Riflettendo sulle tendenze artistiche del secondo Novecento, Gianni Vattimo ravvisava quale elemento emblematico di un certo atteggiamento artistico di matrice filosofica, il costrutto post-heideggeriano di «rammemorazione sfondante» (Andenken). Funzione apparentemente oscura quanto abissale — l’aggettivo sfondante evoca l’incursione intensa, a tratti violenta, dell’elemento mnemonico in un conglomerato di livelli semantici— tale sintagma descrive la propensione di taluni artisti impegnati, nei primissimi anni Sessanta, nella ri-configurazione dello statuto dell’opera d’arte. La rammemorazione sfondante, infatti, non produce un sapere lineare. Piuttosto, essa permette di “aprire dei confini” e immaginare spiragli di senso. Ha a che fare con l’ombra e con il non detto: come le sentenze di Sibilla, il suo significato brilla per poi sciogliersi nell’etere. Si potrebbe dire che tale funzione sopperisca “in negativo” all’assenza di contenuti tangibili, favorendo un’esperienza “evocativa, rammemorante, rimandante, rinviante” (Vattimo, 1996).
Mi pare che una tensione di questo genere, così evocativa, sottile, che oscilla pericolosamente sulla soglia tra visibile e invisibile, possa cogliere nel profondo la poetica di Vincenzo Agnetti. Ancor più se si considera che è l’artista stesso a definire i suoi “oggetti” — una traccia per sondare l’ambiguità di tale definizione viene sapientemente suggerita nella presente mostra — dei rammentatori, letteralmente, degli strumenti destinati a far esplodere un discorso “genuino”, che li ecceda e li sublimi. Un lavorio costante e rammemorante agita la produzione di Agnetti, certo in modo non conclamato, bensì bruciando tra gli interstizi, quegli spazi vuoti, ma densi, che intercorrono tra un grafema e l’altro, tra il pensiero ed il suo sfondo. Lì, nel silenzio del piano, il senso si estende. Il suonatore di fiori (1982)sfiora uno strumento che non ci è dato vedere: la sua melodia è un silenzio bianco, incompiuto.
La personale Vincenzo Agnetti – Autoritratti Ritratti, Scrivere – Enrico Castellani Piero Manzoni presentata dalla galleria BUILDING di Milano, a cura di Giovanni Iovane, si articola in due percorsi distinti seppur complementari. Tale scelta curatoriale introduce il visitatore alle infinite sfaccettature del linguaggio di Agnetti, evidenziandone la natura intimamente interdisciplinare. Desideroso come altri di evadere, duchampianamente, dal circuito istituzionale dell’arte — di superare quella condizione meramente oggettuale e merceologica in cui l’opera rischiava di incorrere — quest’ultimo concentrò allora i propri sforzi nel tentativo di raggiungere la forma più radicale di presenza: l’assenza.
La ridondanza dell’oggetto d’arte, il «memoranda fisico» nelle parole di Tommaso Trini (1971), consiste nell’eccesso di senso che investe tale oggetto, un senso che trova la propria ragion d’essere nella teoria e nella condivisione critica. Nell’illustrare tale percorso l’esposizione da BUILDING annovera capolavori di autori vicini ad Agnetti, quali il lavoro bifronte in collaborazione con Castellani Litografia Originale (1968) oppure l’iconica Base magica (1961) di Piero Manzoni.
Le connessioni sono molteplici e spesso sotterranee, come il rapporto epistolare tra Agnetti, Manzoni e Castellani nel corso del cosiddetto periodo sudamericano di Agnetti, compiutosi alla metà degli anni Sessanta. L’assenza si fa allora fisica, autoriale, solo per darsi, successivamente, in un’essenza più bruciante.
Un linguaggio che ambisce all’interdisciplinarità e che istituisce di volta in volta i propri strumenti: dal linguaggio verbale all’opera e poi ancora al linguaggio, nell’opera di Agnetti il ruolo del soggetto vedente è paritetico a quello del soggetto creativo. Talvolta i ruoli s’invertono e si confondo. Quando mi vidi non c’ero (1971)catalizza lo sguardo su un fondo opaco e narra di una coincidenza perduta, o di un riconoscimento a tal punto fugace da non poter essere trattenuto. Il montaliano “accamparsi di gitto” di una scoperta impronunciabile, contro la superficie presunta dello “schermo”, giunge sempre, inesorabilmente, “troppo tardi”. Difficile istituire una gerarchia tra parola e immagine nella poetica di Agnetti. Attraverso il medium del ritratto e dell’autoritratto, questi si appresta a rintracciare ciò che persino visivamente si fatica a vedere: il reale che quegli occhi hanno visto o il tempo che si è posato su di essi, come accade in Identikit (1973). D’altro canto, attraverso il linguaggio l’artista può amplificare il valore dell’immagine, sia registrando numericamente gli accadimenti che si sono sovrapposti nel tempo, sia sfruttando le qualità immaginifiche della parola, come testimoniato dalle lettere incise a fuoco dei Feltri. Su un livello differente rispetto al coevo gioco chiastico degli sguardi in Paolini — Giovane che guarda Lorenzo Lotto (1967), per citare un esempio paradigmatico — i personaggi di Agnetti intrattengono un legame segreto con il periodo storico che incarnano. Così, la serie dedicata ad Elisabetta d’Inghilterra (1976) diviene una riflessione sul potere e sul potere insito nelle immagini.
Notevole infine la rassegna che conclude il percorso espositivo: essa, raccogliendo fonti documentarie, fotografie e pubblicazioni dell’epoca, sottolinea ulteriormente la natura peculiare della dialettica parola-segno nell’autore.
Vincenzo Agnetti – Autoritratti Ritratti, Scrivere – Enrico Castellani Piero Manzoni, BUILDING, Milano
Con performances di Italo Zuffi
A cura di Giovanni Iovane
Fino al 19 gennaio 2020
LOCATION AGGIUNTIVE —
Chiostri di Sant’Eustorgio
Cappella Portinari
Cimitero Paleocristiano
Sala Capitolare