In Calcare il mondo (2018), titolo della prima personale di Lulù Nuti con la galleria Chloe Salgado , le opere in mostra – frutto di una ricerca presso Bikini Art Residency, sul Lago di Como – erano ottenute mediante la messa a punto di una tecnica peculiare, attraverso cui ciascuna scultura nasceva per addizione e sottrazione, modellando e incorporando tipici materiali da costruzione (il cemento, il gesso), mediati dall’impiego di una tecnica pittorica simile all’affresco. Nuti rifletteva in quella circostanza sulle possibilità, concrete, di rimodellare il mondo, realizzandone un calco, un negativo, un conglomerato formale e materiale nato dal gesto e dalla sovrapposizione. Un gesto singolare di appropriazione e riconfigurazione teneva insieme, in un solo istante, molti aspetti riconducibili alla pratica e alla ricerca di questa artista.
Se nell’utilizzo di materiali alternativamente naturali e artificiali è insita una specifica attitudine a guardare il mondo da una prospettiva che alterna consapevolezza e intima convinzione a ristabilire un nuovo terreno di scambio, è nello scarto che si può rintracciare un topos estetico-pratico che per Nuti diventa fondamentale. Nella riflessione sull’Antropocene e sulle durature conseguenze del Capitalocene dal punto di vista ambientale, economico-sociale e culturale, si riverbera questa poetica dello scarto che, a ben guardare, non è soltanto, ed esclusivamente, intimista.
Tube è il titolo che accompagna il dialogo immaginario tra le sei sculture presentate in occasione della terza mostra di Nuti alla galleria Chloe Salgado; sei personnages diventano materia animata: Apeuré, fuyant, timide, regarde sonoi sottotitoli cheli accompagnano, semplicemente le nominano indicandone delle sfumature caratteriali, delle peculiarità. In questa serie di nuovi lavori in ferro forgiato – realizzati con la collaborazione di Jadran Stenico, il fabbro che affianca l’artista dal 2017 – Nuti prosegue la sperimentazione avviata con questo materiale [EGLI DANZA (prima posizione), 2021; TOO MUCH HEAT, NOTHING TO EAT, 2021; In My End Is My Beginning, 2024, il progetto, a cura di Spazio Taverna, frutto di una collaborazione con l’Osservatorio Gravitazionale Europeo, il laboratorio CAOS dell’Università degli Studi di Perugia e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare] arrivando ad attivarne molteplici declinazioni espressive.
L’artista riafferma ancora una volta le potenzialità inscritte nella materia e ancorate a una forma di animismo che parte dall’oggetto e arriva a comprendere un nuovo ecosistema emotivo e, appunto, concreto.
Le sculture – stanti o collocante a parete – non soltanto accompagnano, quasi magicamente, la sinuosa profilazione del tubolare in ferro, disegnando ellissi e semicerchi, tornando su loro stesse e ritrovandosi, ciclicamente, a disegnare un ouroboros, bensì hanno, al contempo, delle specificità che le attivano, rendendole delle “armi” surrogate, quasi delle propaggini cyborg che estendono lo spazio-corpo. Esse presentano delle estremità affilate, che puntano alternativamente verso terra e verso il cielo; oppure sono in grado di evocare forme organiche, senza per questo perdersi dietro a un descrittivismo eccessivo.
Come scrive Noémie Pacaud nel testo critico di accompagnamento alla mostra “Nuti lavora per far emergere, senza corromperla, l’energia vitale che risiede nel potenziale nascosto in tutte le cose. Per fare ciò, coltiva una relazione di dubbio con l’oggetto, provocando movimenti di inversione attraverso giochi di rottura, dissonanza o esaurimento del materiale e delle sue forme. Nonostante la natura apparentemente brutale del ferro battuto, questo approccio, spinto ai suoi limiti, è finalizzato a ricercare finezza e flessibilità, e non esclude una certa forma di sensualità” [traduzione di chi scrive].
Nuti scolpisce, forgia, modella, assembla; la sua pratica è legata, a doppio filo, alla materia e alla spiritualità; essa è inseparabile da una dialettica tipicamente neo-materalista, da cui sembra attingere per fissare due componenti destinate a interagire fittamente: la memoria e la materia, entrambe figlie di una temporalità slabbrata, indispensabile all’adozione di un nuovo sguardo. Tramite l’analisi e l’osservazione sui nostri stati percettivi e sul rapporto di continuità con la natura, lo spazio, il tempo, Lulù Nuti crea delle tracce residuali chiamate ad essere testimoni del passato – così come di un futuro incerto – e in grado di generare una duplice tensione tra presenza e cancellazione, fragilità e resistenza.