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Who’s the real cuckoo here? Chi è il vero pazzo qui?

A pochi giorni dalla conclusione di IPERNATURAL, la XXXIX edizione di Drodesera, festival delle arti performative che si è svolto negli spazi suggestivi della centrale idroelettrica di Fies, Dro (Trento) – un art work space che è sede di Drodesera e officina creativa in continuo mutamento tra performance e performing art – dedico alcune riflessioni […]

Nana Bilus Abaffy e Parvin Saljoughi, foto di Alessandro Sala, courtesy Centrale Fies

A pochi giorni dalla conclusione di IPERNATURAL, la XXXIX edizione di Drodesera, festival delle arti performative che si è svolto negli spazi suggestivi della centrale idroelettrica di Fies, Dro (Trento) – un art work space che è sede di Drodesera e officina creativa in continuo mutamento tra performance e performing art – dedico alcune riflessioni sulle performance viste, a partire dal punto di vista interno di Filippo Andreatta, co-curatore del festival con Barbara Boninsegna, direttrice artistica di Centrale Fies.

Valeria Marchi: Partiamo semplicemente dal titolo dato all’edizione di quest’anno e dalle motivazioni che hanno spinto i curatori – con la responsabile comunicazione di Centrale Fies Virginia Sommadossi – a pensarlo: che cosa significa “Ipernatural” o a cosa allude?

Filippo Andreatta: In termini curatoriali, IPERNATURAL è il terzo capitolo del festival che verte su una ricerca più estesa iniziata tre stagioni fa con il titolo Supercontinent, seguito da un’edizione successiva, Supercontinent 2. Quando abbiamo pensato Supercontinent, l’idea –  nata in progressione e non a priori – era quella di ragionare sulle tracce migratorie di animali e persone come quegli elementi che disegnano l’orografia planetaria: da questo presupposto di interesse abbiamo creato un programma che era legato a tematiche o forme artistiche affini a questo muoversi, che lascia una traccia. Supercontinent 2 – o “alla seconda” – era il desiderio di guardare queste tracce da un po’ più lontano e allo stesso tempo di immergersi in esse, nel paesaggio: guardare questi movimenti lasciati sul pianeta e iniziare a considerare il pianeta – o meglio il paesaggio – non tanto come qualcosa di staccato dall’umano o dall’urbano ma come un unicum e quindi, con dedizione, abbiamo lavorato su elementi paesaggistici all’interno della drammaturgia, della performance e della danza contemporanee. In quest’ultima edizione, IPERNATURAL, ci sono due binari: uno è una specie di lente di ingrandimento su questo paesaggio osservato l’anno scorso, una sorta di “zoom in”; l’altro nasce dalla consapevolezza che più ci si avvicina più si notano le biodiversità, abbiamo quindi lavorato su queste biodiversità e su come potessero essere messe in una condizione di alta visibilità.

VM: Come avete costruito il programma di quest’edizione? Mi interessa conoscere i festival visitati, le stagioni teatrali viste e gli spazi culturali che per voi (o per te) sono fondamentali per la scoperta dei linguaggi performativi attuali più interessanti e che, magari, ti hanno fatto incontrare lavori o artisti che avete poi proposto al festival 2019…

Filippo Andreatta: In generale il programma degli ultimi 3, 4 anni si sviluppa con i curatori in modo sistemico ed ecologico fra le varie sezioni del festival. Ci sono degli strumenti di lavoro che sono abbastanza chiari: uno strumento è la call internazionale di Live Works, quindi è una richiesta diretta agli artisti intorno ai progetti a cui stanno lavorando che scrivono e mandano a Centrale Fies: si tratta di una sezione che può essere accostata più a una fase di ricerca “scientifica” o “accademica” di studio, di confronto e di scoperta della scena performativa, al di là del panorama nazionale o europeo, cercando di abbracciare globalmente le istanze artistiche contemporanee degli artisti emergenti in questo campo. Quando parlo di artisti emergenti non intendo riferirmi alla loro età anagrafica ma piuttosto a quelle urgenze artistiche che non hanno avuto un completo supporto o che hanno bisogno di una sorta di incubazione per esplodere. Alcuni di questi artisti selezionati per Live Works vengono poi proposti l’anno successivo, nella parte di festival più legata alle performing arts che alla performance. Poi, c’è il metodo classico di viaggiare, di andare in varie istituzioni europee principalmente a seguire le programmazioni, focalizzandoci soprattutto – ma non solo – sui partner dei network europei a cui siamo legati, che vanno dall’Islanda al Libano a tutta l’Europa; oppure, di festival che hanno una programmazione affine alla nostra: per nominarne uno potremmo citare il festival norvegese di BIT Teatergarasjen (http://bit-teatergarasjen.no/), dove abbiamo visto il lavoro di Juli Apponen che abbiamo portato qui al festival. Quest’anno abbiamo introdotto nuova modalità collaborativa invitando la coreografa Alma Söderberg – che è stata spesso qui al festival col suo lavoro – a curare la parte musicale del festival chiamata Alma’s Club, lavorando con lei sotto una forma mutata e cambiando le dinamiche di ricerca artistica. Infine, ci sono due ultime modalità: il continuo dialogo con gli artisti italiani con cui collaboriamo, di costante update sullo stato della loro ricerca artistica e le residenze che servono a capire il progresso di un determinato progetto ma anche, a prescindere da questo, della ricerca artistica in toto.

Jaha Koo – Cuckoo Foto di Roberta Segata – Courtesy Centrale Fies
Alessandro Sciarroni, Augusto – Foto di Alessandro Sala – Courtesy Centrale Fies

VM: Ultima domanda: mi piacerebbe che ricostruissi le relazioni e gli intrecci possibili tra i lavori ospitati a IPERNATURAL: temi comuni, forme linguistiche assimilabili o, al contrario, opposizioni e distanze stilistiche tra opere e linguaggi.

Filippo Andreatta: Tra le cose più belle ci sono le assonanze che si trovano tra gli spettacoli all’interno di una stessa serata. Quella è una cosa che su carta si ricerca sempre ma quando poi c’è la visione dal vivo è molto più epifanica. Penso ad esempio alla serata del 24 luglio, quando in programmazione c’era DUCTUS MIDI di Anne Lise Le Gac e Arthur Chambry in cui sembra che lo spettacolo si sviluppi quasi privo di una struttura razionale, in maniera totalmente organica e disposta alla confusione, in cui sembra che ci sia qualcosa che non va e questo qualcosa che non va poi si sviluppa, per trovare una sua forma e poi cambiare improvvisamente; e penso allo spettacolo visto subito dopo, AUGUSTO di Alessandro Sciarroni, in cui la forma è netta e precisa eppure, pur essendo netta e precisa, è una forma che ha relativa importanza perché il suo è un lavoro che ha a che fare con l’emersione di una dinamica sentimentale provocata dal ridere. Poi ci sono accostamenti di altra natura, ad esempio lo scambio tra artisti che arrivano qui attraverso Live Works come Michele Rizzo, che ha presentato l’anno scorso SUPERPOSITION, e che poi è tornato al festival di quest’anno con il lavoro DEPOSITION, che mostra lo sviluppo della sua ricerca. Poi, rispetto agli elementi ipernaturali o di “ipernatural” del festival si possono vedere diverse sfaccettature, come quelle sottolineate da Emanuele Coccia e Riccardo Falcinelli nel talk ospitato nel LITTLE FUN PALACE quindi il ruolo dell’ipermediazione naturale e culturale, che possiamo ritrovare in alcuni lavori in programmazione che usano lo schermo come elemento di mediazione (ad esempio GREEN NASIM di Nana Biluš Abaffy & Parvin Saljoughi).

Un altro aspetto molto importante per noi curatori è cercare di lavorare in rispetto della specificità disciplinare, nella specificità del dominio delle performing arts – il teatro la danza la musica contemporanea – e quello della performance che, pur avendo una componente dal vivo, nasce dal dominio delle arti visive. Essere consci delle differenze di origine, comprendere gli strumenti che ci permettono di chiarificare la provenienza delle diverse discipline ma vedere anche gli elementi in comune e quindi condividere degli intrecci tra le varie sezioni è molto importante a livello curatoriale e di sostegno al lavoro artistico. Per quest’anno mi viene in mente l’esempio dell’artista Sofia Jernberg che è stata presentata l’ultimo giorno di Live Works come guest artist ma che faceva da ponte per l’Alma’s Club, mostrando nel suo bellissimo concerto come l’elemento performativo, di movimento interiore della laringe e delle labbra potesse influenzare e modificare l’aspetto propriamente fonico-musicale del suono.

Mi presto al lavoro di relazione e connessione che Filippo Andreatta propone come possibilità di lettura all’interno di una stessa serata di IPERNATURAL, per riflettere sulle performance che ho visto il 24, il 25 e il 27 luglio a Centrale Fies.

Gli spettacoli che seguo il primo giorno di festival sono LA MACCHIA. Studio per un radiodramma di Riccardo Giacconi e Andrea Morbio con Silvia Costa, AUGUSTO di Alessandro Sciarroni corpoceleste_C.C.OO# e CUCKOO di Jaha Koo / CAMPO. Si tratta di performance che apparentemente non hanno nulla in comune, sia considerando le tematiche affrontate (o le narrazioni proposte, come nel caso di Giacconi/Morbio e Koo), sia guardando agli aspetti formali e stilistici intrapresi. A guardar bene, però, le assonanze sono maggiori di quel che si crede.

Riccardo Giacconi, Andrea Morbio, Silvia Costa – Foto di Alessandro Sala – Courtesy Centrale Fies
Michele Rizzo, foto di Alessandro Sala courtesy Centrale Fies

Sala Mezzelune, 24 luglio: il lavoro LA MACCHIA assume le forme di un radiodramma dal vivo, una sorta di detective story d’inizio Novecento che si sviluppa con un approccio etno-antropologico di ricerca tipico del lavoro di Andrea Morbio e Riccardo Giacconi, con l’ausilio di registrazioni fatte su campo a investigare i testimoni o meglio, gli eredi dei testimoni, e i cittadini che hanno sentito parlare della “macchia” della Val Brembana. La scena è scabra, c’è un lungo tavolo e due performer ai lati corti lontani tra loro: Andrea Morbio voce narrante, Silvia Costa contro-voce interprete e infine, fuori scena, Riccardo Giacconi che cura musiche, suoni e voci registrate. La scelta cromatica è neutra, gli abiti sono beige o color kaki e pochi sono gli oggetti in scena: un piccolo ritratto scultoreo di Simone Pianetti, un pezzo di stoffa bianca, una boccetta da farmacia per liquidi, il libro Crimes of violence and revenge del criminologo Harry Ashton-Wolfe pubblicato a Boston nel 1929.

Il lavoro mi ha fatto pensare a una specie di cow-boy story di casa nostra, forse per l’ambientazione campestre e montana della vicenda, forse per le fughe e gli inseguimenti narrati, una caccia all’uomo che non porterà mai alla cattura dell’assassino, forse proprio per l’efferatezza vendicativa del crimine di Simone Pianetti, raccontato oggi ma commesso il 13 luglio 1914 nel territorio bergamasco di S. Giovanni Bianco e Camerata Cornello. L’eroe solitario, intraprendente, ribelle e inviso alla comunità in cui vive, è segnato da un destino avverso fin dall’inizio della sua storia, così decide di vendicarsi e uccide sette persone: il medico, il segretario comunale, sua figlia, il giudice conciliatore, il parroco, il messo comunale e Caterina Milesi, una contadina che non voleva pagargli un sacco di farina. Lo stile narrativo è coinvolgente e intervallato da registrazioni di testimonianze e interviste fatte da Morbio di sapore documentario e momenti lirico-poetici molto efficaci (la scena in cui Silvia Costa canta scalza una dolce e inquietante filastrocca bambinesca, muovendosi nello spazio, mentre Morbio-voce narrante si stacca dal suo ruolo oggettivo accovacciandosi a terra sotto il tavolo ad ascoltare cullato la melodia). Pianetti fugge via e non viene mai ritrovato, lui che nel paese era «quello che aveva studiato ed era intelligente»: lui è l’anarchico, lo stravagante, il vendicatore, l’assassino, il reietto ma anche l’eroe di un dramma che affronta la strategia sociale dell’isolamento dell’altro-da-sè nel pericolosissimo campo del nemico di una comunità beghina e gretta.

Turbina 1, 24 luglio: la scena ricoperta di bianco di Turbina 1 è la tela su cui si disegna raffinatissimo il movimento di AUGUSTO di Alessandro Sciarroni, uno spettacolo in cui i dieci performer fanno e disfano, con il potere della risata, lo spettro amplissimo dell’emotività umana. Il pubblico è davvero rapito in questa ritualità collettiva, una pratica costante, ritmica e ripetitiva dei corpi che, resistenti e continui, si avvicinano e si allontanano, si aggregano e si isolano, si accoppiano e scoppiano in moti circolari o spiraliformi, fino ad essere in linea o in geometrico assetto sul palcoscenico. Questi corpi si prendono e giocano leggeri, si rincorrono e sembrano innocenti, altre volte sono aggressivi e violenti ma non c’è mai una distinzione netta tra i due poli.

C’è grande calma in questa continuità, anche se è perturbante, sommessa, pronta ad esplodere. Ogni tanto il riso è scalfito da irruzioni più forti come un grido, uno schiaffo, un canto ma la verità è che niente può consolare questa euforia (e questo dramma) folle.

Juli Apponen, foto di Roberta Segata, courtesy Centrale Fies
Sofia Jenberg – Foto di Alessandro Sala – Courtesy Centrale Fies

Nemmeno la dolcissima melodia barocca di Pere Jou da Monteverdi pacifica gli animi: «Adagiati, Poppea, acquietati, anima mia: sarai ben custodita. Oblivion soave i dolci sentimenti in te, figlia, addormenti. Posatevi, occhi ladri, aperti, deh, che fate, se chiusi ancor rubate! Poppea, rimanti in pace: luci care e gradite, dormite omai, dormite». Il lavoro di Sciarroni è di una bellezza eccezionale e meriterebbe di essere visto e rivisto.

Sala Comando, 24 luglio: Jaha Koo presenta a Fies lo spettacolo CUCKOO (parte di Hamartia Trilogy con Lolling and Rolling e The History of Korean Western Theater – titolo provvisorio) in cui racconta una storia personale ma che rivela le storture di un intero sistema economico e sociale, quello della Corea del Sud dalla fine degli anni Novanta a oggi. Hana, Duri e Seri sono i nomi dei tre cuociriso-performer che condividono la scena con Koo, nelle vesti di narratore. Con dialoghi a volte surreali, spesso drammatici, Koo e i cuociriso («cuckoo» si riferisce a una marca di cuociriso elettrici della Corea del Sud) ci accompagnano in un lavoro che parla di suicidio, recessione economica, spinta sociale all’ipercompetitività e distanza generazionale. Soprattutto l’ultima emerge chiaramente nelle riflessioni dell’autore che, aiutato dalle immagini proiettate sullo sfondo – scampoli di società, di politica, di protesta –, si domanda come la crisi del paese e la bancarotta economica in cui è precipitato, possano essere causa del “Gulibmuwon” (고립무원), quell’isolamento esistenziale che caratterizza la vita dei giovani sudcoreani oggi.

C’è qualcosa di fortissimo che, una volta terminate le performance, resta in mente come comune a tutte: il senso di divergenza dal conforme nel corpo, nel gesto, nell’atteggiamento e nella parola, la ribellione e l’anarchia rispetto a una forma data, sia essa sociale e politica (Giacconi/Morbio e Koo) o comportamentale ed esistenziale (l’Augusto di Sciarroni è un pazzo, un clown), la follia e l’extra-vaganza dell’essere umano quando esce dai canoni decisi e compie un’azione, magari la accentua e la reitera ossessivamente (le sette vittime di Pianetti, il continuo vagare, lo staccarsi e il riattaccarsi della risata dei performer in Augusto, o l’attenzione che Koo rivolge ai suoi cuociriso, improbabili protagonisti attivi della Storia sud-coreana). Questi aspetti fanno della prima serata di festival un progetto curatoriale organico, vivace e intelligente.

Anne Lise Le Gac & Arthur Chambry – Foto di Alessandro Sala – Courtesy Centrale Fies
ph Alessandro Sala OHT