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La ricerca di William E. Jones è caratterizzata da un forte interesse per l’analisi delle strategie di controllo della comunicazione messe in atto dal potere dominante. La sua pratica si fonda su materiali d’archivio che vengono reinterpretati gettando luce su aspetti marginali della società sottoposti a rimozione. Holes in the Historical Record comprende una serie di stampe e un video, parte di un progetto più ampio che svela i meccanismi censori attuati durante la grande campagna fotografica governativa organizzata dalla Farm Security Administration tra il 1935 e il 1943 per documentare la situazione delle zone rurali degli Stati Uniti dopo la Grande Depressione del 1929.
I buchi – holes – sono i fori praticati sui negativi ritenuti non idonei e resi così inutilizzabili da parte della Information Division, struttura di controllo statale che dettava i criteri formali delle fotografie e decideva la loro diffusione. Jones si serve proprio di questi frammenti scartati, attinti dal fondo fortunatamente conservato per oltre settant’anni alla Library of Congress, per restituire questi documenti stigmatizzati – o uccisi, killed – dai fori che segnano un’interruzione nelle immagini. Le stampe sono riorganizzate secondo affinità formali e contenutistiche in nuove sequenze – dittici e trittici – che raccontano la contro-storia di uno dei più complessi decenni della vita americana. Di questo enorme lavoro di ricognizione e di salvataggio delle fotografie, finalmente restituite, è testimonianza Rejected (2017) un mediometraggio in cui centinaia di fotogrammi ripescati dall’oblio che si alternano senza commento sonoro, ponendo ancora una volta la questione sempre attuale della libertà di stampa e di reportage.
Anche Michael Fliri nel suo nuovo progetto AniManiMism lavora sul concetto di occultamento inteso però come agente di trasformazione e di definizione identitaria, che si manifesta attraverso la maschera, oggetto iconico e ricorrente nella sua ricerca, come nelle performance Returning from places i’ve never been (2016) o I pray i’m a false phophet (2015), solo per citare le più recenti. L’installazione Where do i end and the world begins (2014) è composta da cinque sculture ognuna delle quali è ottenuta dall’unione dei calchi interni di due maschere di diversa provenienza geografica e culturale. I modelli sono irriconoscibili: le sembianze rappresentano fisionomie abbozzate, come se fossero ritratte durante il processo che le ha plasmate. L’artista dà consistenza all’impalpabile intercapedine tra la maschera e il volto, lo spazio segreto in cui le identità si soprappongono e si ibridano in fisionomie instabili, in perenne oscillazione. Restano ben distinguibili i due fori aperti per gli occhi, che permettono il contatto tra il dentro e il fuori, tra l’io e il mondo. Vedere ed essere visti, oltre l’apparenza, come nella serie fotografica My private fog II (2017) – proseguimento l’omonimo lavoro del 2014 – in cui il viso dell’artista è coperto da alcune mascherature in resina trasparente che riproducono i paesaggi rocciosi e montani dei suoi luoghi d’origine. Il progressivo annebbiamento del volto dovuto alla condensazione del respiro finisce per celare quasi completamente la fisionomia trasformandola magicamente in natura, lontana eco all’eterno mito di Dafne. Il tema del mascherarsi ritorna anche nella serie di ceramiche intitolate Gloves (2017) in cui le mani – protagoniste di molti lavori di Fliri, qui rappresentate da guanti che, opportunamente uniti, diventano delle schermature indossabili – nascondono mentre altre volte creano e animano la materia inerte come in AniManiMism (2017), una suggestiva videoinstallazione a quattro canali ognuno dei quali restituisce il movimento lento di una maschera-burattino trasparente ripresa in un gioco di ombre proiettate. I quattro video, tra loro simili ma differenti per soggetto e durata, creano un effetto asincronico destabilizzante e ipnotico, in bilico tra apparizione onirica e creazione digitale tridimensionale: l’ambiguità tra natura e artificio determina l’impossibilità di definire esattamente l’oggetto della visione ed è proprio questa condizione di indeterminatezza foriera di molteplici possibilità che, ricondotta alla questione dell’identità, cara all’artista, si pone come rappresentazione metaforica della nostra condizione precaria e liquida.
William E. Jones Holes in the Historical Record
Michael Fliri AniManiMism
Galleria Raffaella Cortese, Milano