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Wilfredo Prieto | Galleria Massimo Minini

[nemus_slider id=”65566″] Usare il paradosso, l’antinomia, l’ossimoro per creare delle opere pregne di significato e coerenti nell’intenzione è quello che viene fatto da Wilfredo Prieto nei lavori presentati alla galleria Massimo Minini. Utilizza materiali poveri o preziosi accostandoli per creare disturbo e indulgere ad un pensiero critico nei confronti della realtà (politica, sociale, economica). Il […]

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Usare il paradosso, l’antinomia, l’ossimoro per creare delle opere pregne di significato e coerenti nell’intenzione è quello che viene fatto da Wilfredo Prieto nei lavori presentati alla galleria Massimo Minini. Utilizza materiali poveri o preziosi accostandoli per creare disturbo e indulgere ad un pensiero critico nei confronti della realtà (politica, sociale, economica). Il sottosuolo della mostra è un misto di denuncia e morte. Costantemente vengono a galla i contrasti tra ricchezza e povertà, tra estetizzazione e dissolvenza, tra significante e significato. Manca però la durezza dell’attacco o la ferocia della denuncia: è tutto sotto i nostri occhi, ma bisogna comunque averne.

Significativamente Prieto fa iniziare la mostra all’esterno della galleria, giusto un metro prima dell’ingresso, dove in una fuga tra due piastrelle inserisce un diamante, ricoprendolo di polvere: è questa in primo piano, enfatizzata da una preziosità assoluta che ha la sola funzione di dissiparsi per fare posto al massimo dell’umile e dell’insignificante. La disparità che qui ha luogo però si consuma nel momento in cui calpestiamo i due elementi che la creano: come a dire che le differenze non esistono se non si dà loro voce, se non le si nomina e, solo dopo, le si guarda.

Nello stesso discorso si inseriscono altre opere, come Una catena d’oro è una catena (2017), niente d’altro che una collana d’oro appesa a parete: cosa palesa? Una catena, non il valore del metallo di cui è composta. Di fronte a questa, nella stessa sala c’è un’orchidea di serra florida, gonfia di vita, emblema del fiore di prestigio e, in più, cosparsa di Chanel n° 5, simbolo a sua volta del gusto estetico mainstream, dell’esasperazione di un’omologazione sensoriale… sono traduzioni diverse del feticcio della bellezza canonizzata e accolta. Cosa le accomuna? La scomparsa. Accanto a questi lavori stanno due opere realizzate con materiali poverissimi, di scarto, reperti della lateralità: Buco di calza (2017) e Panni sporchi (2017), nient’altro che quello che indica il titolo e conferimento di dignità estetica a ciò che sta sempre in silenzio sulla soglia di quello che ci viene dato in pasto, ma di pari valore nella sostanza.

Questo discorso politico e sociale, tipico del lavoro di Prieto, analisi dei meccanismi del mondo e dei rapporti di potere, è come se si concretizzasse nell’opera Calcoli e probabilità di una linea spezzata (2017), costituito da lunghi rami posti obliquamente tra pavimento e soffitto e in diverse direzioni nella prima sala espositiva, in modo da formare una sorta di grafico vulnerabile e tremante, con elementi poveri e destinati alla scomparsa. Ma anche nei diversi disegni realizzati con pochi tratti veloci, come idee di un progetto, appunti presi di sguincio durante una telefonata, idee di piccoli o grandi lavori: Senza titolo (Viaggio infinito) (2015) come scarabocchio di una strada per un viaggio continuo senza fine; Massimo spazio, minimo spazio (2016) come essenza di un rapporto impari tra contenuto e contenitore; Senza titolo (Ritratto) (2016) come rappresentazione di un volto ridotta alla parola che lo indica (“face”) incrociata alla sua negazione verbale (“no face”) o segnica (“no face” cancellato da una croce). Di fronte ai disegni c’è Colori negligenti (2017), un ingombrante faro a soffitto che proietta sulla parete un opaco e timido bagliore dei colori dello spettro del visibile: questi sono infingardi e si intravedono, non fanno il punto come in politica…non si riesce mai a focalizzare!

La mostra termina con l’annientamento del canone e del modello, di ogni simbolo paradigmatico e di ogni archetipo, e con la traduzione esplicita del titolo della mostra, Swan bones: nell’ultima sala il pavimento è cosparso da decine di ossa e ossicini dello scheletro di un cigno. Prieto, facendo il verso a Michel Fokine, dà un colpo di grazia alla calotta esteriore di un contenitore di rimandi, allusioni, leggende, aforismi…come fosse un abito politico. L’intera mostra sembra una scenografia di un teatro povero, ma attualizzato nella contemporaneità: domina in ogni stanza un senso di fragilità, di evidente verità, di maniacale deriva verso il concreto, tradotto in piccoli gesti dichiaratori e chiarificatori in contrasto con l’apparenza dei segni convenzionali e con l’esasperazione del nonsenso.

Wilfredo prieto, Dust amplified by diamond 2011 Dust and diamond 3 mm ø
Wilfredo prieto, Dust amplified by diamond 2011 Dust and diamond 3 mm ø
Wilfredo Prieto, Huesos de cisne/Ossa di cigno/swan bones, 2017 Ossa Dimensioni variabili
Wilfredo Prieto, Huesos de cisne/Ossa di cigno/swan bones, 2017 Ossa Dimensioni variabili
Wilfredo Prieto, Negligent colours 2017 Projection Variable dimensions
Wilfredo Prieto, Negligent colours 2017 Projection Variable dimensions
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