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Vincenzo Agnetti e il volo nel linguaggio

[nemus_slider id=”67525″] — Nel 1914 Gallimard pubblica postumo Un coup de dés jamais n’abolira le hasard di Stéphane Mallarmé, in un volumetto che ricalca filologicamente le volontà dell’autore. Il libro racconta allegoricamente della vita attraverso la storia di un uomo sbatacchiato nel mare in tempesta. Mallarmé costituisce qui il vero ponte fra la cultura sperimentale […]

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Nel 1914 Gallimard pubblica postumo Un coup de dés jamais n’abolira le hasard di Stéphane Mallarmé, in un volumetto che ricalca filologicamente le volontà dell’autore. Il libro racconta allegoricamente della vita attraverso la storia di un uomo sbatacchiato nel mare in tempesta. Mallarmé costituisce qui il vero ponte fra la cultura sperimentale dell’Ottocento e quella del Novecento, dando vita ad una poesia capace di rivolgersi alla parola non solo da leggere ma da osservare e contemplare e, poi, udire: sinesteticamente si passa dalla superficie letta, a quella vista, fino a quella lirica che arriva al timpano.
Da qui, passando per i Calligrammes di Apollinaire (Il pleut ne è un esempio incisivo), per Paolo Buzzi, Filippo Tommaso Marinetti, Ardengo Soffici, Carlo Carrà, Francesco Cangiullo, René Magritte, Carlo Belolli, Augusto De Campos, Nanni Balestrini…si fa avanti una ricerca visiva che vede la parola supportata da un corpo, che si fa presenza elegante, che saltella tra diversi forme espressive (pittura, grafica, fotomontaggio, fotografia,…) e si permea di un discorso trasversale capace di parlare con un supporto linguistico fattosi opera d’arte visiva, spesso verticale, contemplabile anche nei suoi risvolti estetici.

Negli anni ’70, in Italia, questo percorso viene portato avanti, tra gli altri, da un artista milanese, Vincenzo Agnetti, che è stato capace di sviscerare il fenomeno linguistico a livello visivo ed ottico per sondare i confini e le pieghe del linguaggio: le sue potenzialità comunicative, la sua universalità a partire da una produzione intimamente periferica, la sua “eleganza” di restituzione, il “coinvolgimento pienamente ‘umano’ che si può raggiungere attraverso la parola”. Per dirla con le parole dell’artista: “Esiste […] un unico stato di aura, dove arte e poesia sono la stessa cosa […] quando la punteggiatura e gli a-capo della poesia identificano delle immagini: oppure quando la didascalia di un’opera d’arte ti pone le immagini come interpunzione”.
Tutto questo porta Agnetti ad elaborare un concettualismo con un “risvolto metafisico e letterario, pieno della nostra cultura, vorrei dire mediterraneo, se oggi questo aggettivo non apparisse riduttivo” (M.M.)…fino ad annacquarsi di poetica vera e propria, capace di pura incisività.

AGNETTI. A cent’anni da adesso - Palazzo Reale, Milano 2017 - Installation view
AGNETTI. A cent’anni da adesso – Palazzo Reale, Milano 2017 – Installation view

Queste sono alcune delle linee guida per visitare la mostra dedicata all’artista ora in corso a Palazzo Reale di Milano (fino al 24 settembre), curata da Marco Meneguzzo insieme all’Archivio Vincenzo Agnetti. Il titolo è emblematico: Agnetti. A cent’anni da adesso, come a dire che con quest’antologica (che per definizione significa “tutto fino ad ora”) si voglia partire per andare avanti nella ricerca, nella scoperta, nell’offerta al pubblico del lavoro dell’artista scomparso prematuramente nel 1981.

Sono esposti – nelle diverse sale che offrono una scansione cronologica e tipologica delle opere – lavori lavori che tracciano tutta la parabola artistica dell’artista. Si passa dalla serie dei ritratti (costituiti da incisioni di parole su rettangoli di feltro), agli Assiomi (“bacheliti nere incise con colore a nitro bianco che, attraverso paradossi, tautologie, illuminanti sintesi di pensiero, sono il contrappunto analitico della sua produzione”), Il libro dimenticato a memoria (coniugando l’idea secondo cui “la cultura è l’apprendimento del dimenticare”, quasi fisiologicamente necessario per fare evolvere in libertà la nostra mente, che contiene in sé, anche se dimenticato, il bagaglio acquisito). Oppure c’è la Macchina Drogata del ’69: una calcolatrice Olivetti in cui i numeri sono stati sostituiti con le lettere, in linea con un’operazione propria del suo lavoro, volta a vedere nel rapporto matematico con le lettere la possibilità di raggiungere un significato universale e trasversale della lingua, e della comunicazione.

E se Agnetti fosse riuscito a costruire con le sue brevi frasi un discorso ampio, capace di stare come un vestito addosso a tutti, e insieme di non essere di nessuno? Se le sue sequenze di parole potessero davvero costruire un ponte fragile tra il risveglio semantico e l’oblio del numero? Se tutto questo fosse capace di scrivere una storia in continua crescita, che alla fine non ha mai un punto fisso, se non il tempo che procede?

Vincenzo Agnetti, Autotelefonata (yes), 1972 (40 x 126 cm) Courtesy Collezione Emilio e Luisa Marinoni
Vincenzo Agnetti, Autotelefonata (yes), 1972 (40 x 126 cm) Courtesy Collezione Emilio e Luisa Marinoni

Di seguito gli interventi dei relatori presenti alla conferenza stampa —

Marco Meneguzzo

Agnetti è un artista difficile e non si possono rendere facili le cose difficili, ma è inutile renderle inutilmente più difficili. Abbiamo cercato allora di rendere accogliente questa mostra per il visitatore, fornendogli vari livelli di spiegazione e lettura, attraverso piccoli scritti che lo stesso Agnetti aveva redatto a proposito delle proprie opere, delle didascalie abbastanza complete e un percorso che pensiamo sia ben costruito, di tipo cronologico e tipologico allo stesso tempo. La tipologia in realtà vince sulla cronologia in certi casi, ma siamo riusciti a costruire per ogni stanza un luogo del pensiero e in ognuna di queste c’è una riflessione su una modalità processuale di Agnetti.

Il problema di Agnetti è quello della parola: la mostra è piena di parole. La parola è la comunicazione. Gli anni ’70 – nel pieno della sua attività iniziata alla fine del ’66 e finita con la sua morte prematura nell’81 – sono stati anni di riflessione su tutto: sulla politica, sulle strutture, su quelle del linguaggio. L’arte concettuale, soprattutto di area nordamericana, ci ha abituato ad una specie di discorso inoppugnabile, con statement in cui la definizione fosse inattaccabile, perché derivante da una logica linguistica: A = A. Agnetti in questi senso è un assoluto eretico, ma è anche concettuale. Il suo problema della comunicazione riguarda il tentativo di una comunicazione al contempo universale ed individuale. Pe risolvere questo problema trasforma per esempio le parole in numeri, e i numeri sono un linguaggio universale sebbene privi di significato. Ma in un certo senso rientra dalla finestra attraverso l’intonazione, la parola detta, il numero detto. Agnetti è un dicitore straordinario, uno storyteller, come si auto-definiva, con una voce magnifica, tra l’altro aveva anche frequentato la Scuola del Piccolo. Quello è l’umano, la comunicazione dell’individuo che mette l’intonazione, la propria fisicità. E c’è una specie di paradosso: sembra che tu non comunichi niente e invece comunichi tutto. Non comunichi niente perché, come si dice nel linguaggio politico, è un “comizio senza significati” con uno che sta sopra ad un trespolo e arringa la folla dicendo dei numeri. Ma l’intonazione di questi numeri ci fa capire qualcosa: la comunicazione universale diventa assolutamente individuale. Questa era un’eresia nel concettuale… ci siamo chiesto spesso se Agnetti fosse davvero un concettuale. Che cos’è altrimenti? Ma siccome le definizioni sono infinitamente più strette degli artisti, forse è il caso di cominciare a ripensare a questa cosa e a rivendicare anche un suo proprio ruolo. Questa specie di paradosso maieutico che lui ha utilizzato si può vedere nel suo ritratto: “Quando mi vidi non c’ero”… questo è Agnetti.

Quanto all’aspetto storico, voi troverete qualche lievissimo accenno all’epoca fortemente ideologizzata degli anni ’70. Il più grande di tutti è “Il progetto per un Amleto politico” del ’73: Amleto che diventa un progetto politico, un comizio…Poi ci sono degli assiomi in cui si ritrova qualcosa che ha a che fare con la storia: tutto quello che nel concettualismo di stretta osservanza non dovrebbe esserci, ma per fortuna in Agnetti c’è. Il problema è: qual è quel lascito? Guardiamo queste cose come un documento storico degli anni 70? Niente affatto.

Basta una frase per costruire attorno un’intera storia, siamo obbligati a farlo. In mostra c’è un feltro che recita: “Oggi io e te abbiamo detto di no”. Germana Agnetti dice che questa frase si può leggere anche in senso politico, pensiamo agli anni ’70… e questo può significare: “Abbiamo detto di no a quello che non ci piace, a questa società, abbiamo fatto la rivoluzione…” Io leggo questa frase oggi come una storia d’amore un po’ travagliata, difficile… “Io e te abbiamo detto di no a noi due, al mondo che ci circonda…” 40 anni di distanza e l’arte si rinnova. È esattamente quello che vogliamo da un’opera d’arte.

Germana Agnetti

È una mostra molto importante: è la prima mostre che abbiamo realizzato dal nuovo corso che l’archivio si è dato. È una mostra che in qualche modo, essendo un’antologica, ha un aspetto anche finale, ma vuole essere anche un inizio, portando all’interno delle sale lo spirito che aveva l’artista. Mio padre pensava che qualunque mostra avesse un perché, ma pensava anche che i quadri dovessero suscitare nell’osservatore una serie di pensieri e che questi pensieri dovessero continuare anche una volta finita la mostra. Quindi un’ambizione molto importante, perché è quella di dialogare con il visitatore della mostra per costituire un pensiero che va avanti verso il futuro, e non a caso la mostra si chiama “A cent’anni da adesso”, perché mio padre era fortemente proiettato verso il futuro. Lui quando pensava a qualcosa pensava alla sua evoluzione. Per esempio il “Libro dimenticato a memoria” è svuotato, dimenticato, ma in realtà leggendo il tableux delle sue parole capiamo che il libro appare come un azzeramento, ma è qualcosa che permette l’evoluzione della cultura, quel dimenticato a memoria che si sedimenta anche biologicamente e permette poi di progredire e evolvere nel pensiero. L’ambizione della mostra è stato riportare questo spirito, prendere il visitatore per mano e fargli conoscere le opere di mio padre. Qui la prima difficoltà, perché ci sono due registri: c’è l’opera dal valore iconico e poi c’è il pensiero che ci sta dietro. La mostra vuole da una parte restituire il valore dell’immagine e lasciare che le opere parlino da sole e dall’altra far vedere che dietro c’era in realtà un lavoro e un pensiero importante.

AGNETTI. A cent’anni da adesso - Palazzo Reale, Milano 2017 - Installation view
AGNETTI. A cent’anni da adesso – Palazzo Reale, Milano 2017 – Installation view
Vincenzo Agnetti, Surplace, 1979. Courtesy Archivio Vincenzo Agnetti
Vincenzo Agnetti, Surplace, 1979. Courtesy Archivio Vincenzo Agnetti
Vincenzo Agnetti, Assioma, Dato un oggetto qualsiasi esso sarà comunque il punto di partenza e di arrivo di un numero infinito di discorsi, 1970 (70 x 70cm). Courtesy Archivio Vincenzo Agnetti
Vincenzo Agnetti, Assioma, Dato un oggetto qualsiasi esso sarà comunque il punto di partenza e di arrivo di un numero infinito di discorsi, 1970 (70 x 70cm). Courtesy Archivio Vincenzo Agnetti