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Voci d’artista dalla Biennale Mediterranea #1

[nemus_slider id=”50115″] Testo di Francesca D’Aria Mediterranea 17 ha inaugurato lo scorso 22 ottobre negli spazi della Fabbrica del Vapore. L’evento curato da Andrea Bruciati, dal titolo No Food’s Land, ha richiamato a Milano 300 artisti under 35. La biennale ha riunito, anche quest’anno, giovani talenti provenienti da ogni area del mediterraneo, nella prospettiva di […]

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Testo di Francesca D’Aria

Mediterranea 17 ha inaugurato lo scorso 22 ottobre negli spazi della Fabbrica del Vapore. L’evento curato da Andrea Bruciati, dal titolo No Food’s Land, ha richiamato a Milano 300 artisti under 35.

La biennale ha riunito, anche quest’anno, giovani talenti provenienti da ogni area del mediterraneo, nella prospettiva di uno scambio e di una sperimentazione artistica di ampio respiro: dalle arti visive alle arti applicate, dallo spettacolo alla gastronomia, dalla musica alle narrazioni letterarie, con un programma fitto di eventi ed interventi di esperti, artisti e professionisti che guideranno workshop, reading e performance. La manifestazione giunge alla XVII edizione grazie all’impegno di un network internazionale: la Bjcem –Biennale des jeunes créateurs de l’Europe et de a Méditerrané  -, che è composta da più di 70 membri e partner provenienti da Medio Oriente, Europa e Africa, insieme per promuovere ed incentivare la cultura dell’area mediterranea. Quest’anno la Bjcem ha promosso e organizzato l’evento con il Comune di Milano, Arci Nazionale ed il patrocinio della Fondazione Cariplo.

Nell’ottica di restituire l’atmosfera internazionale dell’evento, alcuni degli artisti coinvolti hanno disegnato il profilo della propria opera in mostra in un’intervista corale, sottolineando in modo particolare gli aspetti che legano il proprio lavoro alla cultura dell’area mediterranea.

Idyll (2014) è il lavoro proposto dall’artista Lukas Janitsch (1989, Austria), composto da tre zograscope dai quali poter spiare fotografie di paesaggi bucolici ed incantati che Lukas ha scelto dopo un’attenta ricerca sul web, così come i suoni “musiche rilassanti” estratte dal canale youtube. Il terzo senso coinvolto, in questo approccio dal profumo esotico, è proprio l’olfatto: stimolato attraverso profumi sintetici che svelano la falsità di un mondo costruito, lontano dalla fedeltà naturale, al quale siamo giornalmente esposti attraverso il web, la tv e la pubblicità. «Il mio lavoro esposto alla Biennale Mediterranea, non ha un reale, immediato e diretto collegamento con l’area del mediterraneo, ma è ovvio che chi guarda l’opera può intravedere uno stile Europeo o occidentale: per esempio la visione europea della natura o l’idea che abbiamo della natura stessa è filtrata in un modo particolare dai media, da internet o dalla pubblicità occidentale. Credo il legame sia visibile soprattutto nell’estetica di questi campi fioriti: infatti l’area mediterranea è da sempre vista come il prototipo di una cartolina romantica, lo stereotipo di un idillio, concetto che traspare nella mia opera in mostra». È, invece, di natura geopolitica Skin flags (2015), opera dell’artista Akis Karanos (1988 Grecia, Paesi Bassi). Il lavoro si concentra sul drappo nazionale per eccellenza: la bandiera, vista qui come oggetto-simbolo di un’identità ormai persa. La decodifica di un’immagine di sé autentica richiede ai cittadini uno sforzo intellettivo ed emozionale, in quanto assorbiti nel vortice di stimoli che giornalmente vengono propinati al pubblico dal sistema culturale e politico della nostra società. In linea con questo principio Akis afferma: «Ho usato per l’opera la forma di una bandiera e ho sostituito le strisce colorate di questo monumento simbolico con la pelle. I marchi sulla pelle hanno preso il posto degli elementi emblematici di questo oggetto e in modo opposto a quello che si propone una bandiera ho scelto per le mie un’estetica minimalista. Ci sono delle cornici al posto delle aste che riconducono al mondo dell’arte. Al centro, per terra, c’è una bandiera stampata con colori permanenti mossa da un vibratore sottostante che simula il movimento di una bandiera modulata dal vento. In questo lavoro mi occupo, e critico, ideali come il nazionalismo che limitano o attaccano la libertà, fisica o esistenziale. Nel mediterraneo siamo molto fieri del nostro patriottismo. Vivo tra la Grecia e i Paesi bassi e posso dire che ormai le spiagge greche riflettono il sole sui cadaveri dei migranti e che le sirene nordiche somigliano a bambini deceduti che cantano maledizioni».

Gianluca Marinelli,   Cala Paura,   2014,   video full HD,   9’21’’ - Courtesy Biennale Mediterranea 17 – the artist
Gianluca Marinelli, Cala Paura, 2014, video full HD, 9’21’’ – Courtesy Biennale Mediterranea 17 – the artist

Anche il lavoro presentato dall’artista Gianluca Marinelli (1983, Italia) richiama l’attenzione sullo scenario contemporaneo delle coste, questa volta italiane, come territori di confine e scenari di una continua lotta tra uomo e natura. Il video, dal titolo Cala Paura (2014), realizzato durante una residenza artistica presso la Fondazione Pino Pascali di Polignano a Mare (BA), ha come protagonista una balena: la sua vita e la sua morte sono strettamente intrecciate alla routine dei pescatori del posto ma anche alla storia dei luoghi in cui si svolge la narrazione. L’artista è capace di toccare, in modo delicato ma puntuale, temi internazionali che sono al centro dei dibattici politici contemporanei: le migrazioni di massa, il rispetto della fauna che popola i nostri mari, l’inquinamento ambientale diventano protagonisti del video, insieme alla riflessione più intima dell’uomo sul proprio quotidiano. L’artista dà corpo «alla storia di un capodoglio catturato al largo che si ribella alla sua condizione di prigionia, trasformandosi in un uomo che verrà poi rigettato in mare, nei pressi di uno scoglio con una grande croce di ferro. La traccia narrativa trae spunto da una balena ritrovata spiaggiata lo scorso anno sulla costa di Polignano. La sua carcassa è stata ributtata in mare, nell’attesa di essere divorata dai pesci (per poi recuperarne lo scheletro, per il suo valore di mercato). Sullo sfondo certamente altre vicende, come l’ombra delle trivellazioni nell’Adriatico o il dramma del fenomeno migratorio, sino alle suggestioni dell’epica classica. Ciò che mi interessava, era una riflessione sull’assurdo e sul senso di precarieta? come le forze che in ogni epoca attraversano la vita dell’individuo; ma al tempo stesso realizzare un lavoro che celebra il libero andare verso l’altro, il dialogo, la curiosità. Il video nasce infatti dall’esperienza con la gente del luogo, soprattutto con i pescatori, con i quali ho condiviso le giornate di lavoro in mare e le loro frustrazioni; così come dalla collaborazione con altri artisti: i Chappaqua sono autori delle musiche e Laurent Trezegnies è la voce narrante».

L’opera dell’artista Leonard Sherifi (1984, Italia-Albania), The triumph of tragedy (2015), si concentra su un’altro tema decisamente attuale, proponendo allo spettatore una riflessione sul potere economico del cibo e sulle rispettive ripercussioni sul benessere, o sulla povertà, di molti paesi del mondo, soprattutto dell’area mediterranea. Nonostante l’apparente ricchezza, infatti, le popolazioni coinvolte non hanno un reale accesso ad una sana nutrizione; così le scarpe che incombono nello spazio gettano ombre sul potenziale nutrimento a cui si vorrebbe accedere senza, però, poter essere davvero liberi di farne uso. L’artista spiega che «sono numerose le questioni interconnesse al lavoro: come il commercio internazionale, le politiche economiche ed il controllo del territorio che portano alla povertà, alla fame e causano la carenza del cibo. L’installazione rappresenta i governi potenti che speculano sulla crescente distribuzione del cibo, giocando con le vite umane. La scelta dei chicchi di grano è  perché il grano nutre i popoli da migliaia di anni e la produzione del grano oggi è diventata colossale».

Si tratta invece di un’esperienza personale quella raccontata nell’opera Fever (2014) dall’artista Yasmine Elmeleegy (1991, Egitto). Anche questa volta si stimola la riflessione su un tema di attualità quale la sanità fisica e mentale. L’installazione è formata da quaranta sculture in vetro, un tavolo ed un gatto nero in poliestere. Questa ricostruzione fa riferimento all’ambiente di un ospedale a Abbasseya, nel quale l’artista è stata ammessa dopo il contagio da malaria. Questo luogo asettico e irreale diventa però simbolo della società attuale, nonché stimolo per una sorta di rituale di iniziazione per la riscoperta del sé: varcata la soglia dell’ospedale si entra in un luogo altro in cui riscoprire la propria identità. «L’opera è nata dalla motivazione di incrociare due linee parallele: la mia esperienza personale e la situazione politica locale in cui vivo e che mi circonda; quindi per me è impossibile separare la mia vita dalla dittatura culturale in cui sono inserita. Durante il processo creativo ho unito i miei pensieri a quelli stimoli esterni che arrivano in modo disordinato, ed è proprio il caos dei rapporti, le coincidenze, il caso che esploro nella mia pratica artistica».

Leonard Sherifi The Triumph of Tragedy,   2015,   installation,   shoes,   wheat,   rope,   variable dimensions - Courtesy Biennale Mediterranea 17 – the artist
Leonard Sherifi The Triumph of Tragedy, 2015, installation, shoes, wheat, rope, variable dimensions – Courtesy Biennale Mediterranea 17 – the artist
Janitsch Lukas,   Idyll,   2014,   installation,   3 light  boxes,   sound,   perfume,   variable dimensions Courtesy Biennale Mediterranea 17 – Courtesy the artist
Janitsch Lukas, Idyll, 2014, installation, 3 light boxes, sound, perfume, variable dimensions Courtesy Biennale Mediterranea 17 – Courtesy the artist
Yasmine Elmeleegy,   Fever,   2014,   installation,   glass and polyester,   variable dimensions Courtesy Biennale Mediterranea 17 – the artist
Yasmine Elmeleegy, Fever, 2014, installation, glass and polyester, variable dimensions Courtesy Biennale Mediterranea 17 – the artist