Ugo Mulas torna a Milano con un’ampia retrospettiva a Palazzo Reale che raccoglie oltre 200 scatti e circa 80 inediti, molti dei quali raccontano visivamente quel rapporto profondo e di osmosi che il fotografo ha con la sua città d’adozione. La sua carriera comincia negli anni Cinquanta, con i suoi primi reportage nei quali si documenta “quello che non si conosce [..], che non si vede o che non si vuole vedere” di Milano; la periferia con le sue case popolari, i dormitori, o gli arrivi Stazione Centrale, un crocevia di speranze e disillusione nel secondo Dopoguerra. Mulas riesce a tradurre in immagini lo spirito innovativo che investe le arti del tempo, quel fervore culturale e l’afflato sociale che passa per le vie di Brera e in particolare tra i tavoli del Bar Jamaica, all’epoca luogo d’incontro di intellettuali e artisti.
Se in quel periodo la fotografia era divisa in maniera netta tra documentazione e autonomia autoriale Mulas riesce a mettere insieme queste due estremità; la sua è una testimonianza e un’interpretazione critica di ciò che osserva, come spesso ripeteva lo stesso autore: “al fotografo il compito di individuare una sua realtà, alla macchina quello di registrarla nella sua totalità”.
Nella rassegna curata da Denis Curti e dal direttore dell’Archivio Ugo Mulas Alberto Salvadori emerge pertanto il profilo di un fotografo “totale”, una definizione che riprendono da Germano Celant, che si esplica attraverso il lungo percorso espositivo articolato per capitoli tematici atto a sottolineare la straordinaria capacità di sperimentazione dell’artista.
“L’approccio fotografico di Mulas” – aggiunge Curti – “non può essere ricondotto a un unico genere”; in oltre un ventennio l’artista spazia tra ambiti differenti, dalla moda, la musica, il teatro, alla pubblicità, ai ritratti e le collaborazioni con gli artisti, fino ad arrivare alla ricerca sul linguaggio fotografico che si condensa nelle Verifiche (1968-1972). La mostra comincia proprio da quest’ultima serie che viene considerata il suo testamento e dagli studi che la precedono, ossia un insieme di immagini che hanno per tema la fotografia stessa, al fine di individuarne gli elementi costitutivi e il loro valore in sé.
Mulas rivolge la sua attenzione alla produzione estetica della società, mappando i luoghi espositivi e concentrandosi sulle modalità di fruizione delle opere, tra questi si ricordano le immagini scattate nelle sale del Louvre, dell’Ermitage o del Louisiana Museum of Modern Art.
Dal 1954 al 1972 documenta le edizioni della Biennale di Venezia: i diversi allestimenti dei Padiglioni Nazionali, i complessi spostamenti delle opere lungo i canali in laguna, e naturalmente gli artisti e le personalità che animano l’Esposizione dentro e fuori le stanze della manifestazione. Mentre negli Stati Uniti Mulas entrerà in contatto con i protagonisti della Pop Art, grazie al critico Alan Solomon che lo introdurrà alla scena artistica newyorkese.
Nonostante non parlasse bene inglese il fotografo frequenta gli atelier e le abitazioni dei pittori americani (Jasper Johns, Roy Lichtenstein, Andy Warhol o Marcel Duchamp, per citarne alcuni), partecipando silenziosamente alla vita artistica della metropoli, come dimostra, ad esempio, la fotografia della lunga tavolata allestita per il giorno del Ringraziamento nello studio di Robert Rauschenberg (1965). Questa nuova vitalità che si respira tra le mura degli studi dei pittori d’Oltreoceano sprona Mulas a non documentare unicamente l’opera in sé stessa ma a spiegare l’atto creativo, a indagare il contesto in cui nasce l’opera d’arte. In mostra sono presenti anche i provini a contatto delle numerose foto che realizza, i quali forniscono un panorama più ampio dello sguardo dell’artista, come le diverse istantanee che raccontano la genesi del lavoro Numbers (1965) di Jasper Johns.
La serie L’attesa (1964) esemplifica l’operazione concettuale svolta dal fotografo: una sequenza di 5 scatti che riprendono l’amico Lucio Fontana e il momento che precede l’azione, il taglio sulla tela finale; in questo modo Mulas “non fotografa l’opera ma il tempo che costruisce l’opera”, spiega Alberto Salvadori.
Mulas era dotato di una straordinaria empatia che emerge in maniera significativa negli innumerevoli ritratti che realizza, anche su commissione. La mimica facciale di Eduardo De Filippo (1961), l’espressione tesa di Maria Callas (1969), la figura di Giulio Einaudi che emerge in lontananza (1971), Eugenio Montale, Oriana Fallaci e molti altri volti di intellettuali, imprenditori, artisti e scrittori, suoi contemporanei, che vengono immortalati dal fotografo nella loro intimità.
Per la prima volta viene presentata un’intera sezione incentrata su alcuni dei più importanti protagonisti del design e architettura del contesto milanese, quali, ad esempio, Gae Aulenti, Gio Ponti o Achille e Pier Giacomo Castiglioni.
I ritratti di Mulas sono sempre il risultato di un dialogo, di un incontro, così come la sua intera produzione che racconta un’epoca, i suoi luoghi, i suoi interpreti, attraverso il guizzo della sua poetica.
Cover: Ugo Mulas, Edie Sedgwick e Andy Warhol, New York, 1964; Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Courtesy Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli