Fondazione Prada. Nel rigore cartesiano del Podium, si apre una mostra che ha il passo delle strutture e la voce sottile dei sistemi: Typologien. Curata da Susanne Pfeffer, direttrice del MMK di Francoforte, l’esposizione raduna oltre seicento immagini, distribuite secondo il l criterio più antico e più attuale della modernità: la classificazione.
In un’epoca in cui ogni gesto è tracciabile e ogni volto può essere normalizzato in una serie, tornare alla tipologia fotografica del Novecento tedesco significa rivedere l’origine – estetica, ideologica – di quella che oggi chiameremmo un’intelligenza visiva. Non c’è storytelling, non c’è sequenza evolutiva. C’è una logica trasversale che lavora per somiglianze, ripetizioni, scarti minimi: il genere perfetto per chi osserva (o progetta) dal punto di vista dell’algoritmo.
Che la tipologia sia nata in botanica, tra le felci sistematizzate del Seicento, è un dettaglio storico. Ma è nel Novecento tedesco che trova la sua grammatica visiva: severa, antinarrativa, essenzialmente comparativa. La Pfeffer non la celebra, la mette in tensione. Le immagini, disposte su pareti sospese che sembrano moduli, si confrontano senza gerarchie: esseri umani, animali, fermate dell’autobus, condotti industriali, orecchie, stereo. Tutto ha diritto alla stessa superficie, alla stessa attenzione. Perché il punto, qui, non è il soggetto, ma la forma mentale con cui lo si osserva.
Apre Karl Blossfeldt, botanico per formazione, fotografo per necessità e coerenza. Le sue piante – felci, semi, boccioli – si offrono all’obiettivo come strutture: ornamenti vegetali trasformati in matrici visive, elementi modulari di un ordine potenziale. Ogni curva è un pattern, ogni venatura una regola. È la Neue Sachlichkeit che prende forma: severa, formale, antiretorica.
Dopo la botanica, l’archeologia industriale: nei Becher, la tipologia diventa architettura seriale. Più che maestri della ripetizione, sono nodi centrali di una costruzione collettiva del visibile: una grammatica che attraversa il pensiero tedesco del Novecento, dal rigore cartesiano alla registrazione produttiva. Le loro torri d’acqua, altiforni, silos: tutti centrati, stabili, sotto cieli imperturbabili. “Oggetti, non motivi”, dichiaravano. Eppure, a guardarle, quella ossessione per l’uguale assume la forma di una devozione silenziosa. L’archivio, in fondo, non è solo inventario: è un atto di fedeltà alla forma.
E proprio per questo, non stupisce il dialogo con chi li precede o li segue: Sigmar Polke, che gioca con le palme come fossero segnaletica ironica; Umbo, che mette in posa le ombre; Ursula Schulz-Dornburg, che fotografa fermate dell’autobus vuote come se stesse documentando le rovine della logistica. Tutti diversi, tutti metodici. In ciascuno si ripete la stessa ossessione: il tentativo di leggere nel mondo una struttura, di trovare nella superficie una sintassi.




Non è una poetica della ripetizione: è una politica dell’accostamento. Un modo, forse, di allenare lo sguardo per tempi in cui saranno le macchine a leggere per noi. E io, senza ironia, continuo a preferire la secchezza di un reperto industriale alla teatralità di un tramonto.
Poi, come una variazione architettonica sulla grammatica dell’ordine, Thomas Struth. Nei suoi Musei (1989–90), l’umanità osservante diventa a sua volta osservata: piccoli corpi davanti a grandi quadri, assorti, ripetuti. Tipologie in posa, senza saperlo. Devoti inconsapevoli di un culto laico: quello dell’arte come dispositivo di contenimento.
Candida Höfer sposta lo sguardo altrove: biblioteche, zoo. Luoghi della custodia, dell’organizzazione, della rappresentazione del sapere. Ma qui l’ordine comincia a incrinarsi. Gli animali, reclusi in architetture moderniste, sembrano testimoni di una razionalità che li ha esclusi; le biblioteche, abitate solo da sé stesse, espongono la cultura come spazio vuoto pieno di intenzione. Il contenuto sparisce, resta il contenitore. L’archivio, ormai, si autorappresenta.
E così, lentamente, la tipologia slitta. Da metodo di classificazione diventa specchio della fatica moderna di organizzare il mondo. Isa Genzken fotografa magnetofoni da catalogo pubblicitario come fossero sculture: l’hi-fi come reliquia di un’intelligenza ottimista. Andreas Gursky porta la logica al suo collasso: l’iper-visibilità dell’accumulo, il supermercato come topografia dell’eccesso. Tutto è superficie, tutto è pattern. Nessun soggetto, solo serialità. Infine, Wolfgang Tillmans in Concorde (1997) non documenta l’aereo, ma l’ideologia che lo ha prodotto. Il decollo diventa monumento a un’utopia fallita, quella della velocità come salvezza. Le stampe virano al magenta, come se la fotografia stessa avesse assorbito la nostalgia del futuro.
In un corridoio dislocato, Struth riappare con People on the Street (1974-78). La folla urbana attraversa l’immagine senza interagire con essa: individui qualunque, davanti a un’inquadratura fissa. Il flusso è la forma. Poi Heinrich Riebesehl: corpi in ascensore, inquadrati frontalmente, come tipi umani interrotti. Tra un piano e l’altro della vita quotidiana, lo spazio diventa studio, attesa, ripetizione. Nessuna posa, nessuna espressività. Solo la postura standard del vivere.
Il gioco tipologico, a questo punto, si fa più ambiguo. Con Marianne Wex, la classificazione non serve a ordinare ma a incrinare. In Let’s Take Back Our Space (1977-79), Wex seleziona, ritaglia, accosta centinaia di immagini tratte da riviste, manuali, archivi medici, scatti propri. L’oggetto del confronto è la postura fisica, di genere, nello spazio. Il risultato è una coreografia del potere: visibile solo quando viene serializzata. La tipologia qui non descrive: smonta.
Poco dopo, Hans-Peter Feldmann fotografa, uno per uno, tutti gli indumenti di una donna. È un inventario vuoto, costruito per assenza. È sfilata e archivio. In un’altra serie, raduna i morti: li conta, li allinea, li restituisce allo sguardo come se anche il lutto, per essere elaborato, dovesse prima essere classificato.



Si sale al primo piano, e la tipologia si fa volto. O meglio: ritratto. Ma senza residui umanistici, senza la finzione della singolarità. Qui il volto è forma codificata, un dato da leggere più che da incontrare. August Sander apre la sequenza con i suoi ritratti mestiere: operai, contadini, prigionieri politici, tutti ordinati secondo la logica di un sistema. La domanda – siamo ciò che facciamo? – non è retorica, ma ipotesi visiva.
Poi lo spazio si restringe, si fa domestico. Margit Emmrich fotografa interni borghesi e corpi che li abitano: non è il volto a parlare, ma il contesto. L’identità è ambientale, embedded. Con Christian Borchert, la famiglia diventa uno schema ricorrente: geometria affettiva, posa reiterata, composizione codificata. Fotografia come anniversario del già visto. Thomas Struth osserva altre famiglie, ma in Occidente, nella piena logica del benessere. Le sue immagini sono limpide, monumentali. Il volto trattiene. L’intimità è coreografata. Poi, in Thomas Ruff, il ritratto collassa, ingrandito, standardizzato: volti seriali, frontalità neutra, impronte digitali di pelle. Nessuna narrazione, solo superficie leggibile. È una banca dati, non un album di famiglia. Isa Genzken, invece, lo seziona: un solo orecchio, nessun volto. L’identità come dettaglio laterale, periferico, quasi un bug nella griglia. La tipologia, ormai, ha deragliato. Si allarga, esplora soglie non umane. Ursula Böhmer ritrae mucche con la frontalità sacra di una pittura votiva; Rosemarie Trockel restituisce ai cagnolini una profondità silenziosa; Jochen Lempert lavora su piume, ombre, sagome. Il grande alca, specie estinta, torna sotto forma di traccia, silhouette, pelle negata. Anche ciò che non esiste più, o non è mai stato visto, può essere tipologizzato.
In mostra, alcuni pannelli sono lasciati vuoti. Una pausa calcolata che prepara l’ingresso di Gerhard Richter, con due porzioni del suo Atlas: Sils Maria (2003), rarefatta, atmosferica, quasi anodina; e (Olocausto) (1967), dove la fotografia smette di essere strumento e diventa interrogativo. La tipologia, qui, non struttura: esita. L’archivio trattiene più che rivelare. Le immagini, sfocate, non si offrono. C’è un velo che filtra la brutalità, ma non la attenua: la sospende, la ritarda, come se solo così potesse essere tollerata. Richter non decostruisce il sistema: ne espone il punto di collasso. Il risultato non è solo memoria. È il bordo stesso del visibile.
In fondo, è questo che inquieta: sotto l’ordine della serialità si muove sempre una soggettività, una scelta, una posizione, un’intenzione. Ogni accostamento è una sintassi, ogni griglia un campo semantico. La freddezza del metodo non cancella il gesto: lo raffredda, lo mimetizza, lo rende più difficile da contestare. Ma più potente.
Susanne Pfeffer invita all’attenzione. Non alla contemplazione, né alla nostalgia, ma a una forma attiva di lettura lenta. Nell’epoca dei feed e delle auto-generazioni, la tipologia, nella sua ripetizione deliberata, si impone come forma di resistenza cognitiva. Costringe a distinguere. A rallentare. A guardare a lungo.
Il tempo, in mostra, si stratifica. Tra le partizioni mobili, leggere ma calibrate come diagrammi, si accumula una storia visiva che non spiega, ma interroga. Una storia fatta di strutture. Di archivi che osservano chi li osserva. Per questo, alla fine, ciò che resta non è l’immagine. È la domanda: che cosa vediamo quando vediamo qualcosa che somiglia ad altro?
Cover: Thomas Ruff – Immagine della mostra “Typologien: Photography in 20th-century Germany” Curata da Susanne Pfeffer Foto: Roberto Marossi Courtesy Fondazione Prada






