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— VISIONI — Aurelio Andrighetto, Immagini ostili

In parallelo alla serie di interviste dedicate alle nuove ricerche in ambito fotografico – vedi la rubrica New Photography – abbiamo coinvolto anche critici, teorici, curatori e artisti per indagare, attraverso il loro punto di vista, le ulteriori possibilità e...

Anonimo, Senza titolo, anni Quaranta, Collezione privata

In parallelo alla serie di interviste dedicate alle nuove ricerche in ambito fotografico – vedi la rubrica New Photography – abbiamo coinvolto anche critici, teorici, curatori e artisti per indagare, attraverso il loro punto di vista, le ulteriori possibilità e declinazioni della fotografia.
Mauro Zanchi ha posto una serie di domande per individuare le dinamiche in atto e in divenire nel panorama attuale, sia italiano sia internazionale. Si prende in considerazione anche il passaggio dalla fotografia alla metafotografia, per cercare di capire se sia possibile innescare nuovo senso, come è accaduto nei campi della metascrittura e del metalinguaggio.

Conversazione con Aurelio Andrighetto —

Mauro Zanchi: Da millenni trasformiamo figure (narrate, sonore o lette) del linguaggio verbale (o scritto) in immagini mentali, e viceversa. La medialità delle immagini si estende anche al di là del visivo: nell’uditivo, nell’olfattivo, nel tattile, e nel gusto. Il racconto e le parole stimolano la nostra immaginazione. Anche quando sentiamo un odore, esperiamo un sapore, tocchiamo qualcosa o qualcuno, il nostro cervello elabora ricordi e immagini che riconducono esperienze e memorie del passato a quel determinato odore o profumo, sapore, cosa sentita col tatto. Le immagini viaggiano da uno stato all’altro, ma hanno sempre bisogno di un corpo e di una persona (di un medium vivente) “che riesca a fornire alle immagini esperienza e significato personali” (come asserisce Hans Belting).  Noi abbiamo o possediamo immagini già in origine, senza aver fatto esperienza diretta con il nostro corpo e con la nostra vita, che sono lì, anche nei nostri sogni, e aspettano di essere svelate?

Aurelio Andrighetto: La notte del 31 novembre 2015 sogno la parola “monolettico”, mai letta o ascoltata prima. Si è inserita nel flusso di alcuni pensieri sui limiti e gli errori della logica classica, chissà come migrati nel sonno: una rielaborazione onirica degli studi su alcuni testi del II secolo d.C. che mi stanno occupando da alcuni giorni. Cosa significa “monolettico”? mi chiedo nel dormiveglia. Mi sveglio del tutto e cerco la parola nei dizionari, ma senza successo. La trovo in un saggio sulla morfologia della lingua greca antica. Si tratta di una forma attica del futuro perfetto, simile al nostro futuro anteriore, con la differenza che non esprime l’anteriorità relativa al futuro semplice, ma gli effetti nel futuro di un’azione anteriore.
Per esempio: “io sarò morto”. Indica cioè le conseguenze nel futuro di un’azione svolta nel passato. La parola “monolettico” emerge così dal sogno per portare alla coscienza un contenuto suo proprio, ma che essa stessa ignorava. Emerge attraverso l’ascolto o la lettura di una parola.

MZ: Ipotizziamo che esista un immaginario nel nostro DNA, o nell’inconscio più espanso (collettivo, atavico, atemporale?). Come possiamo fare emergere dal nostro immaginario queste ulteriori possibilità del mondo, che potremmo chiamare immagini “altre”, che qualcuno può definirle “sacrali”? Che non sono le immagini o i simboli mediati da fotografie, dipinti, disegni, film, poesie, narrazioni. Nessuna immagine visibile giunge a noi se non attraverso un medium? La fotografia attuale riesce a rendere visibile immagini che sono nel nostro immaginario più recondito? O perlopiù restituiscono ancora (come la fotografia tradizionale) solo porzioni particolari e determinate di mondo?

AA: Quello che vedo e/o ascolto in sogno o nel dormiveglia sembra effettivamente testimoniare l’esistenza di un inconscio “espanso”, i cui contenuti  emergono e raggiungono la coscienza senza la necessità di un medium . Mi chiedi se la fotografia attuale potrebbe fare altrettanto. Avrei un’ipotesi. Non so se la parola “monolettico” l’ho letta o udita. Se dovessi averla letta dovrei averla anche vista.
In questa relazione fra visione e lettura ha luogo un fenomeno enigmistico o “enigmatico”, che muove i contenuti spostandoli da un piano all’altro e che potrebbe avere un rapporto con la fotografia. In un suo saggio – ora non ricordo quale – Stefano Bartezzaghi scrive che il rebus italiano ha subìto uno sviluppo nel corso dell’Ottocento, modificando il rapporto fra testo e immagine: se nel sonetto figurato era la figura a installarsi nelle righe della scrittura ora è la scrittura che s’installa nelle dimensioni della figura.
Il rebus si presenta come una vignetta in cui compaiono oggetti disparati, da convertire in parole a loro volta, da scomporre e ricomporre, insieme alle lettere e alle sillabe inserite nel paesaggio visivo, per ristrutturare il significato di ciò che vediamo e leggiamo.

David Gray Archibald, August at Newark, Anni Trenta, Collezione privata
Anonimo, Senza titolo, anni Venti, Collezione privata
Anonimo, Senza titolo, anni Cinquanta, Collezione privata

MZ: Il nostro pensiero si muove contemporaneamente su due binari: quello del linguaggio verbale (e scritto) e quello delle immagini. Che differenza c’è tra una parola o un testo letti in un libro e invece parole fotografate o testi che compaiono in fotografie (che possono essere protagoniste o comprimarie della scena)?

AA: Anni fa, riflettendo sulle fotografie che contengono parole, ho pensato che forse avrebbero potuto avere un rapporto con il rebus moderno, e ho chiesto a Bartezzaghi un parere. La sua opinione è che – nel caso del testo fotografato – il rapporto fra il testo e l’ambiente nel quale questo s’installa, pur non possedendo carattere di rebus, sia tale da conferirgli enigmaticità. La sua ipotesi è che l’aura enigmatica, che queste scritte sembrano possedere, si sprigioni dalla loro relazione con il supporto, enfatizzato da un tipo di scrittura “estroflessa”. In altri termini, la “lettura” è influenzata dalle variabili visive dell’immagine fotografica (tono, colore, forma, texture, dimensioni) e dalle configurazioni percettive che presenta. Il supporto della scrittura “introflessa”, il foglio bianco o la pagina di scrittura elettronica, invece è neutro, non ha carattere e quindi l’enfasi è sul testo. Ho l’impressione che attraverso la mobilità, l’instabilità del significato, provocata da questo meccanismo di visione e lettura, vale a dire attraverso l’enigmaticità possano emergere e transitare certi contenuti. Non è il medium a trasmetterli ma il processo psichico che può essere stimolato e sollecitato dal medium. D’altra parte, tornando a termine “monolettico”, il sogno opera come il rebus. In Fliegende Blätter, un periodico in voga all’epoca, Sigmund Freud definisce il sogno come “indovinello figurato”, riferendosi ai rebus epigrafici.

MZ: Oltre al rebus viene in mente l’impresa, ovvero ciò che dialoga, e innesca un ulteriore senso, tra un motto (o un verso poetico o filosofico) e un’immagine. Certe opere enigmatiche del periodo manierista erano state definite “immagini cornucopia”, perché in grado di rilasciare più significati e letture. Era una declinazione post-rinascimentale di ciò che oggi chiamiamo “polisemico”.

AA: Esatto. Una lettura della fotografia, attraverso i problemi posti dall’impresa, una lettura “anacronistica”, potrebbe essere interessante.

MZ: In Per una filosofia della fotografia, Vilém Flusser sostiene che “le immagini sono mediazioni fra il mondo e l’uomo. L’uomo ‘ek-siste’, non ha cioè un accesso diretto al mondo, cosicché le immagini devono renderglielo rappresentabile. Nel momento in cui lo fanno, tuttavia, esse si pongono fra il mondo e l’uomo. Dovrebbero essere mappe e diventano schermi: anziché rappresentare il mondo, lo alterano, fino a che l’uomo si mette a vivere in funzione delle immagini da lui create”. Inoltre c’è una contrapposizione tra immagini mentali e immagini materiali. Quelle materiali dipendono dai media che le veicolano e dai corpi che le muovono o le ricevono. Ci sono immagini che rispecchiano il mondo esteriore e altre che rappresentano le strutture profonde del nostro pensiero. Tu cosa pensi di tutte queste dinamiche che si mettono in collegamento tra esterno e interno, fra archetipi e forme del mondo, tra individuo e i media (anche immaginando gli sviluppi che si innescano ora attraverso un approccio metafotografico e poi nella ricerca artistica del futuro)?

AA: Avrei un’idea. Te la illustro, partendo da quello che potrebbe essere il refrain di questa chiacchierata sull’oltremedium e la metafotografia: “se l’ho letta devo averla anche vista (la parola “monolettico”) e se l’ho vista devo averla anche letta (qualsiasi immagine, anche fotografica)”.
Siamo continuamente a contatto con immagini, e non solo con le parole fotografate dalle quale siamo partiti, che possono mutare in simboli e segni, anche linguistici. Per esempio, osservando l’immagine di una mela morsicata a cosa pensiamo? A Biancaneve? Oppure alla nota azienda di prodotti tecnologici? In questo caso il valore logografico dell’immagine (l’immagine sta al posto di un nome) prevale non solo su quello figurativo (la mela) ma anche su quello allegorico (il frutto proibito della conoscenza), che peraltro sembra essere all’origine della sua adozione come logo di Apple. Il senso dell’immagine oscilla quindi tra un’interpretazione figurativa (mela), una allegorica (frutto proibito della conoscenza) e una logografica (“Apple”, il nome dell’azienda). Inoltre, la parola “morso” in lingua inglese “bite”, essendo omofona al termine “byte” del linguaggio informatico, introduce un gioco fonetico. Ecco qua la logica combinatoria del rebus: trasformare le immagini in parole da scomporre in unità fonetiche, da ricomporre poi per formare nuove parole, talvolta evocando altre immagini, che a loro volta richiamano altri significati, come nei sogni che, come si diceva, Freud associa agli indovinelli “figurati”, agli enigmi. Edipo e la Sfinge. Il linguaggio dell’enigma è ostile, è una sfida tra chi formula l’enigma e chi lo interpreta. Abbiamo bisogno di sfide? Abbiamo la necessità di un linguaggio ostile (la fotografia dell’oltremedium deve essere ostile, deve sfidarci?) per una ristrutturazione dei linguaggi (che tu e Sara Benaglia state esplorando in rapporto alla fotografia, anzi alla metafotografia).

Anonimo, Untitled, anni Venti, Collezione privata
Anonimo, Come in un sogno, anni Venti, Collezione privata

MZ: Le immagini ostili dunque oscillano fra figura e segno da leggere e da interpretare?

Le chiamo immagini “cangianti”, pronte a mutarsi in segni e i segni pronti a mutarsi in simboli “se motivati” –  come sostiene la semiologa Caterina Marrone, riferendosi agli studi di Ferdinand de Saussure – e formano costellazioni polisemiche, dove i significati si concatenano in una serie di rimandi associativi, nel contesto di una figurazione in cui le variabili visive e le configurazioni percettive hanno il loro peso: un contrasto cromatico, il variare di una texture o un allineamento possono ristrutturare una relazione e riorientare il senso di ciò che vediamo e “leggiamo”.
Ho il sospetto che queste catene associative ci conducano dove “monolettico” si presenta alla coscienza.
Non resta che andare alla caccia di immagini fotografiche “cangianti”, alla ricerca di un linguaggio ostile.

MZ: Se il linguaggio dev’essere ostile intraprendo un viaggio, contemporaneamente a ritroso e nel futuro posteriore. Provo ad aprire altre questioni attraverso la sequenza di immagini, che qui si mette in relazione ai percorsi evocati nelle tue risposte.

Note biografiche

Aurelio Andrighetto
Ha pubblicato interventi d’artista, brevi saggi, narrazioni e articoli in riviste e quotidiani (Arca, Boîte, Doppiozero, Ipso Facto, Nuova Prosa, Riga, Il Verri, Il Riformista), eBook e volumi (Apeiron, Bacacay, Contemporanei, Doppiozero, Graphos, Mondadori).

Ha esposto le sue opere e presentato le sue teorie sullo sguardo presso musei (Great North Museum: Hancock, Gamec, Gasc, Hdlu, Man, Mart, Mlac, Revoltella), festival (Fotografia Europea, International Theatre Festival, Mystfest), fondazioni, centri di ricerca e gallerie tra le quali BACO, Continua, E/static, Franco Soffiantino, Milano, Mudima, Neon. Curatore di mostre e progetti sullo scambio tra codici e linguaggi nelle culture e sub-culture del contemporaneo. Cofondatore di Warburghiana ha contribuito alla realizzazione dei suoi format sperimentali.

Anonimo, Senza titolo, anni Quaranta, Collezione privata
Anonimo, 4 gennaio 1938, Collezione privata
Anonimo, Untitled, anni Sessanta, Collezione privata
Anonimo, Insegna bulgara, Anni Cinquanta, Collezione privata
Anonimo, Pueri cantores, anni Sessanta, Collezione privata
Anonimo, Untitled, anni Sessanta, Collezione privata