Nel 1917 Franz Kafka scrive Il cruccio del padre di famiglia, breve racconto che narra la storia di Odradek, un oggettino quanto mai curioso che rifugge ogni genere di catalogazione. Si tratta di un agglomerato di elementi, più precisamente di un rocchetto piatto e a forma di stella su cui sono avvolti fili di vari colori e qualità, scarti raccattati qui e là assunti a mo’ di strano corpo, e dal cui centro fuoriescono due asticelle, saldate insieme e impiegate come una specie di apparato locomotore. Odradek è animato, ma si faticherebbe a definirlo un essere. È un nulla e allo stesso tempo un insieme. È qualcosa che, non essendo del tutto definibile, induce il narratore (il padre di famiglia) a riconsiderare il concetto stesso di vita.
Ancor prima di determinare ulteriori e più complesse riflessioni, il racconto di Kafka pare suggerire che la materia, ciò che noi consideriamo inerte, può “agire” e influenzarci in maniera più o meno significativa. I princìpi di utilità e affezione rendono sufficientemente conto della sua incidenza: sono chiari esempi di come un oggetto possa acquisire caratteristiche del tutto estrinseche alla propria natura per partecipare alla dimensione umana.
Ma se si recuperasse il grado zero? Se, cioè, si tentasse di emancipare l’inanimato dall’animato, la sua esistenza dal nostro sguardo?
Il lavoro di Liz Magor, in mostra alla Fondazione Giuliani, si muove in questa direzione effettuando un’inversione gerarchica che questiona i ruoli di “agente” e “agito”, “vivente” e “vissuto”.
Lo stesso titolo della personale, The Rise and The Fall, sembra rimandare all’incostante rapporto che instauriamo con ciò di cui ci serviamo. Il desiderio, di per sé mutevole, sottende in effetti l’acquisto e l’uso di ogni oggetto determinandone anche, e in breve tempo, l’archiviazione e l’abbandono: all’ascesa, derivata dalla feticizzazione, segue la caduta, dipesa dal costante ricambio promosso dalla moda e dall’obsolescenza programmata.
Tale presupposto, senza dubbio rilevabile nella mostra, coesiste d’altra parte con una possibile ulteriore interpretazione del titolo, di carattere materialistico, che intende l’elevazione e la caduta come conseguenze o effetti dell’intervento di una forza più propriamente fisica.
In Delivery (Sienna), Delivery (Brown) e Good Times, per esempio, concatenamenti di peluche, fili e tessuti pendono dal soffitto resistendo alla gravità e producendo al contempo un senso di levità e sospensione. In equilibrio precario, le installazioni cristallizzano un movimento compiuto in maniera del tutto autonoma, che non necessita di sollecitazioni esterne e che inizia e si conclude in assenza di testimoni. In questo senso l’assemblaggio si configura come un tentativo di auto-sostegno, un patto di solidarietà sottoscritto dalle sue componenti per sottrarsi all’uso umano e alla consunzione che ne deriva. Lo si rileva in The Boots, dove due animali di peluche abbracciano un paio di stivali analogamente ricoperti di pelo, come a voler dimostrare di essere altro da sé ed esistere aldilà del proprio statuto di merci; oppure in Coiffed, dove un grande leone giocattolo, privato della pelliccia ma non della criniera, si adagia su una struttura simile a un altare o a un recinto sacro sul quale sono disposti, come offerte votive, cofanetti portagioie e tessuti. Sprovvisto di occhi, il leone pare rifiutare quella aderenza al reale che ne limiterebbe le funzioni per prediligere delle sembianze anomale e a tratti inquietanti, poco familiari e per nulla rassicuranti.
D’altro canto l’istituzione di una relazione principalmente visiva con l’osservatore sembra riemergere nella grande installazione intitolata Pet Co e composta da una serie di scatole semitrasparenti in cui materiali effimeri come capelli d’angelo e incarti di caramelle si mescolano a innumerevoli occhi, prelevati da giocattoli di plastica o pupazzi imbottiti, che sorvegliano lo spazio espositivo.
La collocazione di queste strane presenze entro contenitori simili a vetrine o a teche implica una loro sublimazione, l’istituzione di una nuova gerarchia che elegge il residuo e lo scarto a reperto degno di valorizzazione e cura. È in quest’ottica che potrebbe leggersi anche l’impiego di guanti nelle opere Leather Palm e Small Hand, dove questi ultimi svolgono una funzione di supporto e protezione, trasformandosi in entità dinamiche che trattengono la cenere e preservano il fragile corpo di un uccello tassidermizzato. Lo stesso vale per il maglione a trecce e il montgomery incorporati rispettivamente in Oilmen’s Bonspiel e Perennial, custodi di ecosistemi regolati da forze ed equilibri interni capaci di riconfigurare usi e significati della materia inerte.
Nella tasca scucita del cappotto, memore di una forma umana oramai assente, conchiglie, biscotti, fili, incarti e fazzoletti, paiono presentarsi come veri e proprio soggetti e assumere (per usare una definizione coniata da Bruno Latour) il ruolo di attanti, entità non umane partecipi della complessità e vitalità del mondo.