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Céline Condorelli racconta Tools for Imagination

Tools for Imagination è il titolo del progetto realizzato da Céline Condorelli e prodotto da  Ramdom. Vincitore dell’ottava edizione di Italian Council (2020), il progetto si compone di diversi elementi, tra cui un film e un libro, che affrontano il tema della produzione artistica in relazione al tempo libero. I tools, gli strumenti – evocati […]

Céline Condorelli, Deux ans de vacances, Installation view, Frac Lorraine, 2020, Photograph by Fred Dott

Tools for Imagination è il titolo del progetto realizzato da Céline Condorelli e prodotto da  Ramdom. Vincitore dell’ottava edizione di Italian Council (2020), il progetto si compone di diversi elementi, tra cui un film e un libro, che affrontano il tema della produzione artistica in relazione al tempo libero. I tools, gli strumenti – evocati nel titolo – sottolineano la relazione con il lavoro manuale che si cela dietro qualsiasi produzione artistica e creativa: “Come si può definire la produzione artistica lavoro se essa nasce per soddisfare delle esigenze di svago e di intrattenimento per gli altri? Cos’è il tempo libero nel mondo della cultura?”. Attraverso un progetto in più fasi, che ha coinvolto diverse istituzioni – FRAC Lorraine, Metz (Francia); Tenerife Espacio de Las Artes, Tenerife (Spagna); Muzeum Sztuki, Lodz (Polonia); South London Gallery, London (UK) and MACRO (Italia) – l’artista evidenzia i paradossi e le contraddizioni delle istituzioni culturali al servizio del consumo. 

Céline Condorelli ha risposto ad alcune domande per raccontare la genesi e le ragioni di un progetto stratificato e in continua trasformazione come Tools for Imagination. 

Elena Bordignon: Tools for Imagination tocca un tema molto vasto e spesso difficile da definire. Il “tempo libero” o liberato, è il fulcro da cui sei partita per una vasta riflessione. Mi racconti da dove è nato questo tuo interesse per il “tempo libero”? C’è un libro, un evento, un’esperienza che hai vissuto che ti hanno stimolato per approfondire questo tema?

Céline Condorelli: Il mio punto di partenza non è in realtà uno solo ma si tratta piuttosto di una lunga elaborazione rispetto al tema del lavoro nel mondo dell’arte, di cui faccio parte da molti anni, attraverso progetti che hanno a che fare ad esempio con l’amicizia o con le “strutture di supporto” e di cui mi interessano le condizioni di lavoro dal punto di vista della produzione. Da anni ormai descrivo il mio lavoro come un lavoro disponibile per il pubblico: dico spesso che “lavoro per bambini e genitori per il weekend”. Fare una mostra significa proprio questo, cioè lavorare giorno e notte per un certo periodo di tempo per inaugurarla: solo quando il lavoro dell’artista finisce, la mostra ha effettivamente inizio. La fruizione avviene durante il tempo libero, nei pomeriggi o nel fine settimana, come momento di svago.

EB: In particolare hai approfondito il ruolo dell’arte nella società moderna, in relazione alla sua fruizione nel tempo libero. Dalle tue ricerche e nell’elaborare questo progetto, come descriveresti il ruolo dell’arte?

CC: In realtà, la risposta a questa domanda è la domanda stessa: il mio obiettivo è proprio questo, riflettere su quale sia il ruolo dell’arte nel tempo liberato e delle sue istituzioni, che vengono tradizionalmente definite come “istituzioni dello svago o del tempo libero”. Le istituzioni hanno lo scopo di educare il pubblico, anche dal punto di vista politico, e di occupare il tempo di alcune particolari categorie di pubblico, si pensi agli anziani o ai bambini. Queste domande non sembrano nemmeno più delle domande attuali, c’è qualcosa di passato o fuori moda in questa ideologia del tempo libero di cui la società stessa è responsabile. Secondo me, è importante porre queste domande oggi in un contesto in cui i musei sono chiusi ma, soprattutto, in cui hanno cercato di piazzarsi in competizione con altre forme di svago o di consumo – o si va al museo o si va al centro commerciale – diventando, a loro volta, dei luoghi destinati allo “shopping”. La quantità di spazio dedicata alle mostre rispetto a quella dedicata alle altre attività è sempre più piccola: se cinquant’anni fa la mostra occupava l’ottanta percento di spazio all’interno del museo, oggi la percentuale si abbassa al venticinque. La cultura, inoltre, deve essere disponibile a più persone e non più elitaria ma questo avviene all’interno di un sistema capitalistico in cui vige l’equazione “tempo di svago = tempo di consumo”, come se non fosse possibile un’altra proposta o concezione di tempo libero. Io mi sento addosso la responsabilità di fare questa domanda: “qual è il ruolo degli artisti oggi?”. Ma anche molte altre, legate al ruolo delle istituzioni, al rapporto che gli artisti hanno con le stesse e alla possibilità di attualizzare questa riflessione in tempo di pandemia in cui il tempo libero e i suoi spazi sono completamente scomparsi in favore degli spazi privati che diventano di lavoro e non più, come da tradizione, solo luoghi di affetti, relazioni e svago. Sono consapevole che il mio progetto si contraddistingua per una politica non solo all’antica ma anche un po’ in contrapposizione rispetto alle domande poste dagli altri. “Il ruolo della cultura oggi corrisponde ancora a questi ideali?”

EB: Sei scesa a compromessi con un certo tipo di logica di mostra, in cui hai dovuto riempire uno spazio in un’istituzione per lo svago delle persone?

CC: Per me è in realtà l’opposto: cerco, attraverso il mio lavoro, di offrire un’esperienza da un lato il più precisa possibile dal punto di vista estetico e dall’altro che si possa leggere in maniera semplicissima. Penso ad esempio ad una serie di interventi, come le panchine per i musei: mi sembra che sedersi su di una forma sia un’esperienza estetica valida e inclusiva. Nelle mie mostre non c’è nulla da consumare, cerco di creare esperienze accoglienti che possano garantire delle stratificazioni di lettura: penso, ad esempio, ai parchi giochi per bambini che ho realizzato proprio per cercare di andare oltre ciò che è giusto o sbagliato nel modo di fruire di un’opera d’arte contemporanea. Sia la visione che la manipolazione dell’opera sono modi ugualmente validi. Lavorando con le istituzioni, il processo di contrattazione e di negoziazione, necessario per un cambiamento – anche piccolo – del lavoro e della sua concezione, è particolarmente lungo.

EB: Tempo produttivo vs tempo improduttivo. Il lavoro si caratterizza per delle azioni finalizzate alle produzione (di cose o servizi); le caratteristiche del tempo libero, invece, sono legate allo svago o, diversamente, allo spreco del tempo. Mi interessa molto un tuo pensiero sulla concezione che vede il tempo libero come tempo perso, sciupato.

CC: Non considero lo svago come una critica, ma al contrario lo svago delinea il contesto del mio lavoro ed è, al contempo, un’osservazione per prendere coscienza e responsabilità su questo tema. Il tempo pubblico è il sito in cui il mio lavoro intellettuale e politico si colloca. Ho cominciato a capovolgere questa domanda perché il mio lavoro corrisponde al tempo libero della società e significa cioè essere al servizio dell’industria del tempo libero e dello svago altrui: ho ribaltato la questione – quasi come un negativo fotografico – chiedendomi cosa resti dopo il tempo di lavoro e se esista o meno uno spazio libero da queste problematiche, partendo dal presupposto che molte lotte dei lavoratori sono nate proprio per liberare una certa porzione di tempo al di fuori dal lavoro.

Céline Condorelli, Deux ans de vacances, Installation view, Frac Lorraine, 2020, Photograph by Fred Dott

EB: Tra le finalità di Tools for Imagination c’è quella di stimolare un pensiero critico sul concetto di ‘tempo libero’. Un ruolo decisivo è compiuto sia dagli spazi espositivi –  Musei, Fondazioni ecc. – che dalle persone che fruiscono le opere. Quali reazioni ti aspetti da parte del pubblico? 

CC: È sempre difficile per me capire il mio lavoro in relazione alle reazioni che vorrei: chiaramente chi fa il lavoro non lo fa per una reazione ma per rispondere ad una serie di problematiche e di aspettative. Il playground da cui nasce Tools for Imagination viene da un progetto con una comunità di South London e nasce dal desiderio di agire all’interno di uno spazio libero esistente. Non entra nemmeno nella questione se si tratti o meno di arte ma è un progetto che risponde a qualcosa di necessario: l’arte contemporanea risponde ad un bisogno presente in un dato contesto e in un dato gruppo di persone ed è solo in questo modo che io, come artista, riesco ad integrarmi nella comunità. Con il gruppo ho poi intessuto una vera e propria relazione: dall’elaborazione del progetto del playground ho poi realizzato, d’accordo con il curatore, un’attività porta a porta per stimolare l’advocacy, il supporto attivo, di quella comunità di cui l’opera, in quanto pubblica, farà parte. Affinché l’arte sia pubblica è necessario creare una serie di relazioni con l’artista e con il lavoro prima della sua apparizione sul suolo pubblico, in un modo tale per cui, nel momento in cui l’oggetto appare, ci siano delle persone che fanno parte della comunità che sanno cosa sia e che lo riconoscano. In questo modo si viene a creare una vita parallela per l’opera, permettendole di integrarsi con il contesto e la comunità di riferimento e non di essere imposto. Quest’opera non è quindi una reazione ma un lavoro con gli altri: io cerco di far capire che l’artista è un lavoratore all’interno di un mondo di lavoro, aggiungendo qualcosa ad un processo cumulativo infinito messo in atto da altri prima di me e sicuramente anche dopo di me. 

EB: Lo scorso settembre hai presentato il progetto in una conversazione pubblica (primo appuntamento del public program) con Maurizio Lazzarato presso il FRAC Lorraine. Ve ne sarà in qualche modo traccia nella pubblicazione finale? In cosa consisterà la pubblicazione?

CC: La conversazione con Maurizio è stata la prima parte del public program, la prima risposta alla domanda:“Com’è possibile oggi concepire il tempo libero?”. Maurizio ha lavorato molto sul tema del tempo, pubblicando un libro su Marcel Duchamp dal titolo La pigrizia, pigrizia intesa come un certo modo di vivere e di rifiutare il capitalismo. La risposta che ha dato è però problematica: “Per essere libero, il tempo deve essere libero da qualcosa ma cos’è questo qualcosa?”. Ci sono state poi delle esclusioni: si pensi ad esempio al lavoro delle donne non retribuito, che è sempre stato escluso e non considerato come tempo di lavoro e non ha mai avuto la possibilità di un tempo libero; il lavoro della schiavitù, senza il quale il capitalismo non sarebbe stato possibile, è un altro esempio di lavoro non retribuito e quindi senza possibilità di tempo libero. Dalla conversazione si sono aperte problematiche di cui avevo bisogno: la conversazione è per me una bozza da cui si sviluppa un testo più formalizzato e definitivo ed è quello che spero di ottenere anche con altri interlocutori. Quello che spero di ottenere dalla pubblicazione è la costruzione del progetto in cui il processo lavorativo sia considerato come cumulativo: l’installazione, di grandi dimensioni, presenta un libro che comincia con una piccola parte a cui se ne aggiungeranno altre progressivamente. Si passa quindi alla seduta, al film, al landscape e ad altre parti che andranno a comporre l’installazione. 

EB: Per quanto riguarda il “tappeto”?

CC: Per adesso il tappeto non esiste ancora, ma nasce dal desiderio di fare da superficie sulla quale può avvenire la conversazione. È da molto tempo che penso ad un lavoro a terra, che si definisca come una superficie, un suolo, un terreno su cui si sviluppano altre situazioni. Il tappeto e il progetto in generale sono facili da leggere: si parte dal basso, dal pavimento, per illustrare in maniera diretta la problematica e il concetto di riferimento, costruendo una nuova conversazione a strati. L’installazione prevede, infatti, il film e le sedute per guardare il film: in quel momento ci si rende conto di essere seduti su di una parte del lavoro che viene presentata ed illustrata all’interno del film. In questo modo, si spiegano e si rispecchiano tutte le parti che compongono il progetto, in maniera diretta e abbastanza ovvia.

EB: Il film di cosa tratterà? Sarà un film che documenta questa ricerca oppure sarà un lavoro parallelo?

CC: Il film lo sto realizzando in collaborazione con Ben Rivers, un filmaker che amo ma anche un caro amico. Questa è la prima volta che lavoriamo insieme: la proposta che gli ho rivolto  è stata quella di realizzare un film che si svolgesse secondo una sceneggiatura che fosse in realtà uno dei miei progetti. Ancora una volta, si ha un intreccio tra il lavoro e il contesto, diventando l’opera stessa un espediente e un contesto in cui inserire un lavoro, una riflessione e un messaggio. Il film registra il lavoro invisibile che si cela dietro la produzione di queste opere, dal fabbro alla cava da cui vengono estratti i massi per il playground, in modo da documentare tutto il lavoro materiale e collettivo al di là dell’opera e creare ulteriori riflessioni. 

EB: Il progetto è concepito come un insieme di tappe in luoghi e tempi diversi. L’opera finale – che sarà presentata al Macro di Roma (ottobre 2021) – sarà una sorta di grande installazione ‘combinatoria’ formata dall’insieme di opere prodotte nelle varie tappe. Mi racconti perché hai scelto questa soluzione finale?

CC: Quello che voglio presentare al Macro non è la fine del progetto bensì il suo inizio, dato dall’unione di tutte le parti che lo compongono. Tutti i musei coinvolti ospiteranno parti del progetto che mano a mano si aggiungeranno le une alle altre: tuttavia, il progetto completo con il libro sarà presente solo al Macro, come opera permanente e complessa. Alcune di queste opere-parti che compongono il progetto avranno delle altre vite, si pensi al film con Ben che sarà realizzato in più versioni, una delle quali destinata al cinema.


Ha collaborato Veronica Pillon —

Céline Condorelli e Ben Rivers, 2021, courtesy degli artisti