
Nella scuderia di Magnum Photos, tra le agenzie fotografiche più importanti e influenti al mondo, si può individuare una significativa rappresentanza di fotografe donne, che hanno saputo ritagliarsi uno spazio operativo e un ruolo di primo piano nella scena della fotografia internazionale. Oggi una mostra al Museo Villa Bassi Rathgeb di Abano Terme (PD) offre la rara opportunità di vedere in Italia una selezione di scatti prodotti da una buona parte delle fotografe donne di Magnum Photos: WOMEN POWER. L’universo femminile nelle fotografie dell’agenzia Magnum dal dopoguerra ad oggi (fino al 21 settembre), a cura di Walter Guadagnini e Monica Poggi, articola le fotografie in un percorso che si sviluppa su tre piani di sale della villa veneta, in dialogo con l’architettura antica e con i suoi affreschi. Il fil rouge che ha guidato la selezione, come suggerito dal titolo, è il ventaglio di ambiti di interesse delle fotografe donne, che viene restituito da una scansione in più nuclei tematici: il contesto familiare, la crescita, l’identità, i miti della bellezza e della fama, le battaglie politiche e la guerra. Le fotografe in mostra sono Inge Morath, Eve Arnold, Olivia Arthur, Myriam Boulos, Bieke Depoorter, Nanna Heitmann, Susam Meiselas, Lúa Ribeira, Alessandra Sanguinetti, Marilyn Silverstone e Newsha Tavakolian; oltre a loro, si è scelto di esporre anche una selezione di opere di fotografi uomini dell’agenzia – Robert Capa, Bruce Davidson, Elliot Erwitt, Rafal Milach, Paolo Pellegrin e Ferdinando Scianna – che documentano e illustrano l’universo femminile, pur con uno sguardo inevitabilmente filtrato dalla propria diversità di genere. La mostra è prodotta da CAMERA Centro Italiano per la Fotografia in collaborazione con Magnum Photos e si instrada su un percorso espositivo sensibile al tema della donna e al suo processo storico di emancipazione, inaugurato dal Museo Villa Bassi Rathgeb con la mostra DONNA MUSA ARTISTA, che attraverso i ritratti di donne di Cesare Tallone aveva indagato la presenza femminile nella società italiana tra Ottocento e Novecento.


Nel catalogo, prodotto da Dario Cimorelli Editore, Walter Guadagnini e Monica Poggi offrono una necessaria contestualizzazione storica della progressiva affermazione di donne fotografe nel contesto della loro professione. Data di svolta individuata da Guadagnini è il 1936: l’anno della prima storica copertina della rivista “Life”, affidata a Margaret Bourke-White, ma anche quello del programma governativo Farm Security Administration, pensato per documentare gli effetti della siccità e dei disastri climatici sugli stati americani del sud, in cui ebbe un ruolo di primo piano Dorothea Lange; ma nel 1936 ha anche avvio la guerra civile spagnola, definita la prima guerra fotografica in quanto documentata in tempo reale dalle immagini pubblicate sulle riviste di tutto il mondo, durante la quale perse tragicamente la vita Gerda Taro, impegnata con il compagno Robert Capa a documentare quanto accadeva. Solo un anno dopo, Lee Miller, già musa e compagna di Man Ray, avvia la sua collaborazione con Vogue e negli anni successivi rivoluziona la fotografia di moda ambientandola in scenari urbani disastrati dalla guerra, per poi accodarsi all’esercito alleato in Normandia, durante la liberazione di Parigi e al momento di irrompere nei campi di concentramento tedeschi. Quattro donne, quelle citate, che non sono mai entrate nell’agenzia Magnum, fondata nel 1947, ma che hanno aperto la strada al lavoro delle colleghe che invece aderirono alla cooperativa e lottarono negli anni successivi per il pieno riconoscimento della propria autorialità, come evidenziato da Monica Poggi. Le prime furono Eve Arnold e Inge Morath, nel 1952 e nel 1954; la terza, Marilyn Silverstone, arriverà solo nel 1964. “Sia Arnold che Morath – commenta Monica Poggi – raccontano l’esperienza dei primi anni dentro Magnum alternando il sincero entusiasmo per il clima di enorme libertà espressiva e vitalità con il racconto di discriminazioni sessiste frutto non tanto dell’etica o delle idee dei singoli fotografi, quanto piuttosto di un clima culturale largamente diffuso”. Nei decenni successivi molto è cambiato; la partecipazione femminile si è fatta progressivamente più consistente ed è stata indagata in mostre importanti. In queste occasioni è stata messa in evidenza una peculiarità delle donne fotografe, ovvero “la possibilità di accedere a luoghi domestici, a spazi riservati, lontani dalla sfera pubblica dove invece avvengono i grandi fatti di attualità”, ovvero dei contesti che sarebbero più difficilmente accessibili per un autore uomo. Proprio l’ultima di queste mostre internazionali, Close Enough (New York, International Center of Photography, 2022), ha posto l’accento sul tema della vicinanza, declinando la celebre massima di Robert Capa “se le tue fotografie non sono buone, vuole dire che non sei abbastanza vicino”, riferita al fotogiornalismo di guerra, in modo da alludere, nella fotografia al femminile, ad un orientamento dello sguardo verso la sfera più intima e privata.


Non è un caso, pertanto, se la mostra WOMEN POWER inizia, negli spazi del piano interrato di Villa Bassi Rathgeb, con una sezione dedicata alla maternità, e ad aprirla non può non essere un racconto del suo momento più intimo e profondo, il parto, attraverso lo sguardo di Eve Arnold (1912-2012), che esorcizza il dolore della perdita di un figlio fissando i primi minuti di vita dei neonati all’interno di un ospedale (A baby’s first five minutes, 1958-1960). È emblematico che sia proprio la Arnold, prima fotografa donna della Magnum, a dare avvio al percorso espositivo. Oggetto di una serie di Paolo Pellegrin (1964) sono invece gli stretti legami affettivi e comunitari della famiglia allargata di una matriarca rom, Sevla, stanziata a Roma, che superano anche i disagi di condizioni di vita precarie (Sevla, 2015). Sulla stessa linea si collocano le fotografie di Olivia Arthur (1980), che guarda alle famiglie e in particolare ai bambini rifugiati in un centro di accoglienza di Glasgow, provenienti da paesi straziati dalla guerra; la fotografa compone gli scatti a partire dalle richieste a lei sottoposte dai bambini stessi, offrendo loro l’opportunità di scegliere come essere rappresentati, nella spontaneità del gioco, senza assoggettarli allo spettro del loro passato (Children of Europe, 2017). La mostra continua seguendo idealmente i bambini nel loro processo di crescita fino alla maturità, in quella fase di passaggio in cui si lotta per ricavarsi uno spazio operativo di autodeterminazione rispetto alle norme e alle aspettative sociali, confrontandosi con il modello offerto dagli adulti. Bruce Davidson (1933) interloquisce con gli adolescenti afroamericani di Harlem (East 100th Street, 1666-68), Susan Meiselas (1948) con le ragazze di Little Italy, in un reportage di momenti di vita condivisi con i suoi soggetti durato quindici anni (Prince Street Girls, 1975-90). Un’altra collaborazione a stretto contatto è quella tra Alessandra Sanguinetti (1968) e due cugine argentine, Guille e Belinda: la fotografa reifica sogni e fantasie delle ragazze attraverso la documentazione dei loro tableaux vivants, mentre improvvisano la rappresentazione dell’Immacolata Concezione, o l’Ofelia di Millais (The Adventures of Guille and Belinda and The Enigmatic Meaning of Their Dreams, 1999-2004). Un mondo di sogni e fiabe antiche è anche quello evocato da Nanna Heitmann (1994), ma il racconto della leggenda di Baba Yaga si intreccia con storie comuni di ragazze russe che aspirano a diventare grandi ballerine, oppure con temi attuali come l’emergenza climatica e lo sfruttamento del suolo (Hiding from Baba Yaga, 2018).


Segue una sezione che indaga il processo di negoziazione dell’identità individuale in rapporto con quella collettiva. Il progetto Mask (1955-62) di Inge Morath (1923-2002) mostra suoi amici e collaboratori che, ritratti in contesti domestici o lavorativi, indossano maschere caricaturali concepite dal disegnatore Saul Steinberg, che enfatizzano con ironia comportamenti e aspirazioni degli americani nell’era del boom economico. I costumi e le cerimonie collettive che compaiono nelle foto di Ferdinando Scianna (1943) sono invece quelli delle feste religiose in Sicilia, prodotte per accompagnare il libro omonimo (1965) di Leonardo Sciascia, mentre a distanza di cinquant’anni Lua Ribeira (1986) documenta i riti della Settimana Santa di Puente Genil, in Andalusia, che vedono coinvolti gruppi di figuranti con inquietanti maschere realistiche, indossate anche dai bambini (The Visions, 2019). Una menzione particolare merita la serie As It May Be (2011-in corso) di Bieke Depoorter (1986), che nel corso di plurimi viaggi in Egitto chiede ospitalità a sconosciuti e documenta l’intimità familiare delle donne e dei bambini; poi, a distanza di anni, ritorna nel Paese portando con sé un libro che contiene quelle fotografie, e invita le persone a scrivere su di esso dei commenti di ciò che vedono. Le scritte in arabo, fissate indelebilmente sulle fotografie, spesso manifestano contrarietà verso i comportamenti delle donne, reputati in contrasto con le usanze religiose, e verso la loro eccessiva libertà. Quello orchestrato da Depoorter è un racconto polifonico e in presa diretta delle tensioni tra diverse anime di un Paese al crocevia fra tradizione e modernità. Proseguendo, WOMEN POWER passa a considerare la rappresentazione del corpo femminile nel contesto pubblico, attraverso il raffronto tra due personalità di primo piano della società americana degli anni ’50 e ’60, Marilyn Monroe – raccontata da Inge Morath, Eve Arnold ed Elliott Erwitt (1928-2023) – e Jacqueline Kennedy – nelle foto di Erwitt, come in quelle di Marilyn Silverstone (1929-1999). La diva e la first lady: due modelli agli antipodi costantemente sotto i riflettori, anche nei rari momenti in cui emergono le donne al di là delle icone, Marilyn che si ritira nella sua camera d’albergo con i piedi gonfi o Jacqueline nel momento del lutto al funerale del marito. Il percorso di mostra prosegue e il corpo si fa luogo politico di autodeterminazione: le spogliarelliste del Club Flamingo (Susan Meiselas) convivono con le comunità queer di Mumbai (Olivia Arthur) e di Beirut (Myriam Boulos), mentre in Polonia si rivendica il diritto all’aborto sotto il simbolo del fulmine, divenuto emblema della lotta, sfidando le repressioni del governo (Rafał Milach). Tra tutte spicca la foto di una donna iraniana – una cantante professionista – in chador, al centro di una strada, con due guantoni da boxe; così Newsha Tavakolian (1981) immagina la copertina di un album musicale in un Paese in cui sin dalla rivoluzione islamica del 1979 la Sharia impedisce alle donne di produrre musica e suonare in pubblico (Listen Project, 2010-11).


Salendo al piano terra e poi al primo piano, si sviluppa l’ultima sezione, dedicata alla guerra da una prospettiva femminile: le partigiane che combattono per eliminare gli ultimi avamposti tedeschi durante la liberazione di Parigi (La fine della guerra, 1945) negli scatti di Robert Capa (1913-1954) si trovano a condividere le pareti affrescate della villa con le guerrigliere comuniste delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, colte da Tavakolian nella difficile fase di transizione verso il reinserimento nella società dopo la tregua raggiunta con il governo nel 2017. Le donne, dopo aver vissuto per tutta la vita in campi nascosti nella giungla, si ritrovano ad aspirare a una vita normale, pur tra mille dubbi e preoccupazioni per possibili ritorsioni nei loro confronti, una volta che ritorneranno nelle città (Women Fighters of the FARC, 2017). Chiudono la mostra due serie inerenti a fatti recenti e tragici: il servizio sugli stupri di guerra in Nigeria e in Repubblica Democratica del Congo commissionato a Cristina De Middel (1975) dal Centro Nobel per la pace (The body as a battlefield, 2018), e il reportage di Nanna Heitmann sulla percezione in Russia della guerra in corso con l’Ucraina, dalle cerimonie di propaganda sulla Piazza Rossa alla repressione delle manifestazioni pacifiste, dalle veglie funebri dei caduti al disegno di una colomba, replicata dall’autore su un muro che già ospitava un suo precedente dipinto censurato dal governo (La guerra vista da Mosca, 2022).
Arricchirà la mostra un public program, nella forma di un ciclo di incontri multidisciplinari per riflettere sul ruolo della donna dal dopoguerra ad oggi, in collaborazione con il Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università di Padova. Gli incontri analizzeranno il percorso verso l’emancipazione delle donne e le trasformazioni sociali degli ultimi settant’anni. Si distingue in particolare l’evento “Voci di donne”, replicato in più date tra maggio e giugno, che attiverà le fotografie in mostra con la recitazione di versi di grandi poetesse.



