ha sentito la necessità di ricostruire la propria immagine pubblica per proiettarsi in un panorama economico internazionale, con l’ambizione di attrarre investitori dall’occidente. Una delle scelte è stata quella di avvicinarsi simbolicamente all’Unione Europea, riprogettando una nuova banconota che evocasse formalmente l’Euro, come se l’Unione Europea fosse qualcosa che si può scorgere attraverso la filigrana. Questa somiglianza dell’Euro con il Manat è valso a quest’ultima il soprannome di Euro del Caucaso, da cui è tratto il titolo del film.
Ciò che ha reso speciale per me quest’esperienza è stato il primo incontro con Kalina, che è avvenuto all’inizio del 2019. Allora non potevo immaginare che sarei stato in Azerbaijan e soprattutto non sapevo che da quell’incontro sarebbe poi nato questo lavoro. Era già da molto tempo che volevo realizzare un progetto sull’Euro e sui suoi simboli. Il fatto che i ponti e le porte disegnate sulle banconote dell’Euro siano basati su modelli architettonici e non rappresentino architetture esistenti ha attirato la mia curiosità. Il concetto alla base del lavoro di Robert Kalina è stato quello di eliminare dall’Euro qualsiasi elemento che potesse identificare una nazione specifica dell’Unione, per costruire una nuova identità transnazionale che si potesse allargare e contrarre a seconda dei confini.
Tutti i popoli europei si possono identificare nelle architetture presenti sugli Euro perché non esistono! Nel film, ho messo in relazione questi elementi architettonici con alcune architetture e monumenti dell’Unione Sovietica in stato di abbandono.
Quest’associazione si basa sull’intuizione che l’Unione Sovietica sia riuscita ad edificare ciò che in Europa è visibile sulla sua cartamoneta. I casermoni popolari a pannelli prefabbricati simbolo dei Paesi sovietici, per esempio, si estendono ancora oggi dai confini con la Slovenia fino a quelli con la Corea, ricoprendo un territorio distribuito su 11 fusi orari. Oggi quegli edifici ci appaiono come espressione di un impero ormai finito. Per contrasto le architetture disegnate sugli Euro acquistano delle analogie simboliche, pur essendo divergenti nelle intenzioni e proiettate nel futuro. Le rovine dell’URSS in contrasto con i disegni sugli Euro riportano l’esistenza quest’ultime ad una dimensione utopica e fine a sé stessa.

Ryts Monet, Blue holes (2017)
Ryts Monet, Grinder (2017)
Ryts Monet, Lamassu, nstallation view at Mediterranea 18, Young Artists Biennale, former Embassy of Yugoslavia, Tirana, Albania (2017)

SB/MZ: Portrait of Europa (2020) è stato “realizzato a mano in Azerbaijan”. Chi lo ha tessuto e perché la manualità artigianale è un valore aggiunto? Una lunga tradizione di autori bianchi ed europei ha sviluppato tessili in zone dell’est e sud del mondo senza che la critica si soffermasse su queste relazioni, anche sessuali, essendo nella gran parte dei casi le tessitrici donne sottopagate. In che modo hai elaborato questo passato nel tuo lavoro?

RM: Portrait of Europa e Der Euro des Kaukasus compongono un dittico. Sono stati presentati per la prima volta insieme, in occasione della mia attuale mostra personale intitolata Per Tina e parte del Parallel Program dello Steirischer Herbst 2020 a Graz. Tina si riferisce all’acronimo usato da Margaret Thatcher, There Is No Alternative. Ho aggiunto il “Per” in modo da farlo apparire una dedica (con cinismo a una delle tessitrici ritratte nell’immagine che ho usato per l’invito della mostra). Nella mostra ho cercato di riflettere sulla condizione contemporanea, per cui le modalità di produzione del tappeto sono assolutamente coerenti con il significato evocato dall’oggetto stesso.
Il dittico è frutto di una residenza di tre mesi trascorsa a Baku nel 2019, presso lo YARAT Contemporary Art Center, supportata dalla Fondazione Pistoletto Cittàdellarte e racconta un percorso preciso tra Baku e Vienna, tra Ex URSS e EU.
Portrait of Europa è il frutto di diverse riflessioni sull’identità nazionale e transnazionale, ma soprattutto sul Capitale inteso come valore monetario, lavorativo e simbolico. Per questi motivi per me era necessario che il tappeto fosse realizzato a mano e ovviamente in Azerbaijan.
Il tappeto riproduce l’ingrandimento di un dettaglio di una banconota Euro: capitale monetario e capitale lavorativo sono quindi racchiusi in quell’oggetto. L’immagine riprodotta ritrae il volto del mito greco di Europa presente su tutta la cartamoneta Euro. In questo specifico caso è una scansione di circa 1 x 2 centimetri del filo argentato di una banconota da 10 euro. Immagine e produzione non si possono scindere e rispecchiano la condizione generale in cui stiamo vivendo, globale ed europea.
Le persone che hanno tessuto il tappeto sono state pagate secondo gli standard Azerbaijani e lavorano per un’azienda riconosciuta che produce centinaia di tappeti all’anno per diverse committenze. Per loro lavorare sul mio tappeto o su un altro non ha fatto alcuna differenza, è ciò che fanno ogni giorno da anni. La tessitura dei tappeti è motivo di orgoglio nazionale in Azerbaijan, perché è una delle massime espressioni artigianali e questo lavoro viene storicamente eseguito da tessitrici donne.
La loro esecuzione, come il lavoro in fabbrica o di qualsiasi altro lavoratore, sta alla base del sistema produttivo. La filiera produttiva globale è stata spinta ai margini dell’occidente proprio per sfruttare il basso costo della manodopera locale. È quasi ovvio far notare che il computer su cui sia io che voi stiamo scrivendo è stato prodotto quasi certamente da lavoratori sottopagati in condizioni che per noi sarebbero assolutamente inaccettabili. Tuttavia, quando acquistiamo un prodotto difficilmente ci preoccupiamo delle condizioni lavorative di chi lo produce, solitamente lo scegliamo sulla base della qualità, del design e del prezzo.
Questo genere di questioni etiche sono del tutto eurocentriche -ed è un bene che ci siano- ma dobbiamo ricordarci che siamo noi europei a decentrare la nostra produzione in zone remote, siamo noi europei i principali consumatori di petrolio dall’Azerbaijan. Credo che l’arte non vada esclusa da questo genere di dinamiche. Escludere quest’opera dal sistema produttivo sarebbe stato per me una grave mancanza e incoerenza.

SB/MZ: Migrant (2017) è una installazione composta da meteoriti rivestiti in oro (post-galvanizzazione): per conservare un oggetto proveniente dallo spazio è necessario che lo stesso sia rivestito di questo minerale. Il Sudafrica dalla fine dell’Ottocento ha fornito circa due terzi dell’estrazione aurifera mondiale, poi questa posizione di predominio è stata superata dalla Cina. Ma il tuo lavoro sembra inevitabilmente suggerire che lo sfruttamento di manodopera a bassissimo costo sia necessario per sostenere narrazioni spaziali.

RM: Anche in questo caso, l’opera è parte di un dittico e più generale di una serie di opere realizzate sul tema dello scontro che ho deciso di mettere in relazione con i colori utilizzati nella tradizione delle volte celesti, l’oro e il blu. La serie di meteoriti galvanizzati Migrant è stata realizzata in occasione de La Caduta Degli Dei, mostra personale presentata negli spazi della Galleria Michela Rizzo a Venezia nel 2019.
Migrant è costituito da una serie di 5 meteoriti a base ferrosa provenienti da Campo del Cielo, in Argentina, galvanizzati in oro e presentati su delle basi in cemento. L’origine dei meteoriti, è generalmente ignota, la loro forma è il frutto del loro viaggio nello spazio e dell’impatto con l’atmosfera e con la superficie terrestre.
L’opera si presenta in dialogo con RIOT:, un lavoro testuale formalizzato attraverso un prespaziato in vinile dorato applicato su parete o su una finestra. Il contenuto del testo è la trascrizione – e riscrittura – di un articolo di fisica che ho letto qualche anno fa su una rivista di fisica divulgativa, in cui si descrive l’origine dell’oro e la sua provenienza. Dice così:

RIOT: Alcuni studiosi hanno recentemente formulato l’ipotesi che l’oro sarebbe comparso sulla Terra in seguito a una tempesta di meteoriti che colpì il nostro pianeta circa 3,9 miliardi di anni fa, lasciando intorno a sé crateri e generando quelli che oggi ci appaiono probabilmente come valli coltivate o abissi marini. L’oro sarebbe dunque un elemento alieno, non presente sulla Terra fin dalla sua formazione ma precipitato da un luogo indefinito nello spazio e nel tempo in maniera del tutto casuale. Secondo altre ricerche i metalli più preziosi esistenti in natura, l’oro e il platino, sarebbero stati generati dallo scontro di due stelle di neutroni, che sono a loro volta il collasso di una Supernova.

Leggere quell’articolo mi ha fatto pensare a secoli di tradizione artistica e all’utilizzo dell’oro in relazione alla sfera celeste. Questo testo afferma scientificamente come esso abbia una connessione con le stelle, legittimando secoli di intuizioni artistiche. Inoltre si dice che i metalli più preziosi in natura siano il prodotto di scontri di misure inimmaginabili. Ho raccolto così tutte queste suggestioni dando vita a lavori come Migrant, in cui RIOT: funge da statement. L’opera quindi va all’origine della materia in una chiave simbolica e prescinde dalle sue connessioni economico-produttive.

SB/MZ: Grinder (Alchemy after school) (2017) suggerisce una relazione tra fotografia e scultura, tra passaggi temporali e deposito di un’immagine. Ci parleresti di questo lavoro?

RM: Grinder, oltre a quest’opera, è stato il titolo alla mia prima mostra personale in Austria presso Akademie Graz (2017). Le opere esposte erano state realizzate durante una residenza di tre mesi a Graz. Durante quella residenza mi resi conto della numerosa presenza di skatepark nelle città austriache. In quel periodo il mio interesse iniziava ad avvicinarsi alle rovine e gli skatepark mi apparivano un po’ come dispositivi urbani concepiti e realizzati per assorbire colpi ed in qualche modo la loro esistenza e funzionalità funge da acceleratore di rovine.
In uno dei tanti skatepark ho trovato un vecchio grinder in cemento che, per i profani, è un elemento utilizzato dagli skaters per eseguire il grind, ovvero saltarci sopra con lo skate e cercare di scivolare con la tavola o con i trucks (i sostegni in ferro dove si agganciano le ruote). Quel grinder era stato utilizzato fino alla sua rottura, rendendolo quindi inutilizzabile. Quella frattura riassumeva parte delle mie riflessioni sullo scontro, così ho cercato di dargli un senso. Ho realizzato una copia esatta del grinder verniciandolo prima con una spessa base dorata che ho poi successivamente ricoperto con una laccatura bianca.
Con l’aiuto di uno dei ragazzi della residenza – in maniera del tutto illegale – ci siamo travestiti da operai con salopette e scarpe anti infortunistiche e con un furgone abbiamo sostituito il vecchio grinder con la copia da me realizzata, lasciando che venisse utilizzato per 7 giorni. Gli skaters, quindi, hanno fatto il resto e attraverso i loro grind hanno rimosso parte laccatura bianca, facendo emergere porzioni della base dorata presente sullo sfondo.

Ryts Monet, DerEuroDesKaukasus (2019)
Ryts Monet, Memento Park (2019
Ryts Monet, Migrant e RIOT (2017)

SB/MZ: Lamassu (With Love and Embers) (2017) è la ricostruzione in 3D di due frammenti scultorei di Lamassu distrutti a Nimrud per mano dei miliziani dello Stato Islamico nel 2014. L’iconoclastia ha un sapore diverso a seconda di chi la opera. In questo caso hai deciso di ricostruire quelle forme incarnate di ideologia che altri hanno voluto distruggere. Perché hai sentito il bisogno di ridare vita a quelle forme?

RM: I monumenti fungono da catalizzatori di memoria collettiva e l’iconoclastia ne è in qualche modo la prova. La loro distruzione si può considerare come la volontà di rimuovere una parte della storia. Ciò che però di fatto succede è che viene contrastato solo il simbolo. Con il mio intervento non ho voluto ridare vita a quelle forme, ma ricontestualizzarle, operazione che ha un’accezione per me molto diversa.
La realizzazione dell’opera è stata possibile grazie al reperimento delle scansioni 3D del Lamassu originale, realizzate tra il 2005 e il 2009 dal Consiglio Nazionale delle Ricerche italiano (CNR) e finalizzate a un archivio on-line che raccoglie le principali opere e i reperti presenti sul territorio iracheno: il Virtual Museum of Iraq. Il modello 3D del Lamassu di Nimrud era quindi già presente in rete circa 10 anni prima della sua completa devastazione.
Ho incrociato quel modello digitale con le fotografie scattate da un reporter dell’agenzia di stampa francese e diffuse sui media dopo la liberazione della città. Ho lavorato quindi con modalità site-specific da remoto, manipolando materiali reperiti in rete. Questo scarto tra realtà e contenuto digitale è per me parte dell’opera ed espressione di una serie di eventi concatenati tra di loro.
Inoltre molti dei frammenti delle opere distrutte dall’ISIS sono state rivendute sul mercato nero in Occidente, il ricavato è servito a finanziare la guerra stessa. I due frammenti di Lamassu quindi non riproducono ciò che manca o quello che è stato distrutto – in tal caso si tratterebbe di ricostruzione-, ma visualizzano ciò che è sopravvissuto, rendendoli di fatto copie delle macerie.

SB/MZ: Memento Park (2019) è un video girato nel museo all’aperto omonimo nella periferia di Budapest. Hai posto attenzione all’atteggiamento dei turisti che mimano monumenti del passato comunista ungherese. Ci viene in mente la collezione Bored at the Museum (2011) di Navid Nuur, in cui l’artista evidenzia l’attitudine occidentale di mimare opere d’arte. Perché credi che i turisti sentano l’esigenza di spingersi performativamente tanto oltre? È la frequentazione di musei una performance sportiva? Perché evidenziare questo atteggiamento proprio in un parco dedicato al passato comunista della nazione?

RM: Memento Park è il mio primo lavoro realizzato in un Paese dell’ex URSS. L’ho concepito e sviluppato durante un mese di residenza a Budapest. Ciò che mi ha maggiormente colpito di quella città e di altre aree dell’est Europa è la volontà da parte dei governi post socialisti di ricostruire la propria identità pubblica. Questa ricostruzione a Budapest è iniziata dai monumenti dove le statue di Lenin, Marx e le altre figure del socialismo sono stati rimpiazzate da personaggi popolari e dello spettacolo come Bud Spencer, Steve Jobs o Ronald Reagan. Questi nuovi monumenti, spesso simili per fattura e materiali a quelli di epoca socialista, invece di posare su un piedistallo vengono installati direttamente sui viali, finendo per diventare dei “dispositivi da selfie” per i migliaia di turisti che ogni giorno affollano il centro cittadino.
Il Memento Park, da cui prende nome il video, è un museo giardino, poco curato e lontano dal centro dove sono stati ricollocati i vecchi monumenti dell’Ungheria socialista. Il parco è solitamente frequentato da turisti durante fine settimana che ci si recano con bus organizzati.
È pratica ormai consolidata per i visitatori di Memento Park farsi scattare una foto ricordo davanti ai monumenti imitandone la posa. Ho cercato di raccogliere questo confronto tra passato e presente, coinvolgendo i turisti incontrati nel parco, riprendendoli durante queste azioni per poi rallentarne la velocità. Nel mio video gli attori non eseguono performance, ma divengono simulacri dei nuovi monumenti contemporanei.

SB/MZ: Air From Another Planet (2015), in cui hai ricostituito l’immagine di un pianeta altro a partire da vecchi francobolli sovietici, ricompone una visione disassemblata e dispersa in dettagli. L’assemblaggio può essere uno strumento del revisionismo?

RM: Air From Another Planet è stato realizzato e mostrato per la prima volta insieme a 30 x 30 x 30 e le due opere sono in stretto dialogo tra di loro.
I francobolli con cui è realizzata la Luna di Air From Another Planet sono – come nel caso delle cartoline di 30 x 30 x 30 – dei dispositivi viaggianti: i due materiali, francobolli e cartoline, sono oggetti complementari e se uniti possono viaggiare.
Le opere raccontano due diversi primati: mentre gli obelischi ritratti su 30 x 30 x 30 delineano la diffusione di un simbolo su scala globale e la supremazia dell’Occidente, i piccoli orizzonti lunari con cui è composto Air From Another Planet sono dedicati al primato dell’Unione Sovietica nella conquista dello spazio. Ma contemporaneamente illustrano anche la conquista dell’utopia ed il suo distaccamento dal mondo.
Il titolo è tratto dalla poesia di Stefan George Ich fühle Luft von anderem Planeten. La poesia evoca un’idea che percorre gran parte del Novecento, secondo la quale il desiderio di evadere dal mondo corrispondeva alla convinzione di non appartenervi totalmente.

SB/MZ: La statua della libertà fu un dono francese agli Stati Uniti. Visto il titolo scelto per il tuo lavoro che ne ripete l’immagine, Sisters (2014), ti chiediamo in che modo la simbologia politica strumentalizzi l’immagine della donna (per ragioni nazionali), contribuendo ad annullarla.

RM: La figura della donna è stata molto utilizzata come allegoria nelle narrazioni nazionaliste con l’obiettivo di creare spirito di empatia e di unità nazionale. Questa forma allegorica serviva per evocare sentimenti materni, affettivi e suscitare un senso di protezione, mentre la loro presenza era solitamente associata alla propaganda militare. Non ho mai pensato a un annullamento della figura femminile. Al contrario essa veniva ritratta come una divinità, giovane e coraggiosa. In molti casi le personificazioni nazionali traevano diretta ispirazione dalla tradizione classica come nel caso di Austria o Britannia, che sono chiaramente ispirate alla dea Minerva. È anche vero però che queste figure impersonali sono spesso le uniche donne sui piedistalli, mentre la storia europea ha dedicato pochissimi monumenti a donne realmente esistite.
Anche nel caso di Lady Liberty i riferimenti alla classicità sono evidenti e questo simbolo non è stato utilizzato a fini bellici o propagandistici – che negli USA sono maggiormente riferibili allo Zio Sam -, quanto a ideali di libertà e democrazia.
Con il titolo Sisters non ho mai pensato a questioni di genere, la riflessione è ancora una volta legata al simbolo e alle sue derive. Il mio primo incontro con una copia della statua della libertà è avvenuto a Ishinomaki, in Giappone, nel 2013, a meno di 100 chilometri dalla centrale nucleare di Fukushima Dai-Ichi. Ishinomaki è stata distrutta dallo Tsunami del 2011 e poi colpita dalla dispersione radioattiva. Quest’esperienza è legata anche un lavoro a cui ho dato lo stesso titolo: Sister (Amaterasu Goddess of Sun and Holy Mary of Civitavecchia) che racconta il gemellaggio tra Ishinomaki e Civitavecchia.
A Ishinomaki visitai la rovina di una replica della Statua della Libertà mutilata dallo tsunami del 2011. Vedere quella statua dipinta di bianco con la fiaccola rossa (i colori nazionali), circondata da uno scenario post apocalittico e dalla radioattività, nel Paese che ha subìto per la prima volta lo scoppio di due bombe atomiche per mano degli Stati Uniti, mi ha fatto rivivere la scena finale del film Il Pianeta delle Scimmie (1968) di Franklin J. Schaffner.
Quell’immagine per me è l’espressione di come un simbolo assodato dalla cultura di massa possa assumere interpretazioni diverse a seconda del contesto nel quale si colloca. Da queste premesse è partita una lunga ricerca in cui ho archiviato immagini di copie di statue della libertà presenti su tutto il mondo attraverso fotografie, giornali, video e film.
Ho formalizzato la mia raccolta con una serie di 88 monotipi eseguiti attraverso la tecnica del trasferimento chimico su carta in cui, per la produzione dell’oggetto finale, è necessaria la distruzione della matrice. L’imprecisione del risultato finale associata alla molteplicità dei soggetti ritratti è una riflessione sull’inflazione dell’aura dell’opera.
Il titolo fa riferimento alle sorelle perché le 88 Lady Liberty ritratte, come le sorelle, si somigliano ma non sono uguali; condividono una gran parte dello stesso corredo genetico ma, a seconda del contesto in cui crescono, acquisiscono personalità diverse tra di loro.

SB/MZ: In Per Pandora (2013) movimenti di protesta diventano elementi estetici del tuo lavoro. Pensi che contenuti politici in opere d’arte possano essere considerati forme di propaganda, oppure la politica viene annullata nel momento in cui viene inglobata in prodotti destinati al mercato dell’arte?

RM: Artisti come i Beatles, Bob Marley o Tupac Shakur hanno venduto milioni di dischi influenzando il pensiero di altrettante persone. Ciononostante sono state le etichette discografiche ad amplificare la loro voce attraverso la vendita dei dischi e le trasmissioni in radio.
Critici d’arte e curatori hanno il potere di scegliere di puntare i riflettori verso artisti che con le loro opere possono dare messaggi più o meno forti e influenzare di conseguenza il pubblico. Il mercato dell’arte non fa altro che orientarsi sulla base della richiesta. Ciò nonostante, se l’offerta non comprende opere di spessore culturale o politico, il mercato si limiterà a orientarsi verso un’arte comoda, silenziosa e consensuale.
Fare delle scelte implica necessariamente avere la responsabilità di ciò che si esclude. Dare visibilità a opere prive di contenuti è per me una scelta politica chiara: il consenso è propaganda, l’arte è resistenza.


Per leggere le interviste dedicate alla NEW PHOTOGRAPHY

Ryts Monet, Obelisck (2018)
Ryts Monet, Obelisk, installation views at Per Tina, Steirischer Herbst Parallel Program, Lechkirche, Graz, 2020
Ryts Monet, Per Tina. Portrait of Europa and Der Euro des Kaukasus, installation views at Per Tina, Steirischer Herbst Parallel Program, QL Gallery, Graz, Austria, 2020
Ryts Monet, Sisters (2014)
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