Per tutto il mese di maggio una mostra-manifesto ospitata negli spazi di Alchemilla (Palazzo Vizzani, Bologna) ha posto le basi per un ripensamento delle strutture di potere della società nella direzione di una rivendicazione dell’emotività e dell’empatia come motori di scambio sociale e umano. Tu mi chiami a compiere un atto d’amore vede come protagonisti i sei giovani artisti che costituiscono il collettivo Slug, tutti formatisi alla NABA di Milano. Il titolo stesso della collettiva si configura come un enunciato che, nelle parole dell’artista e curatore Kenny Alexander Lawrence (Fort-de-France, Martinica, 1998), “attiva già di per sé un meccanismo di relativizzazione e di partecipazione, aprendo la mostra a una dimensione riflessiva tra artista, opera e spettatore”. Ogni artista ha pertanto messo a nudo la propria soggettività più intima per aprirsi ad un confronto taumaturgico ed empatico con il prossimo; alla base la necessità etica e politica di proporre una via alternativa alla “matrice meccanicista del mondo moderno che ci ha lasciati depauperati di ogni organicità emotiva e relazionale”, come scritto nella dichiarazione di intenti che accompagna la mostra. Esternare il proprio sé implica necessariamente anche un’attenzione nei confronti delle forme sempre più cangianti della corporeità. Lawrence riflette su questi temi da una prospettiva creola: un pensiero che si fonda sull’assunto secondo cui, a causa del meticciamento tra popolazioni africane ed europee nei territori insulari, “nonostante i processi estrattivi e il depauperamento cognitivo e fisico degli schiavi, il corpo, smembrato, viene a ricostituirsi in modo creolo e ricco di sincretismi; più che una semplice somma del bianco e del nero, rappresenta una realtà terza e indipendente che si fa carico dello spessore culturale delle realtà che la compongono”.
Le opere presentate da Lawrence nella prima sala della mostra sono corpi muniti di estroflessioni ambivalentemente morbide e appuntite, che ricordano gli organismi che costituiscono gli ecosistemi mutualistici delle barriere coralline. Nella pratica di Riccardo De Biasi (Pordenone, 2000) è lo scavo archeologico e cognitivo nelle pieghe del presente a fungere da strumento di riemersione inconscia della soggettività. Nella saletta munita di lucernario, si trova una serie di oggetti in ceramica e sapone, replicati dall’artista a partire da uno studio etnografico compiuto in una località del Pordenonese chiamata Borgo Africa: una manciata di strade che prendono il nome dalle nazioni africane, disposte attorno ad un campetto da calcio. Gli oggetti rappresentano in qualche modo una mappatura di quel borgo, evocante un’iconografia al contempo italiana e multiculturale. Così la riflessione avviata da Lawrence si cala in una dimensione reale e tangibile, per quanto sublimata in un ambiente appartato che pare una “cripta con le sue reliquie”, capace di fondere passato e presente. La grande sala centrale è dominata da L’uomo è finito – L’orizzonte è infinito (2022) di Rebecca Momoli (Castelfranco Veneto, 2000), un obelisco nero circondato da una distesa candida di tessuto plissettato che si spande circolarmente tutto intorno, come un’onda d’urto. L’opera si dipana attorno alla dicotomia tra un elemento maschile e assertivo, solido e scuro, che si innalza verticalmente, e un elemento orizzontale e femminile, morbido e chiaro, che ne assedia lo status quo prefigurando rivoluzioni anti-patriarcali.
Anche l’opera Il Giardino della Vergogna (2023) di Nicola Bianco (Pietra Ligure, SV, 1993), nella stanza seguente, è un’installazione che si sviluppa nella dimensione orizzontale: una distesa di pugnali fatti di zucchero rosa si espande in ammassi sul pavimento, come roveti irti nel sottobosco della psiche, manifestazione fisica di traumi irrisolti e stratificati in profondità. Il microclima di Alchemilla e il passaggio costante dei visitatori, interlocutori inconsapevoli dell’artista, provoca col passare dei giorni il progressivo scioglimento delle lame e, dunque, lo smussamento dei traumi fino alla loro risoluzione. L’ambiente, in penombra, è illuminato in modo sinistro da una striscia di luce rossa che esonda dallo spiraglio della porta della sala successiva, che risulta inaccessibile; il sintomo di una presenza ostile che forse scruta il visitatore mentre vaga per la selva di lame (HEARTLESS, 2023). Marco Resta (Milano, 1997) lavora molto con l’estetica dei film horror degli anni Ottanta e Novanta e in particolare riprende l’espediente narrativo ricorrente del mostro come stato degenerativo di un individuo emarginato dalla società, la quale non ne comprende le necessità; “una soggettività che semplicemente desidera ricostituirsi e prendere posizione nella società secondo i propri termini, che non sono quelli comunemente accettati”. La linea rossa e lo spazio destinato a rimanere ignoto dall’altra parte consentono a Resta di sottintendere una presenza metafisica. La mostra è stata inaugurata da una performance concepita da Camilla De Siati (Milano, 1997), dal titolo SPIT ON THE FEAR (2023): una performer imbastisce un monologo sofferto e fisicamente partecipato, in un processo evolutivo e taumaturgico del corpo femminile, che si rifà alla filosofia di Artaud, fondata sul concetto di ribaltamento degli organi, messa in atto sul piano estetico mediante il richiamo alla scena dell’urlo muto sull’Etna in Teorema di Pasolini. Di nuovo centrali sono le modalità attraverso cui il corpo entra in relazione con la psiche e con la soggettività, in preparazione all’avvento di un mondo futuro fondato su presupposti e valori altri.