Once upon a Dream è il titolo della prima monografica dedicata a Youssef Nabil a Palazzo Grassi.
Fino al 20 marzo 2021 si potranno ammirare le fotografie colorate, ricordi nostalgici di un egiziano in esilio e lontano, che propongono una visione dell’Oriente al di là degli stereotipi e dei tabù, unendo la soggettività della memoria all’attualità del XXI secolo.
La mostra, allestita al secondo piano del palazzo, si presenta come una visione inaspettata e improvvisa di un colore nuovo, materico, che contrasta e al contempo dialoga con gli scatti in bianco e nero di Henri Cartier-Bresson (mostra in corso a Palazzo Grassi fino al 20/03/21)
Matthieu Humery e Jean- Jacques Aillagon, curatori del progetto, hanno raccolto 120 opere tra fotografie e video in una mostra fortemente suggestiva a livello tematico e allestitivo. Pezzi della collezione personale dell’artista, anonime pitture e fotografie dei secoli passati che ritraggono la quotidianità del Vicino Oriente, video e fotografie si intrecciano, in dialogo con il cinema.
C’era una volta un sogno: il sogno e il ricordo di un Egitto che sta scomparendo sotto l’egida del conservatorismo e dell’integralismo.
Nabil adotta una tecnica fotografica che riprende nei colori i manifesti cinematografici dell’epoca d’oro del cinema egiziano – tra gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso si parlava di “Nilwood” – contraddisti da colori saturi, accesi e patinati che esaltano la felicità del periodo, e la tradizione araba: fin dagli albori della fotografia, gli scatti venivano infatti colorati a mano per ricreare l’atmosfera vivace d’Oriente. I manifesti, facenti parte della sua collezione privata, dialogano con i suoi scatti, che presentano donne sensuali, danzatrici del ventre e uomini in abiti tradizionali.
“Ho scoperto tutto un mondo grazie al cinema; Il cinema mi ha dato la speranza, ma mi ha anche aperto gli occhi su quell’arte ed è stato un motivo di grande ispirazione per le mie opere, perché ho capito di voler raccontare storie”.
Le storie che Nabil racconta evocano sogni, terre lontane ma anche la sensazione di sentirsi fuori posto, non compreso. In questo ha grande importanza la lotta agli stereotipi legati al mondo arabo e in particolare alla fede musulmana: negli scatti del 2011 “Icone Velate” donne orientali e non – ricordano in particolare Marina Abramović e Alicia Kyes – sono immortalate a mezzo busto con un velo nero a suggerire come il velo assuma, a seconda del contesto, una funzione simbolica particolare.
La serie fotografica Dreams about Cairo (2008), il video I saved my Belly Dancer (2015) e la monumentale serie The Last Dance sono accomunate dal soggetto – la danza del ventre – che diviene metafora di un’arte e di una libertà che lentamente sta scomparendo a causa del conservatorismo. Attraverso immagini astratte, atmosfere da sogno e cronosequenze che richiamano la ricerca di Muybridge e i movimenti delle vesti della danzatrice liberty Loïe Fuller, Nabil sembra anelare alla ricerca di un’ideale felicità.
La nostalgia, l’esilio, il sentirsi fuori posto, la solitudine, il sonno e la morte sono dei temi centrali nella ricerca fotografica dell’artista, ricerca che emerge in maniera diretta e toccante nella serie di autoritratti, che Nabil scatta in Egitto e in tutti quei luoghi in cui vive dopo il suo esilio. Sempre di spalle di fronte ad una natura maestosa, quasi richiamando le tele del romanticismo tedesco, gli autoritratti sembrano mostrare sembianze fuori dal tempo, immerse in una dimensione onirica.
Il risveglio però è imminente: nel polittico I Will Go to Paradise, l’artista di spalle entra e scompare in mare, vestito di un abito tradizionale egiziano. Le luci si accendono, il film e il sogno sono finiti: in maniera raffinata e poetica, Nabil rende manifesta la propria visione dell’esistenza, della realtà e dell’arte.
Youssef Nabil. Once upon a Dream
a cura di Matthieu Humery e Jean-Jacques Aillagon
Palazzo Grassi
fino al 20 marzo 2021