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VISIONI — Intervista con Orecchie D’Asino

Mauro Zanchi ha intervistato Orecchie D’Asino il duo formato da Ornella De Carlo e Federica Porro. Mauro Zanchi: Parto da una serie di rifrazioni nella risacca, da frammenti di un’intuizione che mi avete spedito: “Un’onda è sempre diversa da un’altra...

Orecchie D’Asino, Mi lecca come un gelato (2021), Bergamo, BACO

Mauro Zanchi ha intervistato Orecchie D’Asino il duo formato da Ornella De Carlo e Federica Porro.

Mauro Zanchi: Parto da una serie di rifrazioni nella risacca, da frammenti di un’intuizione che mi avete spedito: “Un’onda è sempre diversa da un’altra onda; ma è anche vero che ogni onda è uguale a un’altra onda, insomma ci sono delle forme e delle sequenze che si ripetono, sia pur distribuite irregolarmente nello spazio e nel tempo. […] Quello che intendo fare in questo momento è semplicemente vedere un’onda, cioè cogliere tutte le sue componenti simultanee senza trascurarne nessuna. E non appena m’accorgerò che le immagini si ripetono saprò d’aver visto tutto quel che volevo vedere, potrò smettere.  […] Ma poi salta fuori sempre qualcosa di cui non avevo tenuto conto. Quando ci si aspetta che l’onda rotoli, ci si accorge che non c’è più l’onda ma solo il suo riflesso, e anche questo rapidamente scompare, diventa un luccichio, un’immagine in cui la mia assenza è colta come in uno specchio, un’immagine triste…”. Nell’opera che avete installato a BACO, le correlazioni tra qualcosa e qualcos’altro, i rapporti e le influenze che ondeggiano tra le forme e le immagini delle forme, mettono in azione forze che non si comprendono completamente all’istante, ma solo dopo varie maree. Cosa è venuto a galla dopo aver realizzato l’opera video – e soprattutto dopo averla messa in azione in un luogo espositivo – e dopo averla vista più volte messa in relazione con la sabbia e gli oggetti fisici dislocati nello spazio?

Orecchie D’Asino: Come all’interno dello stesso video, anche nell’installazione di BACO e nelle precedenti fasi che da tre anni vedono trasformare il pro -getto/-cesso di Mi lecca come un gelato la sensazione che si prova è proprio ciò che viene enunciato all’inizio: “ci sono delle forme e delle sequenze che si ripetono, sia pur distribuite irregolarmente nello spazio e nel tempo”. Talvolta le forme ritornano ma solo come un riflesso (“e anche questo rapidamente scompare, diventa un luccichio, un’immagine in cui la mia assenza è colta come in uno specchio, un’immagine triste…”), una marea che lascia sulla riva residui, immagini e parole sotto forma di un’ eco lontano. Simile dinamica accade durante la creazione dei sogni: le immagini reali ritornano come proiezioni passate o future. Il processo può capovolgersi trovando nella realtà ciò che si proietta nei sogni, generando una piacevole e magica sospensione.
Ma ritorniamo alla riflessione iniziale, la stessa del signor Palomar, un uomo che osservando il mondo nei suoi minimi dettagli evidenzia l’ossessione di conoscenza e lo stato di irresolutezza che ne deriva. Similmente la ricerca di un’immagine, lontana dalla paranoia della totalità, procede a zig a zag, per intermittenze: diventare interrotta  trasformazione di tutto. La narrazione che ne deriva è fuori controllo, non si sa dove si stia andando e cosa c’è da aspettarsi. Ecco, forse Mi lecca come un gelato rappresenta la storia di una storia che scappa cercando altre storie, o forse dovremmo dire altri sogni.

MZ: Come agite all’inizio di un lavoro nel rapporto tra testo e traduzione in forma?

OD’A: Come nel montaggio della sceneggiatura di un film, si suddivide il testo in diversi link, immagini e movimenti. Il punto iniziale è dunque un momento di scomposizione e frammentazione: come per la pianificazione di una vetrata gotica, scardiniamo il testo per poi andare a ricomporlo con nuovi punti di giuntura. Ma tra una maglia e l’altra si perdono dei punti, si creano dei vuoti e delle attese che aumentano il grado di contingenza delle immagini: evidenziano ciò che rimane assente e si allontanano dal compiacimento dato dalle aspettative convenzionali. Il montaggio così allontana le immagini da una possibile descrizione, per avvicinarsi a un loro senso evocativo: esse non parlano da sole, ma attraverso varie sovrapposizioni e stratificazioni di senso. Questo metodo di montaggio richiama ancora una volta il movimento delle onde e i solchi da esse generate.

MZ: Cosa rappresentano per voi le immagini (ovviamente è riduttivo parlare di immagini in senso lato, perché esistono innumerevoli tipologie di immagini, e quindi mi riferisco alle immagini oniriche a cui avete attinto per realizzare questa opera)? Quali dinamiche si innescano quando le immagini sono causate da ciò che si vede rispetto a quelle che si muovono invece partendo da ciò che si sa?

OD’A: Se fossimo in grado di rispondere può darsi che smetteremmo di cercarle. Probabilmente è il loro valore ipotetico e non di verità che continua ad accrescere simultaneamente un senso di insoddisfazione e di tensione che causa un costante divenire della ricerca stessa. Insomma, come un innamorato non sa quel vuole, ed è lontano da ciò che si sa, può essere che non saremmo così coinvolte in quello facciamo se sapessimo cosa le immagini rappresentano. Forse potremmo dunque definire le immagini come un’ipotesi positiva (nonostante le incertezze e le stranezze), come le dinamiche di produzione dei sogni (lontane dal pregiudizio e dalla risolutezza).

Orecchie D’Asino, Mi lecca come un gelato (2021), Bergamo, BACO

MZ: Cosa è accaduto nel doppio sogno che sta all’origine dell’opera? Quali sono le immagini “capaci di assumere la simultaneità dell’esperienza e lo svelamento della sua produzione”?

OD’A: Nel racconto iniziale una bambina incontra un cane sulla riva del mare. Camminando insieme al cane si lascia travolgere da varie avventure e disavventure: dai desideri alle paure, dai gelati ai primitivi, dall’impossibilità di scegliere il gusto all’utilizzo del corpo morto per restare in vita, la protagonista vola da situazione in situazione armata di palme usate come remi in aria. Il viaggio si conclude quando, attraversata la superfice di legno, si passa dall’altra parte, in cui sembra di essere nella trasformazione del sogno precedente o della realtà che lo ha generato: sdraiata sotto una palma, un cane la lecca come un gelato. 
Le immagini e gli oggetti / le parole e i sensi che ritornano in una nuova forma o funzione, evidenziano così il continuo slittamento di diverse realtà temporali e spaziali, oniriche e concrete: il sogno si moltiplica e si confonde con la realtà, ci si trova in un doppio sogno in cui la simultaneità dell’esperienza è accompagnata dallo svelamento della sua produzione. Questo genera una sensazione di estraniamento e di familiare allo stesso tempo. 
Se poi si riesce ad inserire lo sguardo dell’osservatore all’interno della creazione dell’immagine stessa, si genera un’immagine dell’immagine, una doppia immagine. Nel migliore dei casi quest’ultime continuano ad avere un proprio riverbero all’interno dei sogni di chi le osserva.

MZ: Nello svolgimento visuale del rapporto tra immagini, parole e suoni nel racconto di Mi lecca come un gelato a un certo punto appare un riferimento alla celebre opera di Velasquez, ovvero all’idea di rappresentare l’atto stesso della rappresentazione (nel set fotografico la sagoma nera di Federica si rivolge verso gli spettatori e scatta una foto col flash). Che cosa viene evocato in questo riferimento e gesto? 

OD’A: 0
Ma è davvero Federica che scatta? E l’altra figura? Sebbene nascosta è lì e riprende la scena dalla stessa parte dell’osservatore. Dunque al posto dell’immagine riflessa nel dettaglio dello specchio dell’opera di Velasquez, in cui sono presenti il re di Spagna, Filippo IV, e sua moglie, Marianna D’Austria, abbiamo la presenza di chi registra le immagini che scorrono. Proprio in questa porzione di specchio, la posizione dell’osservatore combacia con quella del creatore, fino a che un’altra figura armata di camera e flash, offuscandoci la vista, ruba l’immagine dell’immagine: non solo l’illusione dell’atto di rappresentazione ma l’azione reale di ripresa. 

Proporzione 
fotografo : pittore : idea di rappresentazione : illusione = regista : osservatore : azione : verità 
Risultato = 0 (Le componenti opposte si annullano -> sospensione)

MZ: Dentro la messa in scena, vi sono alcuni passaggi che segnano una cesura concettuale, per esempio la scena del set che finisce con lo scatto del flash e tutto ritorna bianco, oppure l’uscita di scena del cane nero che occupa tutto lo spazio dello schermo, etc. Potreste approfondire questa apertura o estensione verso qualcos’altro che giunge successivamente?

OD’A: Potremmo definirli come dei piccoli movimenti di caduta, momenti di sospensione del racconto in cui potersi chiedere dove le immagini ci stanno trascinando, ma subito un’altra onda è pronta a colpirci. In queste transizioni la volontà è quella di portare lo sguardo dell’osservatore in un moto perpetuo, senza né capo né coda. Un ritmo che segue la velocità dei trapassi e di tutti i percorsi del discorso che si perdono sotto la sabbia. Le immagini si susseguono come se fossero mosse da un nastro trasportatore, l’una porta dietro la precedente per ellissi, salti e sincopi, come accade nei sogni. La comunicazione si svolge attraverso figure in fuga dall’insita comodità e stabilità dettata dalla logica. Così le scene di susseguono secondo un ordine proprio, schizofrenico a volte, verso nuove connessioni e scenari.

MZ: Nelle vostre opere l’immagine è l’oggetto stesso? L’oggetto che è nel video è anche presente nella stanza dove il video viene proiettato. Cosa mettete in azione con queste fuoriuscite, nel cortocircuito tra dentro e fuori o viceversa tra esterno e interno?

OD’A: L’immagine e l’oggetto dell’immagine si trovano inseriti in un gioco di specchi in cui l’ultimo riflesso sarebbe l’oggetto immaginato, quindi impossibile. Le immagini diventano automatismi sparsi e dispersivi, troppo deboli o troppo forti rispetto a una fine. La testa e il corpo, la figura e la traccia, rimbalzano da una parete all’altra, da un desiderio all’altro, per sfuggire da una categorizzazione e scappare da una definizione: la testa parte via dal corpo seguendo le linee del fuori e ritorna. Un modo meno categorico, più fluido, di pensare le cose.

MZ: In che senso “l’oggetto è uno specchio, le immagini si susseguono senza contraddizioni. Uno specchio perfetto, non riflette immagini reali, ma desiderate”?
OD’A: “Guardi il tuo corpo nello specchio, lo fissi e ti parte la testa. […]. Alice è addormentata e sogna di muoversi.” (Gianni Celati, Alice disambientata, 1978). Lo specchio diventa l’oggetto perfetto con cui osservare le immagini dell’oggetto, l’oggetto del desiderio. La moltiplicazione che ne segue mostra una dilatazione del tempo e simultaneamente un’evidente mancanza di ciò che cerchiamo, il desiderio… “And like any form of lust, it can never be fully satisfied”…

Orecchie D’Asino, Mi lecca come un gelato (2021), Bergamo, BACO

MZ: Mi faccio specchio e rifletto due vostre domande, pensando alla presenza del cane nel doppio sogno e nel video: Che cos’è un istinto? Come si studiano gli animali, alla luce di un principio esplicativo?

OD’A: Bau 

MZ: Come cercate di andare oltre la ricorrente tendenza di attribuire alle cose reali le qualità di una immagine, come una serie d’apparenze?

OD’A: Susan Sontag spiega la ricorrente tendenza di attribuire alle cose reali le qualità d’una immagine con l’illusione che si ha quando ciò che ci è davanti è così irreale da indurci a credere di essere in un film. Ma viceversa se all’interno di un film ci sono immagini lontane dalla realtà o da una narrazione possibile allora è facile pensare che si stia effettivamente guardando un film. Dunque, piuttosto che allontanarci da questa tendenza quello che si cerca di fare è di rendere almeno esplicita la finzione, attraverso l’esposizione del processo stesso di messa in scena: la figura del gobbo, il totem che prende forma, lo scatto rubato… Con questo meccanismo la finzione potrebbe diventare una falsa verosimiglianza, dunque se – x – = + allora la finzione è vera.

MZ: Cosa è per voi un totem (spesso presente nella vostra ricerca) e cosa è invece una immagine di un totem?

OD’A: Il totemismo è una delle forme religiose più primitive in cui si insegna che non bisogna uccidere il proprio antenato quanto piuttosto mantenere una relazione di ricordo con esso. Allo stesso modo nel nostro lavoro il totem è il momento in cui facciamo i conti con i nostri antenati: esso diventa un richiamo all’ordine, il contenitore dei contenuti simbolici, che vengono portati avanti e costantemente manipolati. Il sogno si incrocia con un altro sogno, un pensiero scoppia all’interno di un altro, l’artista innamorato procede verso la sua immagine rovesciata. 

MZ: Raccontate un’altra volta, per chi leggerà questa intervista, il sogno che ha innescato Mi lecca come un gelato?

OD’A: “Davanti a me il mare è grigio e il cielo nuvoloso. Sono le nove di mattina. Sento un forte odore di pipì, dietro di me vedo un cane. Aspetto che finisca di fare la pipì e poi mi avvicino per accarezzarlo. Iniziamo a camminare insieme. Proseguiamo tenendo il mare sulla destra e sulla sinistra un paesaggio deserto, davanti la spiaggia infinita. Ad un certo punto ci fermiamo ed entrambi vediamo una vecchia industria. Andiamo vicino ma una rete sottile ci separa e possiamo solo scorgere delle ciminiere ancora fumanti. Ho però la certezza che è una fabbrica di lecca lecca. 
Lì di fianco c’è una gelateria, decido di entrare insieme al cane. Le commesse mi dicono che è disponibile solo un gusto ma non posso sapere quale sia. Prendo un gelato da quattro palline. Tenendo in mano la cialda mi accorgo che il gelato è giallo, lo provo: il gusto è banana. Dopo averlo assaggiato ed essermi assicurata del gusto lo condivido con il cane. Poi ci dirigiamo verso ovest. 
Vedo un’isola: cavalco il cane che iniziando a volare cerca di avvicinarsi, ma è più lontana del previsto. Con il passare del tempo il cane inizia ad essere stanco. Cerco un modo per aiutarlo: spezzo il cono in due parti simmetriche e le conficco tra le sue costole così da farle diventare delle ali. Arrivati sull’isola, troviamo una tribù di indigeni affamati. Gli porgo altre due palline di gelato che avevo conservato nelle tasche. Ne chiedono ancora, allora gli indico la strada per la gelateria. Se ne vanno. 
Mi metto a scavare con il cane: nella sabbia troviamo una superficie di legno e gli chiedo di scavare ancora di più. Il cane si affatica troppo e muore per lo sforzo. Dopo un primo momento di rammarico, decido di tenere il corpo da parte perchè ho paura che gli indigeni potrebbero ritornare e, ancora affamati, possano mangiarmi. Infatti dopo poco li vedo avvicinarsi così gli dono il corpo del cane morto. In cambio mi regalano un tappeto volante. 
Salendo sul tappeto prendo con me due grandi foglie di palma per poterle usare come remi in aria. Durante il tragitto la palma più bella prende fuoco e sono costretta a lanciarla nell’oceano. Intanto si fa notte e in lontananza vedo la luce di una città . Atterro. Sono nel mio paese d’infanzia. Nel solito posto, davanti ad una cancellata arrugginita, trovo la vecchia signora porta sfortuna che mi guarda male. Sento un brivido dietro la schiena, come un presagio. Mi giro di scatto e una grande ombra continua a seguirmi lentamente. Cerco un nascondiglio in un casale abbandonato. Al suo interno c’è un lungo corridoio con molte porte, scelgo la porta turchese con gli angoli arrotondati. È chiusa. La sfondo a calci: ritrovo me stessa con in mano un gelato ma di un colore diverso. Ho paura di essere daltonica. Lo assaggio per accertarmi se il gusto coincida, ma provoca un effetto strano: inizio a perdere la percezione delle parti del corpo ad una ad una fino a sciogliermi. Sotto forma liquida, oltrepasso il pavimento fino a giungere su una superficie di legno. Emergo dall’altra parte. Sono su un’isola, sdraiata sotto una palma e di fianco a me il cane mi lecca come un gelato”.

Orecchie D’Asino, Mi lecca come un gelato (2021), Bergamo, BACO